venerdì 23 giugno 2017

Il non credente e la bibbia.



Colloquio con Massimo Cacciari a cura di Esodo
Esodo n. 2 del aprile-giugno 2017

D. Come si rapporta con la Bibbia chi non crede che abbia autorità da Dio? ci sono diversi modi di lettura, ma quale significato ha per il filosofo la comprensione di questa che, per chi crede, è parola di Dio?
R.La Bibbia è il nostro grande codice. Ignorarlo significa ignorare la storia e la cultura dell’Occidente, significa non capire il nostro presente. È il grande codice cui l’occidente, ha attinto in tutte le sue forme, della letteratura, dell’arte, della filosofia. 
Per tutti, credenti e non, vale questo come vale la necessaria lettura scientifica dei testi che costituiscono la Bibbia, brutta traduzione che nasconde la pluralità dei libri. Il concetto di pluralità è fondamentale per tutto il nostro discorso.
Il non credente, chi non crede che siano parola di Dio, che rapporto ha con questi libri? Ci sono vari modi di approccio, oltre a quello detto all’inizio. È una continua fonte di suggestioni, di problemi, di provocazioni, un permanente invito a pensare, alla discussione sui temi fondamentali di ordine teologico e filosofico. Da questi libri il non credente non può non essere provocato continuamente a riflettere, così come lo è dai grandi testi classici della filosofia e della letteratura: il libro di Giobbe provoca esattamente come una delle tragedie greche. Sono dei “classici”. 
Però c’è un problema. Moltissimi non credenti leggono questi testi come alimento di pensiero e non possono ignorare questa fonte. È inevitabile che così sia. Il non credente deve però porsi la domanda di fondo sul loro significato -e questo è il nodo- perché non può ignorare che la tradizione di questi testi si fonda sulla lettura di quelli che credono che quella parola sia parola di Dio. Non può essere elusa la differenza che questa tradizione vive e trasmette quei libri come parola di Dio e non solo come testi di letteratura, seppur grande, anche fosse la più sublime. 
Per il filosofo questo non è indifferente perché la lettura dei testi entra a far parte della natura del testo stesso, del suo costituirsi, tramandarsi. Il non credente non può far finta che non esista questo problema: è di fronte ad un testo letto come parola di Dio e quindi “Rivelazione”. 
D. Come fa il non credente a confrontarsi con questo punto di vista? Che conseguenze ha per la sua stessa ricerca?
R. La questione seria da porsi è quale conseguenze ha il riconoscere che chi ha elaborato, custodito, trasmesso e vissuto questo testo l’ha fatto in quanto “rivelato” e non produzione solo umana, e che quindi questa parola è “diventata divina”, e, in quanto creduta e vissuta tale, è diventata costitutiva prima di un popolo, e poi di una intera civiltà. Anche il non credente quando legge quei testi non può non tener conto dell’esegesi teologica e della loro continua interpretazione. La tradizione esegetica, infatti, non si aggiunge ma è inerente al testo stesso, in particolare in questo tipo di libri che hanno carattere storico, sono nati e si sono trasformati, sono in divenire nei diversi contesti. La continua interpretazione è interna alla Bibbia stessa.
È però difficile tematizzare questo approccio. Credenti e non, filosofi e teologi, si limitano al dialogo tra diverse interpretazioni, ma di solito non tematizzano questo problema, difficile da affrontare perché mostra ciò che divide, la differenza radicale, e nello stesso tempo impegna ciascuno nel proprio ambito. Lo stesso credente mette spesso tra parentesi questa difficoltà e cerca il dialogo riduttivo su ciò che accomuna, sulla comune parola umana condivisa, sui valori etici e umani certo presenti nella Bibbia, ma che in nessun modo possono esaurirne il significato.
Per la tradizione ebraico - cristiana questi libri si sono, si, andati formando nel tempo, ma letti sempre   come Rivelazione. Questo   è   l’essenziale.   Tutti   i   libri   della   Bibbia   hanno   questa caratteristica, si sono sviluppati, trasformati nel tempo, ma sempre come rivelazione di Dio nella parola umana. La parola umana che la trasmette non può assumere un valore autonomo. 
D. Quale è, quindi, il rapporto tra teologo e filosofo? È diffusa oggi l’idea che il terreno comune sia   il testo biblico come parola umana, con un valore etico e antropologico forse unico, ma mettendo tra parentesi la sua natura specifica.
R. Il teologo, a mio avviso, non può essere non credente mentre può esserci un discorso del filosofo sulla teologia. Ma cosa comporta nella mia lettura il sapere che quei libri sono stati tutti costituiti come parola di Dio? È una questione che non riguarda me come filosofo ma solo il teologo, il credente? Certo rimane anche per il credente il mistero, l’enigma. Non è una parola in cui Dio si manifesta chiaramente e direttamente. È sempre il Dio nascosto, ineffabile, indicibile, che però parla e chiama all’ascolto. Ci sono tante letture credenti, sempre però credenti che quella sia parola di Dio. Anche l’ascolto e la trasmissione scritta sono esegesi, interpretazione. E tutte le letture successive sono così. 
Questa   esegesi   creativa   è   nella   natura   della   Bibbia,   che   diviene   e   si   costituisce continuamente nel tempo esegeticamente e in modo pluralistico e contraddittorio. E il non credente non può ignorare questo. Ma occorre andare alla radice. Non si può fare confusione: o si crede che sia parola di Dio, rivelata, oppure no. È una differenza radicale, originaria, che distingue chi crede o no in questa parola, che io non posso assumere come parola di Dio, ma la assumo come una parola che si è costituita tale attraverso la fede che sia parola di Dio. Si possono discutere i modi di questa formazione. Il credente deve giustificarlo, ma non si può annacquare la differenza alla radice. È parola di Dio che si manifesta nelle parole umane, ma è sempre parola di Dio per chi crede sia tale.
È Rivelazione o no? Se si dice che tutto si risolve nella tradizione e nell’esegesi, questo è quello che pensano i non credenti. Perdendo ogni differenza si va alla “pace” dell’Anticristo! tutte le differenze vengono ricondotte a un pensiero unico, a un’unica forma di esegesi: tutto è divino- niente divino; tutti d’accordo “in sostanza” perché non c’è più alcuna “sostanza”. Bisogna invece rivendicare con forza le nostre differenze. 
È chiaro che c’è una ricerca comune, una base scientifica comune, e che non ci può essere una lettura dogmatica, fondamentalista, letterale. È chiaro che su tutto questo ci si può intendere.  Ma questa parola di Dio nell’essere storia, nella condizione e nella parola umana, è anche rivelazione?
O la storia assorbe in sé tutto l’elemento rivelativo? Questa è la differenza tra la lettura che può fare un non credente da quella che fa il credente. Se il credente dice che tutto è rivelazione, che anche la mia parola può esserlo, ogni differenza scompare. Il credente invece pensa che quella parola storicamente narrata, Logos, sia parola di Dio. Nel Vangelo si dice che il Logos, il Cristo, è Dio, non solo che è la sua parola.
La storia e l’umano non assorbono, non esauriscono la rivelazione. Non è tutto uguale. Dire che Cristo è Uomo-Dio è diverso da dire che è pienamente uomo.
D. La Bibbia è parola di Dio anche quando dice cose che ci danno scandalo? Che contrastano con la mentalità e la cultura attuale? Un pensiero “laico”, che fa presa anche su teologi, chiede di eliminare, ad esempio, i passi che indicano un Dio violento.
R. Possiamo tranquillamente affermare che quando ci dà scandalo affermando una volontà violenta di Dio, si tratti di poveri uomini che non hanno capito, o che addirittura mentono di aver “ascoltato Dio” – quegli stessi che invece, in altri momenti, esaltiamo come autentici profeti? Come è possibile una tale esegesi? E perché allora non pubblicare una “Bibbia castigata”, come si faceva nel Medioevo e non solo con Ovidio? È compito dell’esegesi, io credo, svolgere l’aporia senza presumere di risolverla. Interpretare e  patire
 il senso dell’enigma, dello scandalo di parole di Dio che si contraddicono, tra violenza, giustizia e misericordia, amore. È quanto fa tutta la tradizione rabbinica e poi cristiana: come tenere assieme l’opposto, ciò che nella Bibbia è contraddizione insanabile, senza riduttive armonizzazioni e sintesi concilianti.  Gesù stesso dice che non è venuto a cambiare uno iota della Legge, ma a farne autentica esegesi. A portarla, in qualche modo, oltre se stessa. Gesù stesso è esegesi dell’intera Bibbia, ma afferma di non volerne mutare una virgola. Eppure la trasformazione è certo radicale.  È anche questo  segno di contraddizione scandalosa, che non va semplificata.
Occorre la fatica di studiare e di capire, di vivere la contraddizione perché deve rimanere la differenza scandalosa di chi crede nella parola di Dio. Non è possibile procedere “emendandola”, “laicizzandola”, “eticizzandola”. Possibile che Kierkegaard sia nato invano?! Lo scandalo della fede va affrontato con grande coraggio. Ed è perché è tale che interessa vitalmente anche la filosofia, che non può che essere non-credente. L’unica alternativa altrimenti è quella gnostica: il Dio del primo Patto non è il Dio di Gesù. In fondo, l’unico Vangelo di Verità rimane, allora, quello di Paolo. E siamo a un passo dalle radici più profonde dell’antisemitismo.
D. Credenti e non vorrebbero però aver chiara la parola di Dio: poiché tutto appare “confuso” o si torna ad una lettura fondamentalista, letterale, oppure si tende a cercare assieme la parola per me oggi più vera, senza distinzioni. In che direzione va la tua ricerca?
R. Va tenuta invece insieme la contraddizione, non risolta, tra l’essere, quella rivelata nella Bibbia, parola di Dio e l’essere parola umana. Non è insomma un testo di letteratura, altrimenti si tradiscono l’esperienza e la tradizione di fede di chi ha costruito, considerato, e continua a farlo, questi libri come parola di Dio da vivere e trasmettere come tale. E quindi si tradisce il Logos di Dio che costituisce il suo popolo in questa tradizione. Anche per il non credente non è quindi letteratura, non è la tragedia greca o l’Ulisse di Joyce. Se pensi di leggerlo solo come tale capisci di tradirlo.
L’esegesi teologica e la lettura filosofica sono differenti. La prima si colloca all’interno di questa tradizione perché presuppone che vi sia un Logos mentre quella filosofica si rapporta a questo testo come a un grande codice della nostra civiltà, che gli fa però problema. 
Per una lettura filosofica questo comporta, una volta costatata la differenza radicale tra credere e non in questa parola, il problema del rapporto con la teologia, in un modo che necessariamente si pone sul piano differente della fede (altrimenti si fa teologia). Comporta la necessità di confrontarsi con il problema di Dio e con il significato di questo nome. 
Implica non ignorare l’autorità di fede presente nei testi, impegnata, in questa tradizione vivente, concreta,   storica,   a   capire   tutte   le   scandalose   parole,   tutte   le   scandalose   contraddizioni,   non eliminando ciò che disturba. Un’autorità quindi da interpretare.
Io   riconosco   l’esistenza   del   problema   che   non   si   tratti   solo   di   letteratura,   perché   avverto un’auctoritas di chi ha una vera fede, che non avverto nei filosofi che commentano la Bibbia.
Evidentemente chi ha fede crede che quest’autorità venga da Dio. Altrimenti tutto diventa cultura, lettura come un’altra. Per l’umanesimo oggi, non quello storico in cui forte erano la presenza della teologia e il tentativo di armonizzarla con la filosofia, tutto è parola umana. Tutto è prodotto immerso   nella   dimensione   puramente   umana   e   il   divino   diventa   una   metafora   del   sublime, dell’ineffabile. Cristo diventa umano e non pienamente uomo e pienamente Dio. Ci sono oggi tendenze storico culturali potenti che vanno verso un umanesimo universale, che coinvolgono anche i filosofi, ma una filosofia non è tale se smette di cercare la propria verità, di superare i limiti dell’umanesimo perché la verità in quanto tale deve necessariamente eccedere il divenire umano.
Che filosofia è se non è mossa da questa istanza, da questo eros, e si limita ad accompagnare il divenire storico?  Questo radicale umanesimo in cui viviamo finirebbe col distruggere la teologia, ma minaccia anche la filosofia Nella ricerca e nell’interpretazione continua  il filosofo può “com-petere” con il teologo nello sforzo dell’esegesi, suggerendo nuove idee, aprendo diverse prospettive. Ma la radicale differenza va mantenuta ferma. Il Dio biblico tenta, seduce, mette in discussione, sfida, entra in conflitto: questa è l’abissale differenza con l’Islam. Maometto ha semplificato il messaggio ebraico - cristiano, da cui lui stesso deriva. Per lui gli uomini non sono capaci di sopportare le contraddizioni, le sfide che i
Libri contengono. Quella Parola plurale deve essere ridotta ad Uno per diventare comprensibile.
Perché ad essa sia possibile obbedire. Ecco allora un Libro, una Lingua, un Profeta. Operazione impossibile   per   la   civiltà   giudaico-cristiana.   Ma   ciò   rende   massimamente   ardua   proprio l’obbedienza, apre alla disamina critica, allo stesso ateismo! 
D. Nella chiesa cattolica, con caratteri particolare anche ora, esiste la tendenza a fare del cristianesimo un “umanesimo”, un principio etico. È questo un pericolo di certe interpretazioni dipapa Francesco?
R. Quando la religione s’istituzionalizza, diventa etica, dottrina storica. Il cristianesimo tuttavia non ha mai eliminato lo scandalo interno alla Parola, non ha mai rivisto il suo codice. Papa Francesco pone il tema della Misericordia oltre l’umano, come manifestazione della parola divina. In altri momenti sembra   però   cercare   l’adattamento   all’umanesimo,   al   secolo.   Molti   di   questi   atteggiamenti affascinano   certi   cosidetti   “laici”.   L’”innamoramento”   di   costoro   per   il   Papa   è   un   segnale pericoloso. È una situazione comprensibile: in quanto   questo papa rientra a pieno titolo nella grande tradizione gesuitica. egli non intende affrontare alcuna questione attraverso lo scontro diretto, ma le aggira, se le lascia, per cosi dire, alle spalle. Non perché nutra chissà quale fiducia
nella conversione altrui, ma proprio perché ha vera fede nella Provvidenza, capace gratia  di orientare e guidare, e che, alla fine, vincerà sempre. Non si tratta, cioè, di superficiale e strumentale Anpassung, adattamento, ma di fede negli imperscrutabili disegni del Signore. Occorrerebbe, però, forse, che papa Francesco mettesse in guardia da una certa interpretazione della “Laudato sì” nel senso del Deus sive natura, dell’identificazione di Dio con la natura divinizzata, e tanto più da letture   ecologistiche   del   “Cantico”   francescano.   Per   Francesco   d’Assisi   Laudato   sei   tu   Dio attraverso le creature che sono lodate in quanto lodano Te, manifestano Te, non per se stesse.
Il   problema   oggi   è   la   tendenza   ad   allontanare   le   contraddizioni,   a   edulcorare   le   scandalose differenze. Chi pensa, non deve però annullarle e pacificarle, cercare solo l’accordo, ciò che è comune, ma deve dialogare nelle differenze, che sfidano. Questo soltanto fa procedere il pensiero, sia teologico che filosofico.  È dallo scandalo, da ciò che suscita stupore e angoscia insieme, che procede sia l’esegesi della Rivelazione che il diaporein del filosofo.