domenica 10 settembre 2017

Santa Messa nell’area portuale di Cartagena. Omelia del Papa


Santa Messa nell’area portuale di Cartagena. Francesco si congeda dal popolo colombiano con riflessioni di Gabriel García Márquez: «Questo disastro culturale non si rimedia né col piombo né coi soldi, ma con una educazione alla pace, … una legittima rivoluzione di pace che canalizzi verso la vita l’immensa energia creatrice che per quasi due secoli abbiamo usato per distruggerci»
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]

Questo pomeriggio, prima di lasciare la Casa Arcivescovile di Cartagena, il Santo Padre si è recato, attraverso un passaggio interno, nell’attigua Cattedrale dove lo attendevano riuniti circa 300 malati. Al Suo arrivo alla Base Navale di Cartagena, il Santo Padre si trasferisce a bordo di un elicottero su cui decolla alla volta di Contecar, nell’area portuale di Cartagena. Durante il volo, Papa Francesco benedice la statua della "Virgen de la Bahía".
Alle ore 16.30 presiede la Celebrazione Eucaristica nella XXIII domenica del tempo ordinario. Nel luogo della Messa vengono esposte le reliquie di San Pietro Claver e di Santa Maria Bernarda Bütler. Quindi il Papa pronuncia l’Omelia.
Omelia del Santo Padre
Traduzione in lingua italiana

In questa città, che è stata chiamata “l’eroica” per la sua tenacia 200 anni fa nel difendere la libertà ottenuta, celebro l’ultima Eucaristia di questo viaggio in Colombia. Inoltre, da 32 anni, Cartagena de Indias è in Colombia la sede dei diritti umani, perché qui come popolo si stima che «grazie al gruppo missionario formato dai sacerdoti gesuiti Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval e il fratello Nicolás González, accompagnati da molti figli della città di Cartegena de Indias nel secolo XVII, nacque la preoccupazione per alleviare la situazione degli oppressi dell’epoca, essenzialmente quella degli schiavi, per i quali reclamarono il rispetto e la libertà» (Congresso della Colombia, 1985, legge 95, art. 1).
Qui, nel Santuario di san Pietro Claver, dove in maniera continua e sistematica si attua il riscontro, la riflessione e il perseguimento dei progressi e del vigore dei diritti umani in Colombia, la Parola di Dio ci parla di perdono, correzione, comunità e preghiera.
Nel quarto discorso del Vangelo di Matteo, Gesù parla a noi, che abbiamo deciso di puntare sulla comunità, che apprezziamo la vita in comune e sogniamo un progetto che includa tutti. Il testo che precede è quello del pastore buono che lascia le 99 pecore per andare dietro a quella perduta, e quell’aroma profuma tutto il discorso: non c’è nessuno talmente perduto che non meriti la nostra sollecitudine, la nostra vicinanza e il nostro perdono. Da questa prospettiva, si capisce dunque che una mancanza, un peccato commesso da uno, ci interpella tutti ma coinvolge, prima di tutto, la vittima del peccato del fratello; costui è chiamato a prendere l’iniziativa perché chi gli fatto del male non si perda.
In questi giorni ho sentito tante testimonianze di persone che sono andate incontro a coloro che avevano fatto loro del male. Ferite terribili che ho potuto contemplare nei loro stessi corpi; perdite irreparabili che ancora fanno piangere, e tuttavia queste persone sono andate, hanno fatto il primo passo su una strada diversa da quelle già percorse. Perché la Colombia da decenni sta
cercando la pace e, come insegna Gesù, non è stato sufficiente che due parti si avvicinassero, dialogassero; c’è stato bisogno che si inserissero molti altri attori in questo dialogo riparatore dei peccati. «Se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone» (Mt 18,16), ci dice il Signore nel Vangelo.
Abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. Gesù trova la soluzione al male compiuto nell’incontro personale tra le parti. Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva. L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239).
Noi possiamo dare un grande contributo a questo nuovo passo che la Colombia vuole fare. Gesù ci indica che questo cammino di reinserimento nella comunità comincia con un dialogo a due. Nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare. Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini. Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane. A noi è richiesto di generare “a partire dal basso” un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro. Ce lo diceva già quello scrittore così vostro, così di tutti: «Questo disastro culturale non si rimedia né col piombo né coi soldi, ma con una educazione alla pace, costruita con amore sulle macerie di un paese infiammato dove ci alziamo presto per continuare ad ammazzarci a vicenda… una legittima rivoluzione di pace che canalizzi verso la vita l’immensa energia creatrice che per quasi due secoli abbiamo usato per distruggerci e che rivendichi ed esalti il predominio dell’immaginazione» (Gabriel García Marquez, Messaggio sulla pace, 1998).
Quanto abbiamo agito in favore dell’incontro, della pace? Quanto abbiamo omesso, permettendo che la barbarie si facesse carne nella vita del nostro popolo? Gesù ci comanda di confrontarci con quei modelli di comportamento, quegli stili di vita che fanno male al corpo sociale, che distruggono la comunità. Quante volte si “normalizzano” processi di violenza, esclusione sociale, senza che la nostra voce si alzi né le nostre mani accusino profeticamente! Accanto a san Pietro Claver c’erano migliaia di cristiani, molti di loro consacrati… solo un pugno di persone iniziò una corrente contro-culturale di incontro. San Pietro Claver seppe restaurare la dignità e la speranza di centinaia di migliaia di neri e di schiavi che arrivavano in condizioni assolutamente disumane, pieni di terrore, con tutte le loro speranze perdute. Non possedeva titoli accademici rinomati; si arrivò persino ad affermare che era “mediocre” di ingegno, ma ebbe il “genio” di vivere pienamente il Vangelo, di incontrarsi con quelli che altri consideravano solo uno scarto. Secoli più tardi, l’impronta di questo missionario e apostolo della Compagnia di Gesù è stata seguita da santa María Bernarda Bütler, che dedicò la sua vita al servizio dei poveri e degli emarginati in questa stessa città di Cartagena.1
Nell’incontro tra di noi riscopriamo i nostri diritti, ricreiamo la vita perché torni ad essere autenticamente umana. «La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata» (Discorso alle Nazioni Unite, 25 settembre 2015).
Anche Gesù ci fa presente la possibilità che l’altro si chiuda, si rifiuti di cambiare, persista nel suo male. Non possiamo negare che ci sono persone che persistono in peccati che feriscono la convivenza e la comunità: «Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili; alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014), e persino ad una “asettica legalità” pacifista che non tiene conto della carne del fratello, la carne di Cristo. Anche per questo dobbiamo essere preparati e saldamente posizionati su principi di giustizia che non tolgano nulla alla carità. Non è possibile convivere in pace senza avere a che fare con ciò che corrompe la vita e attenta contro di essa. A questo proposito, ricordiamo tutti coloro che, con coraggio e senza stancarsi, hanno lavorato e hanno persino perso la vita nella difesa e protezione dei diritti della persona umana e della sua dignità. Come a loro, la storia chiede a noi di assumere un impegno definitivo in difesa dei diritti umani, qui, a Cartagena de Indias, luogo che voi avete scelto come sede nazionale della loro tutela.
Infine Gesù ci chiede di pregare insieme; che la nostra preghiera sia sinfonica, con toni personali, accenti diversi, ma che levi in modo concorde un unico grido. Sono sicuro che oggi preghiamo insieme per il riscatto di coloro che sono stati nell’errore, e non per la loro distruzione, per la giustizia e non per la vendetta, per la riparazione nella verità e non nella dimenticanza. Preghiamo per realizzare il motto di questa visita: «Facciamo il primo passo!», e che questo primo passo sia in una direzione comune.
“Fare il primo passo” è, soprattutto, andare incontro agli altri con Cristo, il Signore. Ed Egli ci chiede sempre di fare un passo deciso e sicuro verso i fratelli, rinunciando alla pretesa di essere perdonati senza perdonare, di essere amati senza amare. Se la Colombia vuole una pace stabile e duratura, deve fare urgentemente un passo in questa direzione, che è quella del bene comune, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura umana e delle sue esigenze. Solo se aiutiamo a sciogliere i nodi della violenza, districheremo la complessa matassa degli scontri: ci è chiesto di far il passo dell’incontro con i fratelli, avendo il coraggio di una correzione che non vuole espellere ma integrare; ci è chiesto di essere, con carità, fermi in ciò che non è negoziabile; in definitiva, l’esigenza è costruire la pace, «parlando non con la lingua ma con le mani e le opere» (San Pietro Claver), e alzare insieme gli occhi al cielo: Lui è capace di sciogliere quello che a noi appare impossibile, Lui ha promesso di accompagnarci sino alla fine dei tempi, Lui non lascerà sterile uno sforzo così grande.
***
1 Anch’essa ebbe l’intelligenza della carità e seppe trovare Dio nel prossimo; nessuno dei due si paralizzò davanti all’ingiustizia e alle difficoltà. Perché «di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Esort. ap. Evangelii gaiudium, 227).

Spagnolo (originale)
En esta ciudad, que ha sido llamada «la heroica» por su tesón hace 200 años en defender la libertad conseguida, celebro la última Eucaristía de este viaje a Colombia. También, desde hace 32 años, Cartagena de Indias es en Colombia la sede de los Derechos Humanos porque aquí como pueblo se valora que «gracias al equipo misionero formado por los sacerdotes jesuitas Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval y el Hermano Nicolás González, acompañados de muchos hijos de la ciudad de Cartagena de Indias en el siglo XVII, nació la preocupación por aliviar la situación de los oprimidos de la época, en especial la de los esclavos, por quienes clamaron por el buen trato y la libertad» (Congreso de Colombia 1985, ley 95, art. 1).
Aquí, en el Santuario de san Pedro Claver, donde de modo continuo y sistemático se da el encuentro, la reflexión y el seguimiento del avance y vigencia de los derechos humanos en Colombia, la Palabra de Dios nos habla de perdón, corrección, comunidad y oración.
En el cuarto sermón del Evangelio de Mateo, Jesús nos habla a nosotros, a los que hemos decidido apostar por la comunidad, a quienes valoramos la vida en común y soñamos con un proyecto que incluya a todos. El texto que precede es el del pastor bueno que deja las 99 ovejas para ir tras la perdida, y ese aroma perfuma todo el discurso: no hay nadie lo suficientemente perdido que no merezca nuestra solicitud, nuestra cercanía y nuestro perdón. Desde esta perspectiva, se entiende entonces que una falta, un pecado cometido por uno, nos interpele a todos pero involucra, en primer lugar, a la víctima del pecado del hermano; ese está llamado a tomar la iniciativa para que quien lo dañó no se pierda.
En estos días escuché muchos testimonios de quienes han salido al encuentro de personas que les habían dañado. Heridas terribles que pude contemplar en sus propios cuerpos; pérdidas irreparables que todavía se siguen llorando, sin embargo han salido, han dado el primer paso en un camino distinto a los ya recorridos. Porque Colombia hace décadas que a tientas busca la paz y, como enseña Jesús, no ha sido suficiente que dos partes se acercaran, dialogaran; ha sido necesario que se incorporaran muchos más actores a este diálogo reparador de los pecados. «Si no te escucha, busca una o dos personas más» (Mt 18,15), nos dice el Señor en el Evangelio.
Hemos aprendido que estos caminos de pacificación, de primacía de la razón sobre la venganza, de delicada armonía entre la política y el derecho, no pueden obviar los procesos de la gente. No se alcanza con el diseño de marcos normativos y arreglos institucionales entre grupos políticos o económicos de buena voluntad. Jesús encuentra la solución al daño realizado en el encuentro personal entre las partes. Además, siempre es rico incorporar en nuestros procesos de paz la experiencia de sectores que, en muchas ocasiones, han sido invisibilizados, para que sean precisamente las comunidades quienes coloreen los procesos de memoria colectiva. «El autor principal, el sujeto histórico de este proceso, es la gente y su cultura, no es una clase, una fracción, un grupo, una élite. No necesitamos un proyecto de unos pocos para unos pocos, o una minoría ilustrada o testimonial que se apropie de un sentimiento colectivo. Se trata de un acuerdo para vivir juntos, de un pacto social y cultural» (Exhort. ap. Evangelii gaudium, 239).
Nosotros podemos hacer un gran aporte a este paso nuevo que quiere dar Colombia. Jesús nos señala que este camino de reinserción en la comunidad comienza con un diálogo de a dos. Nada podrá reemplazar ese encuentro reparador; ningún proceso colectivo nos exime del desafío de encontrarnos, de clarificar, perdonar. Las heridas hondas de la historia precisan necesariamente de instancias donde se haga justicia, se dé posibilidad a las víctimas de conocer la verdad, el daño sea convenientemente reparado y haya acciones claras para evitar que se repitan esos crímenes. Pero
eso sólo nos deja en la puerta de las exigencias cristianas. A nosotros se nos exige generar «desde abajo» un cambio cultural: a la cultura de la muerte, de la violencia, respondemos con la cultura de la vida, del encuentro. Nos lo decía ya ese escritor tan de ustedes, tan de todos: «Este desastre cultural no se remedia ni con plomo ni con plata, sino con una educación para la paz, construida con amor sobre los escombros de un país enardecido donde nos levantamos temprano para seguirnos matándonos los unos a los otros... una legítima revolución de paz que canalice hacia la vida la inmensa energía creadora que durante casi dos siglos hemos usado para destruirnos y que reivindique y enaltezca el predominio de la imaginación» (Gabriel García Márquez, Mensaje sobre la paz, 1998).
¿Cuánto hemos accionado en favor del encuentro, de la paz? ¿Cuánto hemos omitido, permitiendo que la barbarie se hiciera carne en la vida de nuestro pueblo? Jesús nos manda a confrontarnos con esos modos de conducta, esos estilos de vida que dañan el cuerpo social, que destruyen la comunidad. ¡Cuántas veces se «normalizan» procesos de violencia, exclusión social, sin que nuestra voz se alce ni nuestras manos acusen proféticamente! Al lado de san Pedro Claver había millares de cristianos, consagrados muchos de ellos; sólo un puñado inició una corriente contracultural de encuentro. San Pedro supo restaurar la dignidad y la esperanza de centenares de millares de negros y de esclavos que llegaban en condiciones absolutamente inhumanas, llenos de pavor, con todas sus esperanzas perdidas. No poseía títulos académicos de renombre; más aún, se llegó a afirmar que era «mediocre» de ingenio, pero tuvo el «genio» de vivir cabalmente el Evangelio, de encontrarse con quienes otros consideraban sólo un deshecho. Siglos más tarde, la huella de este misionero y apóstol de la Compañía de Jesús fue seguida por santa María Bernarda Bütler, que dedicó su vida al servicio de pobres y marginados en esta misma ciudad de Cartagena.1
En el encuentro entre nosotros redescubrimos nuestros derechos, recreamos la vida para que vuelva a ser auténticamente humana. «La casa común de todos los hombres debe continuar levantándose sobre una recta comprensión de la fraternidad universal y sobre el respeto de la sacralidad de cada vida humana, de cada hombre y cada mujer; de los pobres, de los ancianos, de los niños, de los enfermos, de los no nacidos, de los desocupados, de los abandonados, de los que se juzgan descartables porque no se los considera más que números de una u otra estadística. La casa común de todos los hombres debe también edificarse sobre la comprensión de una cierta sacralidad de la naturaleza creada» (Discurso a las Naciones Unidas, 25 septiembre 2015).
También Jesús nos señala la posibilidad de que el otro se cierre, se niegue a cambiar, persista en su mal. No podemos negar que hay personas que persisten en pecados que hieren la convivencia y la comunidad: «Pienso en el drama lacerante de la droga, con la que algunos lucran despreciando las leyes morales y civiles, en la devastación de los recursos naturales y en la contaminación; en la tragedia de la explotación laboral; pienso en el blanqueo ilícito de dinero así como en la especulación financiera, que a menudo asume rasgos perjudiciales y demoledores para enteros sistemas económicos y sociales, exponiendo a la pobreza a millones de hombres y mujeres; pienso en la prostitución que cada día cosecha víctimas inocentes, sobre todo entre los más jóvenes, robándoles el futuro; pienso en la abominable trata de seres humanos, en los delitos y abusos contra los menores, en la esclavitud que todavía difunde su horror en muchas partes del mundo, en la tragedia frecuentemente desatendida de los emigrantes con los que se especula indignamente en la ilegalidad» (Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz 2014, 8), e incluso en una «aséptica legalidad» pacifista que no tiene en cuenta la carne del hermano, la carne de Cristo. También para esto debemos estar preparados, y sólidamente asentados en principios de justicia que en nada disminuyen la caridad. No es posible convivir en paz sin hacer nada con aquello que corrompe la vida y atenta contra ella. A este respecto, recordamos a todos aquellos que, con valentía y de forma incansable, han trabajado y hasta han perdido la vida en la defensa y protección de los derechos de la persona humana y su dignidad. Como a ellos, la historia nos pide asumir un compromiso definitivo en defensa de los derechos humanos, aquí, en Cartagena de Indias, lugar que ustedes han elegido como sede nacional de su tutela.
Finalmente Jesús nos pide que recemos juntos; que nuestra oración sea sinfónica, con matices personales, distintas acentuaciones, pero que alce de modo conjunto un mismo clamor.
Estoy seguro de que hoy rezamos juntos por el rescate de aquellos que estuvieron errados y no por su destrucción, por la justicia y no la venganza, por la reparación en la verdad y no el olvido. Rezamos para cumplir con el lema de esta visita: «¡Demos el primer paso!», y que este primer paso sea en una dirección común.
«Dar el primer paso» es, sobre todo, salir al encuentro de los demás con Cristo, el Señor. Y Él nos pide siempre dar un paso decidido y seguro hacia los hermanos, renunciando a la pretensión de ser perdonados sin perdonar, de ser amados sin amar. Si Colombia quiere una paz estable y duradera, tiene que dar urgentemente un paso en esta dirección, que es aquella del bien común, de la equidad, de la justicia, del respeto de la naturaleza humana y de sus exigencias. Sólo si ayudamos a desatar los nudos de la violencia, desenredaremos la compleja madeja de los desencuentros: se nos pide dar el paso del encuentro con los hermanos, atrevernos a una corrección que no quiere expulsar sino integrar; se nos pide ser caritativamente firmes en aquello que no es negociable; en definitiva, la exigencia es construir la paz, «hablando no con la lengua sino con manos y obras» (san Pedro Claver), y levantar juntos los ojos al cielo: Él es capaz de desatar aquello que para nosotros pareciera imposible, Él ha prometido acompañarnos hasta el fin de los tiempos, Él no dejará estéril tanto esfuerzo.
*** 
 1 También ella tuvo la inteligencia de la caridad y supo encontrar a Dios en el prójimo; ninguno de los dos se paralizó ante la injusticia y la dificultad. Porque «ante el conflicto, algunos simplemente lo miran y siguen adelante como si nada pasara, se lavan las manos para poder continuar con su vida. Otros entran de tal manera en el conflicto que quedan prisioneros, pierden horizontes, proyectan en las instituciones las propias confusiones e insatisfacciones y así la unidad se vuelve imposible. Pero hay una tercera manera, la más adecuada, de situarse ante el conflicto. Es aceptar sufrir el conflicto, resolverlo y transformarlo en el eslabón de un nuevo proceso» (Exhort. Ap. Evangelii gaudium, 227).
Traduzione in lingua francese
Dans cette ville, qui a été appelée « l’héroïque » en raison de sa ténacité, il y a 200 ans, dans la défense des libertés acquises, je célèbre la dernière Eucharistie de ce voyage en Colombie. Depuis 32 ans, Carthagène des Indes est en Colombie le siège des Droits Humains parce qu’ici, en tant que peuple, on valorise le fait que « grâce à l’équipe missionnaire formée des prêtres jésuites Pierre Claver y Corberó, Alonso de Sandoval et le Frère Nicolas González, accompagnés de nombreux fils de la ville de Carthagène des Indes, au XVIIème siècle, est né le souci de soulager la situation des opprimés de l’époque, en particulier celle des esclaves, pour qui il réclamèrent un bon traitement et la liberté » (Congrès de Colombie 1985, loi 95, art. 1).
Ici, dans le sanctuaire de saint Pierre Claver où de façon habituelle et systématique se font la rencontre, la réflexion et le suivi de l’avancée et du respect des droits humains en Colombie, la Parole de Dieu nous parle de pardon, de correction, de communauté et de prière.
Dans le quatrième sermon de l’Evangile selon Matthieu, Jésus nous parle, à nous qui avons décidé de parier sur la communauté, à nous qui valorisons la vie en commun et rêvons d’un projet qui inclue tout le monde. Le texte qui précède est celui du bon pasteur qui laisse les 99 brebis pour aller à la recherche de celle qui est perdue, et cet arôme parfume tout le discours : personne n’est perdu au point de ne pas mériter notre sollicitude, notre proximité et notre pardon. Dans cette perspective, on comprend alors qu’une faute, un péché commis par quelqu’un nous interpelle tous mais engage, en premier lieu, la victime du péché du frère ; elle est appelée à prendre l’initiative pour que celui qui lui a fait du tort ne se perde pas.
Ces jours-ci j’ai entendu de nombreux témoignages de ceux qui sont allés à la rencontre de personnes qui leur avaient fait du mal. Blessures terribles que j’ai pu voir sur leurs propres corps. Pertes irréparables qui continuent à être pleurées; cependant ils sont sortis, ils ont fait le premier pas sur un chemin différent de ceux déjà parcourus. Cela fait des décennies que la Colombie cherche la paix à tâtons et, comme l’enseigne Jésus, il n’a pas suffi que deux parties se rapprochent, dialoguent ; il a fallu que beaucoup d’autres acteurs interviennent dans ce dialogue réparateur des péchés. « S’il ne t’écoute pas, prends en plus avec toi une ou deux personnes » (Mt 18, 15), nous dit le Seigneur dans l’Evangile.
Nous avons appris que ces chemins de pacification, de primauté de la raison sur la vengeance, de délicate harmonie entre la politique et le droit, ne peuvent pas ignorer les cheminements des gens. On n’y arrive pas avec l’élaboration de cadres juridiques et d’arrangements institutionnels entre groupes politiques ou économiques de bonne volonté. Jésus trouve la solution au dommage commis dans la rencontre personnelle entre les parties. De plus, il est toujours enrichissant d’introduire dans nos processus de paix l’expérience de secteurs qui, en de nombreuses occasions, ont été rendus invisibles, pour que ce soient précisément les communautés qui peignent elles-mêmes les processus de mémoire collective. « L’auteur principal, le sujet historique de ce processus, c’est le peuple et sa culture, et non une classe, une fraction, un groupe, une élite. Nous n’avons pas besoin d’un projet de quelques-uns destiné à quelques-uns, ou d’une minorité éclairée ou qui témoigne et s’approprie un sentiment collectif. Il s’agit d’un accord pour vivre ensemble, d’un pacte social et culturel » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n. 239).
Nous pouvons grandement contribuer à ce nouveau pas que veut faire la Colombie. Jésus nous signale que ce chemin de réinsertion dans la communauté commence par un dialogue à deux. Rien ne pourra remplacer cette rencontre réparatrice. Aucun processus collectif ne nous dispense du défi de nous rencontrer, de clarifier, de pardonner. Les blessures profondes de l’histoire ont nécessairement besoin d’instances où on rend justice, où l’on donne la possibilité aux victimes de connaître la vérité, où le dommage est convenablement réparé et où il y a des actions claires pour éviter que ces crimes ne se répètent. Mais cela nous place seulement au seuil des exigences chrétiennes. Il nous est demandé de générer «d’en bas» un changement culturel : à la culture de la mort, de la violence, répondons par la culture de la vie, de la rencontre. Cet écrivain, profondément vôtre, profondément de tous, nous le disait déjà : «Ce désastre culturel ne se répare ni avec du plomb ni avec de l’argent, mais par une éducation en faveur de la paix, construite grâce à l’amour
sur les décombres d’un pays enflammé où nous nous levons tôt pour continuer à nous tuer les uns les autres…, grâce à une légitime révolution de paix qui canalise vers la vie l’immense énergie créatrice que, pendant presque deux siècles, nous avons utilisée pour nous détruire, et qui revendique et exalte la prévalence de l’imagination » (Gabriel García Márquez, Mensaje sobre la paz, 1998).
Qu’avons-nous fait en faveur de la rencontre et de la paix ? Qu’avons-nous omis, en permettant que la barbarie se fasse chair dans la vie de notre peuple ? Jésus nous demande d’affronter ces manières de faire, ces styles de vie qui abiment le corps social, qui détruisent la communauté. Que de fois les processus de violence, d’exclusion sociale sont « normalisés », sans que notre voix se lève ni que nos mains accusent prophétiquement ! A côté de saint Pierre Claver il y avait des milliers de chrétiens, dont beaucoup étaient des consacrés… une poignée seulement a initié un courant contre-culturel de rencontre. Il a su restaurer la dignité et l’espérance de centaines de milliers de noirs et d’esclaves qui arrivaient dans des conditions absolument inhumaines, remplis de peur, avec toutes leurs espérances perdues. Il ne possédait pas de titres académiques prestigieux ; mieux, on est allé jusqu’à affirmer qu’il était « faible » d’esprit, mais il a eu le ‘‘génie’’ de vivre intégralement l’Evangile, de rencontrer ceux que les autres ne considéraient que comme des déchets. Des siècles plus tard, les traces de ce missionnaire et apôtre de la Compagnie de Jésus ont été suivies par sainte Maria Bernarda Bütler, qui consacra sa vie au service des pauvres et des marginalisés dans cette même ville de Carthagène1.
Par la rencontre entre nous, nous redécouvrons nos droits, nous recréons la vie pour qu’elle redevienne authentiquement humaine. « La maison commune de tous les hommes doit continuer de s’élever sur une juste compréhension de la fraternité universelle et sur le respect de la sacralité de chaque vie humaine, de chaque homme et de chaque femme ; des pauvres, des personnes âgées, des enfants, des malades, des enfants à naître, des chômeurs, des abandonnés, de ceux qui sont considérés propres à être marginalisés, parce qu’on ne les perçoit plus que comme des numéros de l’une ou l’autre statistique. La maison commune de tous les hommes doit aussi s’édifier sur la compréhension d’une certaine sacralité de la nature créée » (Discours aux Nations Unies, 25 septembre 2015).
Jésus nous prévient aussi de la possibilité que l’autre se ferme, refuse de changer, persiste dans son mal. On ne peut nier qu’il y a des personnes persistant dans le péché qui blessent la cohabitation et la communauté : « Je pense au drame déchirant de la drogue sur laquelle on s’enrichit dans le mépris des lois morales et civiles, à la dévastation des ressources naturelles et à la pollution en cours, à la tragédie de l’exploitation dans le travail. Je pense aux trafics illicites d’argent comme à la spéculation financière, qui souvent prend un caractère prédateur et nocif pour des systèmes économiques et sociaux entiers, exposant des millions d’hommes et de femmes à la pauvreté. Je pense à la prostitution qui chaque jour fauche des victimes innocentes, surtout parmi les plus jeunes, leur volant leur avenir. Je pense à l’abomination du trafic des êtres humains, aux délits et aux abus contre les mineurs, à l’esclavage qui répand encore son horreur en tant de parties du monde, à la tragédie souvent pas entendue des migrants sur lesquels on spécule indignement dans l’illégalité » (Message pour la Journée Mondiale de la Paix 2014, n. 8), et aussi à une « légalité aseptisée » pacifiste qui ne prend pas en compte la chair du frère, la chair du Christ. Voilà aussi pourquoi nous devons nous préparer et nous fonder solidement sur les principes de la justice qui ne diminuent en rien la charité. Il n’est pas possible de cohabiter en paix sans avoir rien fait contre ce qui corrompt la vie et lui porte atteinte. À ce sujet, nous nous souvenons de tous ceux qui, avec courage et inlassablement, ont travaillé et ont perdu la vie dans la défense et la sauvegarde des droits de la personne humaine et de sa dignité. Tout comme à eux, l’histoire nous demande d’assumer un engagement définitif pour la défense des droits humains, ici, à Carthagène des Indes, que vous avez choisie comme siège national de leur défense.
Enfin, Jésus nous demande de prier ensemble ; que notre prière soit symphonique, avec des nuances personnelles, des accentuations diverses, mais qu’elle élève de manière unanime la même clameur. Je suis sûr que nous prions aujourd’hui pour le rachat de ceux qui s’étaient égarés, et non pour leur destruction, pour la justice et non pour la vengeance, pour la réparation dans la vérité et non pour l’oubli. Nous prions pour accomplir le thème de cette visite : « Faisons le premier pas ! », et que ce premier pas soit dans une direction commune.
«Faire le premier pas» c’est surtout aller à la rencontre des autres avec le Christ, le Seigneur. Et il nous demande toujours de faire un pas résolu et sûr vers les frères, renonçant à la prétention d’être pardonnés sans pardonner, d’être aimés sans aimer. Si la Colombie veut une paix stable et durable, elle doit d’urgence faire un pas dans cette direction, qui est celle du bien commun, de l’équité, de la justice, du respect de la nature humaine et de ses exigences. C’est seulement si nous aidons à défaire les noeuds de la violence que nous démêlerons le complexe écheveau des désaccords : il nous est demandé de faire le pas de la rencontre avec les frères, d’oser une correction qui n’entend pas exclure mais intégrer ; il nous est demandé d’être fermes, avec charité, dans ce qui n’est pas négociable ; en définitive, l’exigence est de construire la paix, « en parlant non pas avec la langue mais avec les mains et les oeuvres » (saint Pierre Claver), et de lever ensemble les yeux vers le ciel : lui est capable de faire ce qui semble pour nous impossible, lui a promis de nous accompagner jusqu’à la fin des temps, lui ne laissera pas stériles tant d’efforts.
________________________________
*** 
1 Elle a eu la charité inventive et a su rencontrer Dieu dans le prochain. Aucun des deux n’est resté indifférent devant l’injustice et la difficulté. En effet, « face à un conflit, certains regardent simplement celui-ci et passent devant comme si de rien n’était, ils s’en lavent les mains pour pouvoir continuer leur vie. D’autres entrent dans le conflit de telle manière qu’ils en restent prisonniers, perdent l’horizon, projettent sur les institutions leurs propres confusions et insatisfactions, de sorte que l’unité devient impossible. Mais il y a une troisième voie, la mieux adaptée, de se situer face à un conflit. C’est d’accepter de supporter le conflit, de le résoudre et de le transformer en un maillon d’un nouveau processus » (Exhort. ap. Evangelii gaudium, n.227).
Traduzione in lingua inglese 
In this city, which has been called “heroic” for its tenacity in defending freedom two hundred years ago, I celebrate the concluding Mass of my Visit to Colombia. For the past thirty-two years Cartagena de Indias is also the headquarters in Colombia for Human Rights. For here the people cherish the fact that, “thanks to the missionary team formed by the Jesuit priests Peter Claver y Corberó, Alonso de Sandoval and Brother Nicolás González, accompanied by many citizens of the city of Cartagena de Indias in the seventeenth century, the desire was born to alleviate the situation of the oppressed of that time, especially of slaves, of those who implored fair treatment and freedom” (Congress of Colombia 1985, law 95, art. 1).
Here, in the Sanctuary of Saint Peter Claver, where the progress and application of human rights in Colombia continue to be studied and monitored in a systematic way, the Word of God speaks to us of forgiveness, correction, community and prayer.
In the fourth sermon of Matthew’s Gospel, Jesus speaks to us, who have decided to support the community, to us, who value life together and dream of a project that includes everyone. The preceding text is that of the good shepherd who leaves the ninety-nine sheep to go after the one that is lost. This fact pervades the entire text: there is no one too lost to deserve our care, our closeness and our forgiveness. From this perspective, we can see that a fault or a sin committed by one person challenges us all, but involves, primarily, the victim of someone’s sin. He or she is called to take the initiative so that whoever has caused the harm is not lost.
During these past few days I have heard many testimonies from those who have reached out to people who had harmed them; terrible wounds that I could see in their own bodies; irreparable losses that still bring tears. Yet they have reached out, have taken a first step on a different path to the one already travelled. For decades Colombia has yearned for peace but, as Jesus teaches, two sides approaching each other to dialogue is not enough; it has also been necessary to involve many
more actors in this dialogue aimed at healing sins. The Lord tells us in the Gospel: “If your brother does not listen to you, take one or two others along with you” (Mt 18:16).
We have learned that these ways of making peace, of placing reason above revenge, of the delicate harmony between politics and law, cannot ignore the involvement of the people. Peace is not achieved by normative frameworks and institutional arrangements between well-intentioned political or economic groups. Jesus finds the solution to the harm inflicted through a personal encounter between the parties. It is always helpful, moreover, to incorporate into our peace processes the experience of those sectors that have often been overlooked, so that communities themselves can influence the development of collective memory. “The principal author, the historic subject of this process, is the people as a whole and their culture, and not a single class, minority, group or elite. We do not need plans drawn up by a few for the few, or an enlightened or outspoken minority which claims to speak for everyone. It is about agreeing to live together, a social and cultural pact” (cf. Evangelii Gaudium, 239).
We can contribution greatly to this new step that Colombia wants to take. Jesus tells us that this path of reintegration into the community begins with a dialogue of two persons. Nothing can replace that healing encounter; no collective process excuses us from the challenge of meeting, clarifying, forgiving. Deep historic wounds necessarily require moments where justice is done, where victims are given the opportunity to know the truth, where damage is adequately repaired and clear commitments are made to avoid repeating those crimes. But that is only the beginning of the Christian response. We are required to generate “from below” a change in culture: so that we respond to the culture of death and violence, with the culture of life and encounter. We have already learned this from your own beloved author whom we all benefit from: “This cultural disaster is not remedied with lead or silver, but with an education for peace, built lovingly on the rubble of an angry country where we rise early to continue killing each other... a legitimate revolution of peace which channels towards life an immense creative energy that for almost two centuries we have used to destroy us and that vindicates and exalts the predominance of the imagination” (Gabriel García Márquez, Message About Peace, 1998).
How much have we worked for an encounter, for peace? How much have we neglected, allowing barbarity to become enfleshed in the life of our people? Jesus commands us to confront those types of behaviour, those ways of living that damage society and destroy the community. How many times have we “normalized” the logic of violence and social exclusion, without prophetically raising our hands or voices! Alongside Saint Peter Claver were thousands of Christians, many of them consecrated… but only a handful started a counter-cultural movement of encounter. Saint Peter was able to restore the dignity and hope of hundreds of thousands of black people and slaves arriving in absolutely inhuman conditions, full of dread, with all their hopes lost. He did not have prestigious academic qualifications, and he even said of himself that he was “mediocre” in terms of intelligence, but he had the genius to live the Gospel to the full, to meet those whom others considered merely as waste material. Centuries later, the footsteps of this missionary and apostle of the Society of Jesus were followed by Saint María Bernarda Bütler, who dedicated her life to serving the poor and marginalized in this same city of Cartagena.1
In the encounter between us we rediscover our rights, and we recreate our lives so that they re-emerge as authentically human. “The common home of all men and women must continue to rise on the foundations of a right understanding of universal fraternity and respect for the sacredness of every human life, of every man and every woman, the poor, the elderly, children, the infirm, the unborn, the unemployed, the abandoned, those considered disposable because they are only considered as part of a statistic. This common home of all men and women must also be built on the understanding of a certain sacredness of created nature” (Address to the United Nations, 25 September 2015).
Jesus also shows us the possibility that the other may remain closed, refusing to change, persisting in evil. We cannot deny that there are people who persist in sins that damage the fabric of our coexistence and community: “I also think of the heart-breaking drama of drug abuse, which reaps profits in contempt of the moral and civil laws. I think of the devastation of natural resources
and ongoing pollution, and the tragedy of the exploitation of labour. I think too of illicit money trafficking and financial speculation, which often prove both predatory and harmful for entire economic and social systems, exposing millions of men and women to poverty. I think of prostitution, which every day reaps innocent victims, especially the young, robbing them of their future. I think of the abomination of human trafficking, crimes and abuses against minors, the horror of slavery still present in many parts of the world; the frequently overlooked tragedy of migrants, who are often victims of disgraceful and illegal manipulation” (Message for the World Day of Peace, 2014, 8), and even with a pacifist “sterile legality” that ignores the flesh of our brothers and sisters, the flesh of Christ. We must also be prepared for this, and solidly base ourselves upon principles of justice that in no way diminish charity. It is only possible to live peacefully by avoiding actions that corrupt or harm life. In this context, we remember all those who, bravely and tirelessly, have worked and even lost their lives in defending and protecting the rights and the dignity of the human person. History asks us to embrace a definitive commitment to defending human rights, here in Cartagena de Indias, the place that you have chosen as the national seat of their defence.
Finally, Jesus asks us to pray together, so that our prayer, even with its personal nuances and different emphases, becomes symphonic and arises as one single cry. I am sure that today we pray together for the rescue of those who were wrong and not for their destruction, for justice and not revenge, for healing in truth and not for oblivion. We pray to fulfil the theme of this visit: “Let us take the first step!” And may this first step be in a common direction.
To “take the first step” is, above all, to go out and meet others with Christ the Lord. And he always asks us to take a determined and sure step towards our brothers and sisters, and to renounce our claim to be forgiven without showing forgiveness, to be loved without showing love. If Colombia wants a stable and lasting peace, it must urgently take a step in this direction, which is that of the common good, of equity, of justice, of respect for human nature and its demands. Only if we help to untie the knots of violence, will we unravel the complex threads of disagreements. We are asked to take the step of meeting with our brothers and sisters, and to risk a correction that does not want to expel but to integrate. And we are asked to be charitably firm in that which is not negotiable. In short, the demand is to build peace, “speaking not with the tongue but with hands and works” (Saint Peter Claver), and to lift up our eyes to heaven together. The Lord is able to untie that which seems impossible to us, and he has promised to accompany us to the end of time, and will bring to fruition all our efforts.
***
1 She also had the wisdom of charity and knew how to find God in her neighbour; nor was she paralyzed by injustice and challenges, because “when conflict arises, some people simply look at it and go their way as if nothing happened; they wash their hands of it and get on with their lives. Others embrace it in such a way that they become its prisoners; they lose their bearings, project onto institutions their own confusion and dissatisfaction and thus make unity impossible. But there is also a third way, and it is the best way to deal with conflict. It is the willingness to face conflict head on, to resolve it and to make it a link in the chain of a new process” (Evangelii Gaudium, 227).
Traduzione in lingua portoghese 
Celebro a última Eucaristia desta viagem à Colômbia nesta cidade, que foi chamada «a heróica» pela sua tenácia – há duzentos anos – na defesa da liberdade obtida. E, desde há trinta e dois anos, Cartagena das Índias é também a sede dos Direitos Humanos na Colômbia, porque aqui se valoriza o facto de que, «graças ao grupo missionário formado pelos sacerdotes jesuítas Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval e o irmão Nicolás González, acompanhados por muitos filhos da cidade de Cartagena das Índias, no século XVII, nasceu a preocupação por aliviar a
situação dos oprimidos de então, especialmente a dos escravos, para quem reclamaram bom tratamento e a liberdade» (Congresso da Colômbia, 1985, Lei 95-art. 1).
Aqui, no Santuário de São Pedro Claver, onde de forma contínua e sistemática se procede à verificação, aprofundamento e promoção dos avanços na vigência dos direitos humanos na Colômbia, a Palavra de Deus fala-nos de perdão, correção, comunidade e oração.
No quarto discurso do Evangelho de Mateus, Jesus fala-nos a nós que decidimos apostar na comunidade, que valorizamos a vida em comum e sonhamos com um projeto que inclua a todos. O texto anterior é o do bom pastor que deixa as noventa e nove ovelhas para ir atrás da perdida, e este aroma perfuma todo o discurso: não há ninguém tão perdido que não mereça a nossa solicitude, a nossa proximidade e o nosso perdão. Então, a partir desta perspectiva, compreende-se que uma falta, um pecado cometido por alguém nos interpele a todos, mas a primeira pessoa envolvida é a vítima do pecado do irmão; ela é chamada a tomar a iniciativa para que não se perca quem lhe fez mal.
Nestes dias, ouvi muitos testemunhos de pessoas que saíram ao encontro de quem lhes fizera mal. Feridas terríveis que pude contemplar nos seus próprios corpos, perdas irreparáveis pelas quais se continua a chorar, e contudo aquelas pessoas saíram, deram o primeiro passo num caminho diferente daqueles já percorridos. Porque, há decénios que a Colômbia, tateando, busca a paz e, como ensina Jesus, não foi suficiente que duas partes se encontrassem e dialogassem; foi necessário incorporar muitos mais atores neste diálogo reparador dos pecados. «Se não te der ouvidos, toma contigo mais uma ou duas pessoas» (Mt 18, 16): diz-nos o Senhor no Evangelho.
Aprendemos que estes caminhos de pacificação, de primazia da razão sobre a vingança, de delicada harmonia entre a política e o direito, não podem prescindir das pessoas implicadas nos processos. Não basta o desenho de quadros normativos e acordos institucionais entre grupos políticos ou económicos de boa vontade. Jesus encontra a solução para o dano causado no encontro pessoal entre as partes. Além disso, é sempre enriquecedor incorporar nos nossos processos de paz a experiência de setores que, em muitas ocasiões, foram deixados de lado, para que sejam precisamente as comunidades a revestir os processos de memória coletiva. «O autor principal, o sujeito histórico deste processo, é a gente e a sua cultura, não uma classe, uma fracção, um grupo, uma elite. Não precisamos de um projecto de poucos para poucos, ou de uma minoria esclarecida ou testemunhal que se aproprie de um sentimento coletivo. Trata-se de um acordo para viver juntos, de um pacto social e cultural» (cf. Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 239).
Podemos dar uma grande contribuição para este novo passo que quer dar a Colômbia. Jesus indica-nos que este caminho de reinserção na comunidade começa por um diálogo a dois. Nada poderá substituir este encontro reparador; nenhum processo coletivo dispensa do desafio de nos encontrarmos, de esclarecer, de perdoar. As feridas profundas da história precisam necessariamente de instâncias onde se faça justiça, se dê possibilidade às vítimas de conhecer a verdade, seja devidamente reparado o dano e se atue claramente para evitar que se repitam tais crimes. Mas tudo isto deixa-nos apenas no limiar das exigências cristãs. A nós, é-nos exigido gerar «a partir de baixo» uma mudança cultural: à cultura da morte, da violência, respondemos com a cultura da vida, do encontro. Já no-lo dizia aquele escritor tão querido para vós, tão querido para todos: «Este desastre cultural não se remedeia com chumbo nem com dinheiro, mas com uma educação para a paz, construída com amor sobre as ruínas dum país em chamas onde nos levantamos cedo para continuar a matar-nos uns aos outros... uma revolução legítima de paz que canalize para a vida a imensa energia criativa que, durante quase dois séculos, usamos para nos destruirmos e que reivindique e exalte o predomínio da imaginação» (Gabriel García Márquez, Mensagem sobre a paz, 1998).
Quanto atuamos nós a favor do encontro, da paz? Quanta omissão houve da nossa parte, permitindo que a barbárie se fizesse carne na vida do nosso povo? Jesus manda confrontar-nos com os modelos de comportamento, os estilos de vida que fazem mal ao corpo social, que destroem a comunidade. Quantas vezes se «normalizam» processos de violência, exclusão social, sem que a nossa voz se erga nem as nossas mãos acusem profeticamente! Ao lado de São Pedro Claver, havia milhares de cristãos, muitos deles consagrados... só um punhado iniciou a cultura contracorrente do
encontro. São Pedro soube restaurar a dignidade e a esperança de centenas de milhares de negros e escravos que chegavam em condições absolutamente desumanas, cheios de pavor, com todas as suas esperanças perdidas. Não possuía títulos académicos de renome; chegou-se mesmo a afirmar que era «medíocre» de inteligência, mas teve o «génio» de viver cabalmente o Evangelho, de ir ao encontro daqueles que os outros consideravam apenas um desperdício. Séculos mais tarde, a senda deste missionário e apóstolo da Companhia de Jesus foi seguida por Santa Maria Bernarda Bütler, que dedicou a sua vida ao serviço dos pobres e marginalizados nesta mesma cidade de Cartagena.1
No encontro entre nós, descobrimos novamente os nossos direitos, recriamos a vida para voltar a ser verdadeiramente humana. «A casa comum de todos os homens deve continuar a erguer-se sobre uma reta compreensão da fraternidade universal e sobre o respeito pela sacralidade de cada vida humana, de cada homem e de cada mulher; dos pobres, dos idosos, das crianças, dos doentes, dos nascituros, dos desempregados, dos abandonados, daqueles que são vistos como descartáveis porque considerados meramente como números desta ou daquela estatística. A casa comum de todos os homens deve edificar-se também sobre a compreensão de uma certa sacralidade da natureza criada» (Francisco, Discurso às Nações Unidas, 25/IX/2015).
Jesus prevê também a possibilidade de o outro se fechar, se negar a mudar, persistir no seu mal. Não podemos negar que há pessoas que persistem em pecados que ferem a convivência e a comunidade: «Penso no drama dilacerante da droga com a qual se lucra desafiando leis morais e civis, na devastação dos recursos naturais e na poluição em curso, na tragédia da exploração do trabalho; penso nos tráficos ilícitos de dinheiro como também na especulação financeira que, muitas vezes, assume carateres predadores e nocivos para inteiros sistemas económicos e sociais, lançando na pobreza milhões de homens e mulheres; penso na prostituição que diariamente ceifa vítimas inocentes, sobretudo entre os mais jovens, roubando-lhes o futuro; penso no abomínio do tráfico de seres humanos, nos crimes e abusos contra menores, na escravidão que ainda espalha o seu horror em muitas partes do mundo, na tragédia frequentemente ignorada dos emigrantes sobre quem se especula indignamente na ilegalidade» (Francisco, Mensagem para o Dia Mundial da Paz de 2014, 8), e até numa «assética legalidade» pacifista que não tem em conta a carne do irmão, a carne de Cristo. Também para isto devemos estar preparados e solidamente fundados em princípios de justiça que, em nada, diminuem a caridade. Não é possível conviver em paz, sem fazer nada contra aquilo que corrompe a vida e atenta contra ela. A propósito, lembramos todos aqueles que, ousada e incansavelmente, trabalharam e até perderam a vida em defesa e proteção dos direitos da pessoa humna e da sua dignidade. Como a eles, a história pede-nos para assumirmos um compromisso definitivo na defesa dos direitos humanos, aqui em Cartagena das Índias, lugar que escolhestes como sede nacional da defesa deles.
Por fim, Jesus pede-nos para rezarmos juntos; que a nossa oração seja sinfónica, com matizes pessoais, acentuações diferentes, mas que se erga de maneira concorde num único grito. Estou certo de que hoje rezamos juntos pelo resgate daqueles que erraram e não pela sua destruição, pela justiça e não pela vingança, pela reparação na verdade e não no seu esquecimento. Rezamos para cumprir o lema desta visita: «Demos o primeiro passo», e que este primeiro passo seja numa direção comum.
«Dar o primeiro passo» é sobretudo ir ao encontro dos outros com Cristo, o Senhor. Ele sempre nos pede para darmos um passo decidido e seguro rumo aos irmãos, renunciando à pretensão de sermos perdoados sem perdoar, de sermos amados sem amar. Se a Colômbia quer uma paz estável e duradoura, deve dar urgentemente um passo nesta direção, que é a do bem comum, da equidade, da justiça, do respeito pela natureza humana e as suas exigências. Só se ajudarmos a desatar os nós da violência, é que desenredaremos a complexa teia dos conflitos: é-nos pedido para darmos o passo do encontro com os irmãos, tendo a coragem duma correção que não quer expulsar mas integrar; é-nos pedido para sermos caridosamente firmes naquilo que não é negociável; em suma, a exigência é construir a paz «falando, não com a língua, mas com as mãos e as obras» (São Pedro Claver), e juntos erguermos os olhos ao céu: Jesus Cristo é capaz de desatar aquilo que nos parecia impossível, Ele prometeu acompanhar-nos até ao fim dos tempos, Ele não deixará estéril um esforço tão grande.
***
1 Também ela teve a inteligência da caridade e soube encontrar Deus no próximo; nenhum dos dois ficou paralizado à vista da injustiça e das dificuldades. É que «perante o conflito, alguns limitam-se a olhá-lo e passam adiante como se nada fosse, lavam-se as mãos para poder continuar com a sua vida. Outros entram de tal maneira no conflito que ficam prisioneiros, perdem o horizonte, projectam nas instituições as suas próprias confusões e insatisfações e, assim, a unidade torna-se impossível. Mas há uma terceira forma, a mais adequada, de enfrentar o conflito: é aceitar suportar o conflito, resolvê-lo e transformá-lo no elo de ligação de um novo processo» (Francisco, Exort. ap. Evangelii gaudium, 227)