martedì 14 marzo 2017

Per un discernimento cristiano nella storia



«Per un discernimento cristiano nella storia: criteri e prospettive» è il tema dell’intervento che il fondatore della Comunità di Bose tiene presso la Pontificia università Urbaniana nell’ambito del convegno internazionale dedicato al discernimento nella vita della Chiesa. Ne pubblichiamo ampi stralci.
(Enzo Bianchi) In questi quattro anni di pontificato Papa Francesco nel suo insegnamento fa riferimento al “discernimento”, al “discernere”, indicandolo come l’operazione più urgente nella vita della Chiesa, che dovrebbe essere conosciuta ed esperita sia dal singolo fedele battezzato sia dalla comunità cristiana nel suo insieme, dal popolo di Dio. Per fare solo un esempio, nell’incontro con i parroci di Roma del 2 marzo scorso, il Papa ha usato ben 30 volte la parola “discernimento/discernere”. 
L’operazione del discernimento è un’esperienza antropologica universale e il mito di Ercole al bivio, invitato a scegliere il proprio cammino, resta ancora archetipica ed eloquente. Il terrestre (adam) appare fin da subito (cfr. Genesi, 3, 1-7), dunque per sempre, chiamato alla scelta tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra l’obbedienza al suo Signore e il rigetto della sua volontà. All’adam spetta la responsabilità del discernimento. E tra le diverse forme di discernimento — o forse meglio: tra i diversi ambiti in cui si esercita il discernimento — si impone anche la lettura della storia, del cammino dell’umanità nel tempo. Si legge nel vangelo secondo Matteo: «Si avvicinarono a Gesù i farisei e i sadducei per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Egli allora, rispondendo, disse loro: “Quando si fa sera, voi dite: ‘Sarà bel tempo, perché il cielo rosseggia’; e al mattino: ‘Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo’. Sapete dunque giudicare (diakrìnein) l’aspetto del cielo, ma non siete capaci (di interpretare) i segni dei tempi (tà semèia tòn kairòn)? Una generazione malvagia e adultera cerca un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona”» (16, 1-4).
In Luca si registra una variante nelle parole di Gesù, rivolte alla folle: «Ipocriti! Sapete discernere (dokimàzein) l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non lo sapete discernere (dokimàzein)?» (12, 56). Gesù invita dunque, con una punta di rimprovero, a leggere i “segni dei tempi”, a valutare questo tempo, e a compiere tale operazione nello spazio della fede, in vista del riconoscimento della sua persona, della sua presenza, della sua identità in mezzo all’umanità e in quell’ora precisa della storia. 
Ciò che infatti è decisivo per ogni discernimento cristiano della storia è la consapevolezza che Gesù Cristo è il segno per eccellenza, il grande segno dato da Dio. Non a caso, fin dal suo venire al mondo Gesù è definito dal vecchio profeta Simeone come «segno di contraddizione/contraddetto (semèion antilegòmenon), per la caduta e la risurrezione delle moltitudini» (Luca, 2, 34). E alla morte apparirà ancora come segno contraddetto, «pietra rigettata (verbo apodokimàzein) dai costruttori, ma divenuta testata d’angolo» (Luca, 20, 17 e par.; Salmi, 118, 22; cfr. 1 Pietro, 2, 6-8) per opera di Dio. Gesù Cristo è il segno dato da Dio, indicato metaforicamente con l’espressione «segno di Giona» (Matteo, 12, 29; 16, 4; Luca, 11, 29), l’unico segno dato a una generazione malvagia e adultera. L’evento della morte e resurrezione di Gesù, evento nella storia, evento umano, umanissimo — come lo definisce il teologo Joseph Moingt — deve essere letto come segno del tempo del compimento; e a sua volta «il tempo» del compimento, «della visita» (ho kairòs tès episkopèsLuca, 19, 44), deve essere riconosciuto come il tempo opportuno, il tempo della salvezza.
Questo è l’inizio della lettura cristiana della storia: Gesù il Nazareno, il figlio di Giuseppe e di Maria, che è nato, è vissuto ed è morto crocifisso, è il segno ultimo e definitivo dato da Dio all’umanità, è la narrazione, la spiegazione, l’exeghèsato (Giovanni, 1, 18) del Dio che nessuno ha visto né contemplato, né mai potrà vedere al di qua della morte (cfr. anche 1 Timoteo, 6, 16). O c’è questo discernimento di Gesù Cristo quale Kýrios, Signore del tempo, quale Alfa e Omega della creazione, oppure non si può discernere con occhio cristiano, o meglio evangelico, conforme al Vangelo, la storia in cui siamo immersi. Solo se c’è questa adesione salda, umile e obbediente al Vangelo che è Gesù Cristo, noi possiamo esercitare il dono del discernimento nel quotidiano, come operazione di scelta di atteggiamenti e di stili. Se invece non siamo abilitati al discernimento di Cristo, per l’azione dello Spirito santo, allora non saremo capaci di discernere e giudicare da noi stessi ciò che è giusto.
Non va assolutamente dimenticato — per questo lo ripeto, servendomi della meditazione paolina in 1 Corinzi, 1, 18-25 — che il segno per eccellenza, Gesù Cristo, è segno di contraddizione che risponde ed è conforme alla «sapienza di Dio» (sophìa tòu theòu1 Corinzi, 1, 21.24) e non alla «sapienza mondana» (sophìa tòu kòsmou1 Corinzi, 1, 20). Può apparire stoltezza, follia, nel suo aspetto di scandalo, e perciò essere inciampo per la «sapienza dei saggi» (sophìa tòn sophòn1 Corinzi, 1, 19; Isaia, 29, 14). Nessuna visione ottimista dei segni dei tempi, dunque, ma una chiaroveggenza profetica, una capacità ermeneutica della fede, un coinvolgimento di tutta la persona del discepolo nella vita Jesu.
Non c’è che una storia, quella comune a tutta l’umanità, e la storia della salvezza non è qualcosa che le sta accanto, o dentro, o al di sopra, ma è la lettura di essa che il credente può fare per fede. Il capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei ci testimonia come sia possibile un’ermeneutica della fede, una lettura cristiana della storia, dichiarando che i chiamati del popolo di Dio sono stati resi testimoni e interpreti della storia di salvezza «per fede» (pìstei, espressione attestata 18 volte in questo capitolo): «per fede Abramo, chiamato da Dio, partì … Per fede soggiornò come forestiero nella terra promessa … Per fede offrì Isacco» (Ebrei, 11, 8.9.19)». Sì, per fede, nella fede, attraverso la fede si possono leggere i segni dei tempi, si può discernere il tempo favorevole, si può interpretare la storia da credenti in Cristo.
Ma in verità tutte le letture della storia contenute nelle sante Scritture ci indicano i momenti essenziali del discernimento. Prendiamo solo come esempio l’esodo, il fondamento della fede di Israele. Nella storia c’è un migrare di popoli, di schiavi, è in atto un cammino di liberazione: siamo in presenza di un grido, di un gemito che sale dall’alienazione della schiavitù e, insieme, di un cammino di libertà. Israele conosce questo evento di liberazione, questo passaggio, e di tale avvenimento prende consapevolezza, operando un’interpretazione che lo porta a proclamare l’azione di salvezza del Signore. Nella storia si registra questo evento: «I figli di Israele partirono da Ramses alla volta di Sukkot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero» (Esodo, 12, 37-38). Ma la lettura nella fede, l’interpretazione, abilita a proclamare: «In quel giorno il Signore fece uscire i figli di Israele dal paese di Egitto» (Esodo, 12, 51). Dal qal all’hiphil! I figli di Israele, prendendo coscienza dell’evento storico, giungono a leggerlo come evento di salvezza e per questo lo celebreranno nella fede con «la cantica del mare» (cfr. Esodo, 15, 1-21) e poi con la festa di Pasqua. Ecco tracciato il cammino del discernimento della storia, una costante in tutte le Scritture fino alla lettura pasquale della morte e resurrezione di Gesù (cfr. soprattutto Luca, 24), un paradigma valido ancora oggi: lettura dell’evento; interpretazione nella fede dell’evento: celebrazione dell’evento nella liturgia.
Si faccia attenzione: non c’è stata e non c’è una “storia santa”, ma la storia umana letta nella fede. C’è la storia, un’unica storia dell’umanità, ma il credente è reso capace, grazie alla fede, di una sua lettura più profonda, che scorga l’azione di salvezza di Dio dove gli altri non la vedono. Emerge con chiarezza che la lettura cristiana della storia è sempre “pratica”, “profetica”: occorre infatti ricevere in dono lo sguardo di Dio, uno sguardo apocalittico, che sa alzare il velo e fare discernimento in verità sotto la scorza dura e sovente ambigua della quale sono rivestiti gli eventi della storia. 
Acquisire la prospettiva di Dio, quella che vede l’avvenire del suo Regno nell’opacità del tempo e degli eventi, è operazione che si situa nell’economia del dono; e non si dimentichi che il dono è fatto a chi è reso conforme al pensare e al sentire (phronèin) che fu in Cristo Gesù (cfr. Filippesi, 2, 5), perché solo così si partecipa alla koinonìa, alla comunione con lui. È così che lo sguardo del credente accoglie il male e il bene, la morte e la vita, la gioia e la fatica, e sa leggere tutto nell’ottica dell’onnipotenza dell’amore di Dio, del suo amore viscerale, della sua compassionevole misericordia. Solo in questa prospettiva l’abbassamento, la kènosis concreta nella storia del Figlio di Dio, fino alla sua ignominiosa morte in croce (cfr. Filippesi, 2, 6-8), può essere letta dal quarto vangelo come gloria e innalzamento (cfr. Giovanni, 3, 14; 8, 28; 12, 32; cfr. anche Filippesi, 2, 9-11). Solo in questa prospettiva, dove vediamo il peccato che abbonda, possiamo intravedere la grazia che sovrabbonda (cfr. Romani, 5, 20).
La storia diventa dunque rivelazione e salvezza, e la parola di Dio che fa la sua corsa nel mondo (cfr. 2 Tessalonicesi, 3, 1) si accresce proprio grazie alla storia e diventa sovraconoscenza (epìgnosis) del mistero donata al discepolo. Insomma, il discernimento cristiano della storia non è tanto quello affidato ai racconti, alla Scrittura, e quindi depositato nei libri, ma è quello vissuto da chi ha sperimentato nella sua carne la sequentia sancti Evangelii, la sequela di Cristo (fino a diventare, per grazia, una “pagina di Vangelo” nella sua vita); da chi, resosi sempre più conforme all’uomo Gesù, è stato testimone della presenza di Dio tra i suoi fratelli e le sorelle. I santi, quali Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, o, più recentemente Dietrich Bonhoeffer, Thomas Merton, Óscar Romero, hanno saputo fare una lettura cristiana della storia discernendo i segni del regno di Dio nei poveri, nei perseguitati, nei sofferenti, cioè in quelli che Gesù ha chiamato “Beati” (cfr. Matteo, 5, 1-12) in quanto veri segni, nella storia, del regno di Dio veniente. Il loro sguardo liberato da se stessi e da ogni preoccupazione autoreferenziale, liberato dal peso di ogni potere religioso o mondano, li abilitava a discernere e indicare i luoghi e i tempi nei quali Dio dona ancora alla sua comunità la sua parola.
In questo senso gli inviti che Papa Francesco rivolge costantemente alla Chiesa sono inviti preziosi, inviti al discernimento, non in vista dell’acquisizione di una santità ascetica, bensì di una santità che sappia contaminarsi con l’umanità, incontrandosi e scontrandosi con il suo peccato. O la Chiesa sa discernere coloro per i quali Gesù è venuto nel mondo, i poveri e i peccatori, oppure non sa nemmeno come collocarsi nella storia di salvezza: altro che farne una lettura cristiana. Ben sapendo che il discernimento nasce sempre dal duplice ascolto dell’evangelo eterno (Apocalisse, 14, 6), del «Cristo che è lo stesso ieri, oggi e per sempre» (Ebrei, 13, 8) e dell’oggi storico, delle contingenze presenti nei vari luoghi in cui gli uomini vivono. Senza questo ascolto di Dio e dell’umanità come sarebbe possibile giungere a vivere il comando dell’amore di Dio e del prossimo?
L'Osservatore Romano