lunedì 31 luglio 2017

Con la mente e con il cuore



Padre Arturo Sosa. L’omelia per la festa di sant’Ignazio. 

L'Osservatore Romano

(Roma, Chiesa del Gesù, 31 luglio 2017) Sant’Ignazio è un punto di riferimento permanente per noi gesuiti e per le tante persone che si nutrono della sua spiritualità. Celebrare la sua festa in questa chiesa del Gesù a Roma, accanto ai luoghi dove lui è morto e dove prima aveva consumato lunghi anni della sua vita per consolidare i fondamenti della Compagnia di Gesù e per guidarla nella sua diffusione apostolica in tutto il mondo allora conosciuto, è, perciò, un invito ad approfondire il nostro carisma e la sua spiritualità. Celebriamo questa sera sant’Ignazio come fondatore, insieme a nove altri compagni, della Compagnia di Gesù per dare gloria a Dio, che ha dimostrato anche  il suo amore misericordioso, e per “l’aiuto delle anime”. Il concilio Vaticano II ha invitato tutte le congregazione religiose a percorrere il cammino verso le loro fonti carismatiche. I fondatori e le fondatrici non sono soltanto delle brave persone, con una profonda esperienza della misericordia di  Dio e una vita esemplare, ma riconosciamo in loro anche una speciale presenza dello Spirito santo. Sono portatori di doni specifici dello Spirito alla Chiesa e per il mondo. Ogni carisma viene dato per contribuire alla costruzione del corpo della Chiesa e arricchire il suo servizio alla missione del Cristo in cui il Dio uno e trino riconcilia tutte le cose. Il riferimento a sant’Ignazio fondatore è quindi il nostro modo di rinnovare la fedeltà al loro innamorati e riuniti nel suo nome per servire la Chiesa. È l’amore di Gesù che fonda quell’unione di menti e cuori che rende possibile la Compagnia di Gesù, come ha scritto sant’Ignazio nelle Costituzioni (671): «Il principale vincolo reciproco tra loro e con il loro capo è l’amore di Dio nostro Signore. Infatti, se superiore e inferiori staranno molto uniti con la sua divina e somma bontà, lo staranno con tutta facilità anche tra loro, in virtù dell’unico amore, che da essa discenderà e si estenderà a tutto il prossimo, specialmente al corpo della Compagnia». Qui e soltanto qui troviamo le condizioni per il discernimento spirituale in comune tramite il quale lo Spirito santo guida il nostro contributo alla missione del Cristo. Unione di menti non significa quindi condividere una ideologia, una sorta di pensiero unico attorno al quale alziamo i muri per trovare una falsa identità che ci rassicura. I gesuiti, come tutti i cristiani, discepoli del Signore Gesù, sono invitati a riflettere per conto proprio, ad avere delle idee personali, a sviluppare il pensiero e a fare ricerca approfondita in tutti i campi della conoscenza umana. Infatti, la Compagnia di Gesù investe molto tempo ed energie nella preparazione intellettuale dei suoi membri, convinta di avere nell’attività intellettuale un prezioso strumento apostolico per rendere presente la lieta notizia di Gesù in tutte le dimensioni della vita umana, in ogni tempo, cultura e luogo. Ma unione di menti vuol dire avere la mente indirizzata in primo luogo a Dio e quindi alla vocazione alla quale siamo chiamati. Con le parole di sant’Ignazio nella Formula dell’istituto (1), la nostra carta fondamentale, del 1550: chi vuol far parte di questa Compagnia, «faccia anche in modo di avere dinanzi agli occhi, finché vivrà, prima di ogni altra cosa, Iddio, e poi la forma di questo suo Istituto che è una via per arrivare a Lui, e di conseguire con tutte le forze tale fine propostogli da Dio». Anche l’unione dei cuori è possibile solamente se l’amore di Cristo riempie completamente la nostra affettività in modo tale da liberarci da tutte le nostre “affezioni disordinate”, cioè dagli affetti non rivolti soltanto a Dio. Sembrerebbe più semplice unire i cuori che le menti, ma non lo è. Nel cuore di ciascuno di noi si moltiplicano queste affezioni disordinate che ci legano a persone, luoghi, lavori apostolici e diventano lacci così forti da far perdere la libertà interiore, la “indifferenza ” del principio e fondamento degli Esercizi spirituali (23), quella che fa sì «che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l'onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati». L’unione dei cuori corrisponde all’esperienza raccontata dal profeta Geremia, costretto a lasciarsi sedurre dalla forza della presenza di Dio nella sua vita, malgrado tutte le resistenze che egli mette in atto davanti all’incontro con il Signore. Malgrado la sensazione di vergogna e lo scherno continuo di cui è oggetto, riconosce finalmente che l’amore del Signore ha prevalso nel suo cuore: «C’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo». ma non potevo». Non dobbiamo quindi aver paura di percorrere questa strada verso le nostre fonti carismatiche, “in unione di menti e cuori”. Il Signore ha inviato il Paraclito, il suo Spirito, per ricordarci tutto ciò che ci ha insegnato. Non importa quale sia stata la vita prima dell’incontro con il Signore. Lui vuole usare la sua misericordia e regalarci «grazia sovrabbondante insieme alla fede e la carità che è in Cristo Gesù», per metterci al servizio della sua missione, per farci diventare i suoi compagni e affidarci il ministero della riconciliazione (cfr. 2 Corinzi 5, 18). Nostra Signora della Strada sia la nostra guida in questo percorso e ottenga per ciascuno di noi la grazia di camminare, instancabilmente, verso l’origine della nostra fonte di vita, l’amore del Signore Gesù.

:::

La missione della Compagnia. Intervista al generale dei gesuiti 
L'Osservatore Romano 
Come vede la situazione in Venezuela?
Nonostante tutto ho uno sguardo ottimista, anche se ignoro il futuro. Ma grande è ovviamente la preoccupazione per il succedersi delle notizie, come hanno espresso più volte i vescovi e i gesuiti del mio paese, il Papa, il cardinale segretario di Stato e in diversi altri modi la Santa Sede. Ma voglio sottolineare un fatto: il referendum del 16 luglio è stata la manifestazione civile più importante di tutta la storia venezuelana perché vi hanno partecipato sette milioni e mezzo di persone, cioè la metà dell’elettorato. Il percorso del confronto politico sarebbe l’unica via per fermare la violenza e fare veramente politica al servizio delle grandissime necessità del popolo.
Sono passati più di nove mesi dalla sua elezione: come li ha trascorsi?
Con grande pace, con molto lavoro e con la necessità di imparare tante cose nuove, rapidamente. Innanzi tutto con pace spirituale perché ricopro un incarico che non ho cercato e che nemmeno immaginavo potesse ricadere su di me: l’ho ricevuto dai miei fratelli nella congregazione generale, ma lo capisco e lo vivo come qualcosa proveniente dal Signore Gesù, che ho scelto come compagno più di mezzo secolo fa. Il lavoro è davvero tanto e non è semplice conoscere, da questa mia nuova posizione, un corpo così ricco e variegato come la Compagnia di Gesù e i miei compagni nella missione. Tutto questo a gran velocità, perché le decisioni non possono aspettare.
Cosa farebbe oggi Ignazio di Loyola?
Questa è la domanda che mi pongo ogni giorno, insieme a tutti i gesuiti. Innanzi tutto insieme ai tredici consiglieri generali che ogni settimana incontro regolarmente uno a uno, quando non siamo impediti dai rispettivi viaggi, mentre il martedì e il giovedì si riunisce tutto il consiglio. E tre volte l’anno, in gennaio, giugno e settembre, per un’intera settimana abbiamo un incontro allargato ai presidenti delle sei conferenze provinciali e a quattro segretari, in tutto ventiquattro persone.
A cosa mira questo metodo di governo così complesso e impegnativo, che immagino tuttavia molto utile per le decisioni che deve prendere il padre generale?
L’intento è quello di capire appunto le scelte da fare, perché per la Compagnia di Gesù, e dunque per tutti i gesuiti, è fondamentale e necessario essere creativamente fedeli alla propria vocazione e alla missione. Guardando a sant’Ignazio, dobbiamo di continuo percorrere il cammino del ritorno alle nostre fonti originali. Questo ha voluto il concilio Vaticano ii, e questa decisione è stata la salvezza per la vita religiosa, che nella visione cattolica è un’ispirazione dello Spirito.
Ci sono criteri per capire come realizzare questa fedeltà?
Guardiamo all’esperienza dei primi dieci gesuiti, quando Ignazio e i suoi compagni erano a Venezia per andare in Terrasanta. Il progetto si rivelò impossibile e si trasformò nel viaggio a Roma, decisivo per la Compagnia, come raccontano le fonti e come ha ricordato lo scorso autunno, la nostra trentaseiesima congregazione generale riunita per eleggere il preposito. Questo è il modello di Venezia: l’unione della mente e del cuore, la pratica di una vita austera, la vicinanza affettiva ed effettiva ai poveri, il discernimento comune e la disponibilità alle esigenze di tutta la Chiesa individuate ed espresse dal Papa.
Qual è la missione dei gesuiti?
Oggi la Compagnia deve trovare ogni giorno la strada per mettere in pratica la riconciliazione. A tre livelli: con Dio, con gli esseri umani, con l’ambiente. Siamo collaboratori della missione di Cristo, ragione d’essere della Chiesa di cui siamo parte. E proprio l’esperienza di Dio ci restituisce la libertà interiore e ci porta a rivolgere lo sguardo a chi è crocifisso in questo mondo, per capire meglio le cause dell’ingiustizia e contribuire a elaborare modelli alternativi al sistema che oggi produce povertà, disuguaglianza, esclusione e mette a rischio la vita sul pianeta. Dobbiamo così ristabilire una relazione equilibrata con la natura. Contribuire a questa riconciliazione significa anche sviluppare le capacità di dialogo, tra le culture e tra le religioni. Sono appena tornato da un viaggio in Asia: in Indonesia, il più popoloso paese islamico del mondo, ho conversato a lungo con un gruppo di intellettuali musulmani, e in Cambogia ho incontrato monaci buddisti, per testimoniare le possibilità di collaborazione tra le religioni come fattori che favoriscano l’intesa e la convivenza pacifica e come vie per la ricerca spirituale.
Com’è possibile questa riconciliazione?
È fondamentale la conversione: personale, comunitaria “per la dispersione”, ad dispersionem, un termine che significa la necessità apostolica della missione, e istituzionale, per riorganizzare le nostre strutture di lavoro e di governo rivolte appunto alla missione. Che è propria di quanti si sentono chiamati a essere compagni di Gesù. 
L'Osservatore Romano