sabato 10 marzo 2018

IV Domenica di Quaresima – Anno B – 11 marzo 2018. Ambientale, commento al Vangelo e Lectio Divina


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Il Vangelo di questa domenica (Gv 3,14-21) ci presenta il dialogo tra Gesù e Nicodemo. Il Signore afferma che Dio “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. La prima lettura, tratta dal secondo Libro delle Cronache, parla dell’esilio del Popolo d’Israele, che ha disprezzato la benevolenza di Dio. Il Vangelo proclama che c’è una via di ritorno dall’esilio per arrivare alla salvezza: credere all’amore di Dio. La nostra condanna non è quella tragedia o quel dolore, è non credere che Dio ci voglia bene in quella tragedia e in quel dolore. La nostra condanna è essere affezionati alla lamentela, alla tenebra, è non accogliere la tenerezza di Dio. Occorre invece credere che in ogni fatto Dio ci stia salvando: Lui non si è dimenticato di noi.  Ecco la chiave di ogni nostra sfida spirituale: aprirci alla tenerezza di Dio. Questo ci apre alla felicità. Dio può solo offrirci il suo amore, non può imporcelo. Il suo è un regalo che possiamo accogliere o no. Gesù svela il volto di Dio: tutti si possono salvare perché tutti siamo amati. Ma possiamo dire di no. Dio ci supplica: accoglimi, credimi, lasciati amare! (Rosini)


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La gloria dell’amore

Domenica scorsa abbiamo ascoltato nel quarto vangelo l’annuncio che Gesù è ormai il tempio di Dio, cioè il luogo della comunione con Dio (cf. Gv 2,19.21). E abbiamo conosciuto ancora una volta come la lettura del quarto vangelo richieda una fatica più grande per la comprensione del Vangelo, della buona notizia in esso contenuta. Oggi eccoci nuovamente di fronte a un altro brano del vangelo giovanneo, a un testo per molti aspetti difficile: Giovanni, infatti, ha una visione che va colta al di là di quello che scrive, una visione più profonda, che non è – potremmo dire – la nostra visione umana, ma appartiene solo a chi ha la fede in Gesù, dunque una visione ispirata dallo sguardo di Dio sulla vicenda di Gesù.
Giovanni è stato testimone della passione e morte di Gesù sul Golgota, quel venerdì, vigilia della Pasqua, 7 aprile dell’anno 30 della nostra era. Ha visto la sofferenza di Gesù, il disprezzo che egli subiva da parte dei carnefici e soprattutto quel supplizio vergognoso e terribile – “crudelissimum taeterrimumque supplicium”, come lo definisce Cicerone (Contro VerreII,5,165) – che era la croce. Ha visto questa scena con i suoi occhi ma, dopo la resurrezione di Gesù, nella fede piena, nella contemplazione e meditazione di questo evento, giunge a leggerlo in modo altro rispetto ai vangeli sinottici. In quei vangeli Gesù aveva annunciato per tre volte la “necessità” della sua passione, morte e resurrezione, e per tre volte tale annuncio aveva atterrito i discepoli (cf. Mc 8,31-33 e par.; 9,30-32 e par.; 10,32-34 e par.). Anche il quarto vangelo attesta che per tre volte Gesù ha parlato di questa necessitas, ma lo fa con un linguaggio altro: ciò che nei sinottici è infamia, tortura, supplizio in croce, per Giovanni diventa invece un “innalzamento”, cioè una gloria.
Nel nostro brano risuona il primo dei tre annunci fatti da Gesù: “È necessario che il Figlio dell’uomo sia innalzato”. Effettivamente Gesù, appeso al legno, è stato innalzato da terra, ma per Giovanni questo innalzamento da terra non è riducibile all’innalzamento fisico del suo corpo sulla croce, bensì è un essere innalzato gloriosamente e messo in alto da Dio, un essere glorificato, cioè rivelato nella sua gloria. Per Giovanni “essere innalzato” (verbo hypsóo) è anche “essere glorificato” (verbo doxázo: cf. Gv 7,59; 8,54, ecc.), essere sulla croce è essere alla destra del Padre. Per questo Gesù dice anche: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo”, ossia lo avrete materialmente messo in croce, “allora conoscerete che Io Sono (egó eimi: cf. Es 3,14)” (Gv 8,28), che io sono come Dio. E ancora: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Quest’ora dell’innalzamento è dunque l’ora della glorificazione (cf. Gv 12,23; 13,31-32), l’ora nella quale Gesù attira a sé tutta l’umanità (cf. Gv 12,32), l’ora della passione e della croce. Nel quarto vangelo passione e Pasqua sono lo stesso mistero, unico e inscindibile, e l’ora della passione è l’ora dell’epifania dell’amore.
Sì, dobbiamo confessare che questo sguardo giovanneo sulla croce non è facilmente accettabile da noi umani, eppure questa è la vera e profonda comprensione della croce di Gesù: la croce è stata materialmente un supplizio, ma è stata anche un alzare il velo su come Gesù “ha amato i suoi fino all’estremo (eis télos)” (Gv 13,1); è stata una morte da maledetto da Dio e dagli uomini (cf. Dt 21,23Gal 3,13), crocifisso a mezz’aria perché Gesù non era degno né del cielo né della terra, eppure proprio sulla croce egli riconciliava cielo e terra, faceva cadere ogni barriera e apriva il Regno all’umanità, portando l’umanità in Dio (cf. Ef 2,14-16). Sulla croce moriva un uomo solo e abbandonato, ma quest’uomo narrava che “l’amore più grande è dare la vita per gli amici” (cf. Gv 15,13).
Questa è la lettura paradossale della croce fatta da Giovanni. Questo è il Vangelo che Gesù rivela a Nicodemo, un esperto delle Scritture che però Gesù definisce “ignorante” (cf. Gv 3,10): un “maestro in Israele” che non conosce l’azione di Dio nella sua verità profonda. Per cercare di spiegargli questa “necessità” della passione e morte del Messia, Figlio dell’uomo, Gesù tenta un paragone con un fatto avvenuto a Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Secondo il libro dei Numeri, gli ebrei furono attaccati da serpenti mortiferi, e allora Mosè innalzò su un’asta un serpente di bronzo: chi lo guardava, anche se morso dai serpenti restava in vita, era salvato (cf. Nm 21,4-9). Questo racconto antico viene reinterpretato dal libro della Sapienza che fa una lettura altra dell’evento, cogliendo nel serpente “un segno di salvezza” (Sap 16,6): “chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, Salvatore di tutti” (Sap 16,7).
Gesù dunque rivela “le cose del cielo” (Gv 3,12) di cui aveva parlato a Nicodemo, esprimendo la necessitasdell’innalzamento del Figlio dell’uomo, “affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia la vita per sempre ”: innalzamento del Figlio unico di Dio, donato da Dio al mondo proprio a causa del suo amore per il mondo, ossia per tutta l’umanità. Dio è colui che ama, Dio è colui che dona il suo Figlio unico, Dio è colui che lo innalza. In queste azioni di Dio è raccontato il suo amore: dunque la discesa dal cielo (cf. Gv 3,13), l’incarnazione in una vita umana, la passione culminante nel innalzamento sulla croce sono la manifestazione dell’amore di Dio per l’umanità.
Dobbiamo essere molto attenti e vigilanti nell’ascolto: le parole di Gesù a Nicodemo non indicano la croce come abbandono del Figlio alla morte da parte del Padre, ma ci rivelano un amore unico del Padre e del Figlio per tutta l’umanità. Il Figlio Gesù Cristo, proprio quale dono per l’umanità, ha vissuto la sua esistenza donando la vita, suscitando la vita, trasmettendo la vita. Il Padre, a sua volta, non ha voluto la discesa del Figlio e la sua incarnazione per giudicare il mondo, ma per salvarlo attraverso l’adesione e la risposta all’amore. La presenza di Gesù esige che ognuno operi ora la sua scelta, perché ora avviene il giudizio, perché ora di fronte a Gesù è possibile scegliere la tenebra o la luce, che non sono un destino ma dipendono da ciascuno di noi nel suo porsi di fronte all’amore rivelato.
Viene qui adombrato il ministero dell’incredulità, che non è rifiuto di una dottrina, di un’idea o di una morale, ma è qualcosa di molto più radicale: è rifiuto della fiducia, rifiuto della speranza, rifiuto dell’amore. Sì, da una parte c’è l’amore incondizionato di Dio, offerto a tutti gli esseri umani e mostrato nel dono del Figlio unico fatto uomo per essere uno di noi e vivere tra di noi e con noi; dall’altra vi è da parte nostra la possibilità di rispondere all’amore con l’amore o, al contrario, di rifiutare l’amore, di non credere all’amore e così di escluderci, collocandoci nella tenebra dell’odio e della morte. Nel quarto vangelo la fede e il credere sono sempre un operare nell’amore, come Gesù dirà: “Questa è l’opera, l’azione richiesta da Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29).
Ecco dunque la via tracciata di fronte a noi: chi fa la verità, cioè sa rispondere all’amore con azioni, manifesta che queste azioni sono operate da Dio stesso in lui. Così il credente vive già ora la “vita eterna”. “Dio vuole che tutti gli umani siano salvati” (1Tm 2,4), proclama l’Apostolo Paolo; vuole che tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Per questo Dio dona se stesso, il proprio Figlio unico e amato, al mondo che anela alla salvezza. (Bianchi)
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Lectio divina di Mons. Francesco Follo

1) Contemplare Cristo in Croce.
Il cammino quaresimale è come l’esodo degli ebrei, che per quarant’anni pellegrinarono nel deserto. In quel lungo periodo loro furono fortificati dalla prova e vissero un tempo particolare di purificazione e di grazia. Inoltre sperimentarono il dono della benevolenza del Signore che, camminando davanti a loro – come colonna di fumo, di giorno, e di fuoco, di notte – li condusse alla Terra promessa.
Gli Israeliti furono pellegrini nel deserto, perché credevano completamente nel Signore che li conduceva verso la libertà. A un certo punto questa fede piena venne meno e protestatarono e contro Yahvé. Diò li punì con la morsicatura di serpenti velenosi che sbucavano da ogni parte della sabbia. Però, nella sua misericordia Dio si commosse per le loro lacrime di pentimento e soprattutto ascoltò la preghiera pienda di fiducia che Mosè Gli rivolse in favore dei connazionali. Allora ordinò così di fare un serpente di bronzo e di collocarlo su un bastone in un posto elevato del deserto, perché fosse  ben visibile, in modo tale che tutti quelli. che lo guardavono fossero resì immuni dal veleno dei serpenti veri, che imperversavano da tutte le parti nel desero. Ciò facendo gli Israeliti venivano salvati dalla morte per avvelenamento.
In questa domenica il serpente di bronzo, a cui fa cenno il Vangelo, ci invita a riflettere sul Cristo Salvatore Crocifisso destinato a diventare Risorto.
Come fu ordinato a Mosé di innalzare il serpente di bronzo nel deserto per salvare il popolo ebreo, e questo è diventato strumento di salvezza per quanti venivano feriti dai morsi dei serpenti materiali, così  oggi è ordinato a noi di guardare a Cristo innalzato sul legno della Croce. Guardando al Crocifisso, i Cristiani sono salvati dal veleno del serpente spirituale.
Nella conversazione con Nicodemo, di cui il brano evangelico di oggi ne è una parte, Gesù svela il senso più profondo della sua morte e risurrezione: il Figlio dell’uomo deve essere innalzato sul legno della Croce perché chi crede in Lui abbia la vita. Dunque, se ci si vuole salvare dai morsi velenosi del male, dobbiamo guardare a Cristo che dalla Croce sparge amore.
Il guardare Cristo crocifisso con occhi purificati dal dolore permette di vedere l’amore di Dio per noi e di credere all’amore.
Il guardare Cristo crocifisso e seguirlo, prendendo ogni giorno la nostra croce, ci fa diventare persone che amano come Dio ha amato.
Guardiamo alla Croce per farla entrare non solo nei nostri occhi, ma nel nostro cuore e nella nostra vita.  Guradiamo alla Croce per diventare testimoni di Cristo crocifisso. Quando la guardiamo, ovunque essa sia esposta, essa ci ricorda la possibilità di salvezza per la vita. La croce è li per dirci che se crediamo nel Vangelo, in quello che Gesù ha fatto e detto, allora la nostra vita è salva e diventa guaritrice per tutti coloro che ci sono vicini.
2) La gioia della Croce
Sulla croce,  Cristo ha donato la sua vita perché ci ama e il contemplare questo amore, un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui. Ma la Croce non è solamente da guardare con sguardo di adorazione, è anche da abbracciare.
Ma perché è così importante abbracciare la Croce e perché ciò è fonte di gioia? Risponderò a questo domande con un episodio della vita di Madre Teresa di Calcutta. Una giorno questa santa andò da una malata e le disse che doveva essere lieta perché era così sofferente da essere vicina a Cristo. La donna le rispose che allora desiderava allontanarsi da Cristo, perché troppo acuta la sua sofferenza. Madre  Teresa le sorrise, l’abbracciò e continuo a curare le piaghe puzzolenti della malata. La Santa di Calcutta aveva ben capito che dire di abbracciare la croce non era un’esortazione alla rassegnazione dicendo: “soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili croci della vita”. Ma Gesù non dice: “Sopporta la sofferenza”, ma dice: “Prendi su di te l’amore che è dono di sé commosso”, cioè capace di com-patire donandosi fino a morirne.
Non ci è chiesto di di subire passivamente, ma di prendere attivamente parte alla passione di Cristo per il mondo, ricordando che la passione è quella degli innamorati. Prendere la croce significa “prendere su di noi una vita che assomigli alla sua”.
Che cos’è allora la croce?
Per Cristo non fu lo strumento di morte, ma di manifestazione del suo amore “esagerato”. La Croce è la sintesi dell’intera vita di Gesù, vissuta per (pou et par) amore.
Con Cristo la Croce diventa sinonimo di amore. Quindi la frase di Cristo: “Chi vuole dietro a me, prenda la sua croce e mi segua”, possiamo riscriverla così: “Se qualcuno vuole venire con me, preda su di sé il giogo dell’amore, tutto l’amore di cui è capace, e mi segua”.
Naturalmente, sperimenteremo che l’amore ha un prezzo: il prezzo del dono di sé, quindi l’amore ha anche le sue spine e le sue ferite. Queste non offuscano l’amore, lo purificano perché è amore che non possiede l’altro ma lo esalta, e lo allietano, perché si fa esperienza di appartenere, di essere voluti bene e che nel dono di sé che si ha la vera gioia. Di tale gioia parla l’Apostolo Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1, 24).
E ciò è possibile se si mette l’accento non tanto sul fatto che Cristo ci chiede di “perdere” la vita”, ma sul “trovare” la vita.
L’esito finale è “trovare vita”, come è accaduto a Cristo con la risurrezione. Ciò che Cristo offre è quanto tutti gli uomini cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è dato loro di gustare: la fioritura della vita, di una vita che dura per sempre, di una vita lieta e ricca, perché l’amore cresce solo quando si dona.
3) Croce, gioia e verginità.
Potremmo paragonare la croce al letto dove una mamma dà alla luce un figlio. Le doglie del parto non sono un’ostacolo alla gioia di una neo-mamma, ne sono la condizione. Vivere la croce è dare alla luce. Come non pensare al Signore crocifisso che mentre tutto è compiuto (Gv 19,30) inonda d’amore chi è sotto il suo letto di dolore, donando a una madre il figlio e al figlio una madre, per sempre? Morente sulla Croce, Gesù affidò Giovanni alla sua mamma, dicendo: “Donna, ecco tuo figlio” (Gv 19, 26). Se Egli non la chiamò col dolce nome di Madre, fu perché era arrivata per lei l’ora – come arriva per le anime che progrediscono nell’amore – di affidarle un’altra maternità. La maternità spirituale sulle anime; quella maternità che il Salvatore aveva promesso di concedere a tutti quelli che avessero fatto la sua divina volontà: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12, 50).
Fu quello un momento di gioia. Apparentemente, non lo fu, perché quel parto era nel dolore. Di fatto, quella maternità rese Maria causa della nostra letizia, perché la gioia più vera è quella di vedere la luce dentro l’amore di una Madre che ci accetta come suoi figli nati dal dolore del Figlio. Sulla croce, Cristo ha donato la sua vita perché ci ama.
In effetti la vera gioia non consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono per gli altri e nel volersi bene.
Il modo più alto di donarsi a Dio ed agli altri e di volere bene a Dio e al prossimo è quello delle vergini consacrate, che innestano il fiore della loro consacrazione  sulla croce, la cui linfa à la vita di Cristo.
Il fiore è un simbolo caro a Santa Teresa del Bambin Gesù, che utilizza questo simbolo al modo della Sacra Scrittura, per indicare nello stesso tempo la bellezza e la fragilità dell’essere umano in questa vita (cfr Mt 6,28-30). Lei si ricongiunge così ad uno dei significati della parola carne nella Bibbia. Nel libro d’Isaia, il simbolo del “fiore dei campi” caratterizza l’estrema fragilità e la mortalità di “ogni carne”, messa a confronto con la stabilità eterna della “Parola di Dio” (cf. Is 40,6-8). Ma la grande novità del Mistero di Gesù è precisamente che la “Parola si è fatta carne” (Gv 1,14), è diventata fragile e mortale come il fiore dei campi. Santa Teresina utilizza questo simbolo biblico del “fiore dei campi” (o “piccolo fiore”) per se stessa, lo estende a tutta l’umanità (specialmente nel mirabile Prologo del Manoscritto A), ma soprattutto, lo applica a Gesù “nei giorni della sua carne” (cf. Eb 5,7), cioè in tutti i misteri della sua vita terrestre contemplati come misteri d’abbassamento, di piccolezza e di povertà, “essendo proprio dell’Amore abbassarsi” (Ms A 2v). E’ qui che la Santa di Lisieux si congiunge a San Francesco e Santa Chiara d’Assisi che contemplano “l’Amore di questo Dio, Che povero fu deposto nella culla, Povero visse in questo mondo e nudo rimase sulla Croce” (Testamento di Santa Chiara d’Assisi).

Lettura Patristica
San Gregorio di Nissa (335 – 395)
Vita Moysis, nn. 269-277
La strada traversa nuovamente il deserto, e il popolo, nella disperazione dei beni promessi, è esausto per la sete. E Mosè fa di nuovo scaturire per lui l’acqua nel deserto dalla Roccia. Questo termine ci dice cos’è, sul piano spirituale, il sacramento della penitenza. Difatti, coloro che, dopo aver gustato dalla Roccia, si sono sviati verso il ventre, la carne e i piaceri degli Egiziani, sono condannati alla fame e vengono privati dei beni di cui godevano. Ma è data loro la possibilità di ritrovare con il pentimento la Roccia che avevano abbandonato e di riaprire per loro il rivolo d’acqua, per dissetarsi alla sorgente…
Però il popolo non ha ancora imparato a seguire le tracce della grandezza di Mosè. È ancora attratto dai desideri servili e inclinato alle voluttà egiziane. La storia dimostra con ciò che la natura umana è portata a questa passione più che ad altre, accessibile com’è alla malattia per mille aspetti. Ecco perché, alla stregua di un medico che con la sua arte impedisce alla malattia di progredire, Mosè non lascia che il male domini gli uomini fino alla morte. E siccome i loro desideri sregolati suscitavano dei serpenti il cui morso inoculava un veleno mortale in coloro che ne restavano vittime, il grande Legislatore rese vano il potere dei serpenti veri con un serpente in effigie. Sarà però il caso di chiarire l’enigma. Vi è un solo antidoto contro le cattive infezioni ed è la purezza trasmessa alle nostre anime dal mistero della religione. Ora, l’elemento principale contenuto nel mistero della fede è appunto il guardare verso la Passione di colui che ha accettato di soffrire per noi. E Passione vuol dire croce. Così, chi guarda verso di lei, come indica la Scrittura, resta illeso dal veleno del desiderio. Rivolgersi verso la croce vuol dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (Ga 6,14), tanto da essere invulnerabile ad ogni peccato; vuol dire, come afferma il Profeta, inchiodare la propria carne con il timore di Dio (Ps 118,120). Ora, il chiodo che trattiene la carne è la continenza. Poiché quindi il desiderio disordinato fa uscire dalla terra serpenti mortali – e ogni germoglio della concupiscenza cattiva è un serpente -, a motivo di ciò, la Legge ci indica colui che si manifesta sul legno. Si tratta, in questo caso, non del serpente, ma dell’immagine del serpente, secondo la parola del beato Paolo: “A somiglianza della carne di peccato” (Rm 8,3). E colui che si rivolge al peccato, riveste la natura del serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato da colui che ha preso su di se la forma del peccato, che si è fatto simile a noi che ci eravamo rivolti verso la forma del serpente; per causa sua la morte che consegue al morso è fermata, però i serpenti stessi non vengono distrutti. Infatti, coloro che guardano alla Croce non sono più soggetti alla morte nefasta dei peccati, ma la concupiscenza che agisce nella loro carne (Ga 5,17) contro lo Spirito non è interamente distrutta. E, in effetti, i morsi del desiderio si fanno spesso sentire anche tra i fedeli; ma l’uomo che guarda a colui che è stato elevato sul legno, respinge la passione, dissolvendo il veleno con il timore del comandamento, quasi si trattasse di una medicina.
Che il simbolo del serpente innalzato nel deserto sia simbolo del mistero della croce, la parola stessa del Signore lo insegna chiaramente, quando dice: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Jn 3,14)