venerdì 23 marzo 2018

La storia come chiave di lettura.



 Linee teologiche nella «Placuit Deo» 

(Achim Buckenmaier) Nel secolo XIX il filosofo e teologo russo Vladimir Solovyov (1853-1900) forniva contributi significativi alla teologia, non solo a quella ortodossa, ma anche al pensiero della Chiesa universale. In uno scritto del 1886 mise in evidenza il legame intrinseco tra cristologia e Israele. Solovyov non vide in tale legame un elemento formale della discendenza di Gesù, bensì una qualità teologica: 
«L’idea della sacrosanta corporalità e la preoccupazione della realizzazione di quest’idea nella vita di Israele occupano un posto incomparabilmente più importante che in qualsiasi altro popolo. A questo è dedicata una grande parte della Legge mosaica. Ora, se confrontiamo il desidero dei giudei di materializzare in modo concreto il principio divino con il loro impegno nella purificazione e santificazione della nostra natura corporea, comprenderemo facilmente perché proprio l’ebraismo era l’ambiente più adatto per l’incorporazione del Verbo divino».
Si può prendere questa comprensione storicamente sorprendente come chiave di lettura della nuova lettera della Congregazione per la dottrina della fede su alcuni aspetti della salvezza cristiana, perché con i termini «corporalità», «materializzazione», «realizzazione» e «incorporazione» Solovyov ha introdotto delle parole che, in un certo senso, fanno parte del vocabolario cristologico, del discorso su Gesù il Cristo, salvatore universale del mondo, e che ora vengono messe in discussione in alcune tendenze del pensiero moderno. Così il testo attuale si riallaccia direttamente alla dichiarazione Dominus Iesus del 2000.
Placuit Deo evidenzia due tendenze che oscurano la consapevolezza cristiana di come la salvezza proveniente da Dio raggiunge il mondo: il neo-pelagianesimo e il neo-gnosticismo. È un tratto attraente della lettera il fatto che non metta nella stessa barca eresie storiche e tendenze moderne; ma che sia consapevole delle diverse condizioni culturali e umane. Per cui nel documento non sono toccate le eresie classiche. Proprio nel neo-gnosticismo si tratta — come nel suo precedente storico dei secoli immediatamente prima e dopo Cristo — piuttosto di un mainstream, di uno stile di vita, di una sorta di occhiali con cui si guarda al mondo. Perciò la gnosi storica fu un’onda che investì ugualmente sia l’ebraismo che il cristianesimo. Senza dubbio nella lettera della Congregazione questa tendenza gnostica sta al centro dell’interesse, anche perché è diffusa di più nella Chiesa, dove la respiriamo come area invisibile. Anche la tentazione pelagiana, di cui il testo parla, appare piuttosto come una conseguenza della prima: se, infatti, la salvezza si svolge solo nell’intimo dell’uomo, poi l’uomo non dipende in ugual modo né da Dio né da un altro uomo. La redenzione, di cui parla la sacra Scrittura, comprende invece tutti e due: il cuore, da cui esce il male, e il “sociale” (le relazioni sociali) in cui il male si diffonde, come già sapeva Gesù (cfr. Matteo, 7, 18-23). 
Non è un caso che questa variante del fraintendimento fosse sempre legata storicamente a un rigorismo morale: dove l’uomo vuole redimersi da sé, deve per forza farlo da sé, non vedendo più che anche lui come tutti gli altri, ha invece bisogno dell’aiuto vicendevole e del perdono. Qui si vede chiaramente che non si può considerare la misericordia come una preferenza personale, che una volta si mette nel centro della predicazione della Chiesa, mentre un’altra volta no, ma che è radicata nel nucleo della soteriologia biblica.
La partita del neo-gnosticismo si è rivelata relativamente facile nella teologia. Con il suo accento sull’interiorità dell’uomo sembra raccomandarsi in modo particolare come rappresentazione dell’essere cristiano. Però, il prezzo di questo “vantaggio” è alto. Placuit Deo ne menziona tutti i costi: le tracce del Creatore nel mondo diventano invisibili; la preoccupazione per questa terra sparisce; i legami tra gli uomini vengono considerati solamente alla luce dei postulati morali; la storia concreta della salvezza («l’intero disegno d’Alleanza del Padre»; le alleanze con Noè, con Abramo) diventa superflua; il “come” della salvezza (Dio che raduna intorno a sé un popolo) è irrilevante; Cristo perde il suo nome concreto e il suo volto di uomo e di ebreo risulta più sfumato. Questa è la porta attraverso cui penetra nella Chiesa il pluralismo relativistico delle religioni. Il testo dà ampio spazio alla descrizione di queste conseguenze, e così possiamo sperare che i vescovi riconoscano facilmente le rispettive tendenze, che in modi diversi e secondo i contesti culturali diversi tra occidente e oriente si fanno strada anche se non hanno più l’impronta “pelagiana” o “gnostica”. Di volta in volta figurano sotto il titolo della pace tra le religioni, o come motivo di una generica tolleranza, o come necessaria trasformazione della particolare fede biblica in una religione universale. Non c’è un termine così spesso ripetuto nel documento come l’espressione «meramente interiore», come se si trattasse di allontanare un demone dalla Chiesa.
Il rischio per il cammino biblico della salvezza non è questa o quella religione o una qualsiasi ideologia anticristiana: il documento della Congregazione non ne parla affatto. Il rischio è piuttosto un modo di sentire a livello della Chiesa che vuole liberarsi del concreto, del carattere storico, del bisogno esigente del prossimo, del dogma e dell’istituzione, perché li considera come un peso invece che come libertà, come particolarità invece che come universalità, limitazione del pensiero al posto di creatività, per raggiungere il “nucleo”, cioè l’interiorità. Però l’interiorità è nello stesso tempo privata, individuale, soggettiva e così strappa la tunica della Chiesa in mille pezzi. 
Placuit Deo elenca le diverse affermazioni teologiche che oggi sono toccate da questo grande conflitto: la fede nell’unico Salvatore universale; la mediazione della salvezza tramite il popolo di Dio; la forza della grazia nei sacramenti visibili; la trasformazione delle nostre relazioni concrete. In alcuni passaggi il testo parla anche un linguaggio poetico, come se non volesse solo ammonire, ma anche manifestare il proprio stupore: «Il corpo umano è stato modellato da Dio, il quale ha inscritto in esso un linguaggio che invita la persona umana a riconoscere i doni del Creatore e a vivere in comunione con i fratelli». Qui si sente una bella sintonia delle voci di Papa Francesco nella Laudato si’, di san Giovanni Paolo II con la sua “teologia del corpo” e di Benedetto XVI che parlava dell’ecologia dell’uomo. 
In conclusione, il testo cita la lettera di Paolo alla sua comunità preferita: «Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore» (Filippesi, 3, 20). Così viene riassunta l’intenzione del documento, in contrapposizione al neo-pelagianesimo e al neo-gnosticismo: il politeuma del popolo di Dio, la società reale di quelli che Gesù ha chiamato, ha la sua misura extra nos, fuori di noi, non “in” noi. La locuzione “da dove” però indica il luogo terreno, dove la cittadinanza vuole essere realizzata come corpo concreto del Cristo, totalmente realizzato da Dio (per sua grazia) e totalmente dall’uomo (per il suo libero arbitrio).

L'Osservatore  Romano