martedì 14 marzo 2017

Matrimonio, Eucarestia e Dottrina sociale della Chiesa



di  Stefano Fontana.
Tra i Sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia da un lato e la Dottrina sociale della Chiesa dall’altro c’è una stretta connessione. La relazione potrebbe sembrare strana, se si considera che il primo ambito riguarda la vita sacramentale nella Chiesa e il secondo, invece, l’impegno nella società e nella politica. Le due dimensioni, però, non sono estranee perché tutto l’impegno dei cristiani nella costruzione del mondo secondo il piano di Dio e per la salvezza dell’uomo trova motivazione teologica e sostegno di grazia proprio nel sacramento eucaristico e in tutti i sacramenti, da cui viene la rigenerazione che poi si traduce anche nella trasformazione delle relazioni sociali. Per questo se nella Chiesa si indebolisce il senso del valore dei sacramenti e, in particolare, il rapporto tra matrimonio ed eucarestia, anche l’impegno sociale e politico dei cristiani perde di vista il suo fondamento ultimo e il suo autentico significato, riducendosi a semplice azione sociale solidale.
Sul matrimonio si fonda la famiglia e sulla famiglia si fonda la società. Al contrario: senza matrimonio non abbiamo né famiglia né società, ma un insieme di relazioni individuali variamente intrecciate e prive di un ordine. Il matrimonio è di ordine naturale. La natura però non riesce a provvedere completamente a se stessa ed infatti decade quando perde il contatto con la soprannatura. Accade così anche per il matrimonio. Pur essendo esso di ordine naturale, ed avendo in questo ordine una sua autonoma dignità, di fatto non riesce a mantenersi fedele a se stesso senza l’elevazione allo stato di grazia. Ciò non accade solo per il matrimonio, ma per tutto l’ordine naturale. Una prova empirica di questo è data dalla riduzione del matrimonio naturale a matrimonio civile, nel senso di convivenza more uxorio disciplinata dalla legge, e dalla stessa diminuzione dei matrimoni civili così intesi dopo che ci si è allontanati dal matrimonio religioso come pratica sociale. Se la natura bastasse a se stessa, riducendo o eliminando il matrimonio religioso, dovrebbe permanere saldo il matrimonio naturale. Questo però non avviene. Anche il matrimonio naturale si deteriora nelle forme che abbiamo oggi sotto gli occhi.
Sul matrimonio si fonda la famiglia e, quindi, la società. Infatti solo nel matrimonio tra uomo e donna si trova l’accoglienza complementare secondo un ordine che fonda poi ogni altra relazione sociale che voglia intendersi secondo un ordine e non secondo i desideri soggettivi. Senza matrimonio non c’è né socialità, né società, né ordine sociale. Non c’è socialità perché all’origine della società deve esserci una relazione non come somma di due individui ma come complementarietà integrante se stessa e questo avviene solo tra l’uomo e la donna. Non c’è società perché solo la coppia eterosessuale complementare è generativa di nuove vite in modo naturale. Non c’è ordine perché una somma di individui, a differenza di una coppia eterosessuale aperta alla vita che con ciò manifesta un “piano” su di essa, non rivela nessun ordine finalistico ma una semplice giustapposizione.
Se si elimina il matrimonio, della società rimane ben poco. Se essa non evidenzia un ordine, come nella visione cristiana secondo cui l’atto creativo di Dio si estende anche ai fondamenti della vita sociale, le norme morali pubbliche perdono il loro fondamento e tutto viene contrattualizzato. I principi non negoziabili verranno allora perduti e con essi qualsiasi norma morale oggettiva ed assoluta.
Il matrimonio ha bisogno del sacramento del matrimonio. Ne ha bisogno anche socialmente e politicamente. La dottrina della fede ha sempre considerato l’adulterio come un peccato e un grave atto morale che non può avere giustificazione. L’adulterio appartiene agli “intrinsece mala”. In questo modo la Chiesa ha protetto anche il matrimonio come istituzione sociale e con esso ha protetto la società intera e il suo ordine. Se questo dovesse venir meno, se l’adulterio diventasse non una situazione oggettiva di peccato ma una situazione da valutare caso per caso, se la sua interpretazione fosse devoluta alla sola coscienza individuale e se fosse possibile che il divorziato risposato convivente more uxorio accedesse al Sacramento dell’Eucarestia, allora quella protezione verrebbe meno con conseguenze negative sul piano sociale e politico e, soprattutto, su quello dell’utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa. Sarebbe un’ingiustizia anche nei confronti del diritto naturale.
Il sacramento dell’Eucarestia ha un fondamento sociale e indirettamente politico di grandissima importanza. Una sua minore considerazione teologica da parte della Chiesa comporterebbe anche preoccupanti conseguenze in ordine all’impegno dei cattolici per la Dottrina sociale della Chiesa. Il sacramento dell’Eucarestia è il vero fondamento della comunione tra gli uomini. La carità, regina di tutte le virtù sociali, ha nel Sacrificio dell’Altare il suo alimento ultimo. Nessuna virtù umana e sociale, come per esempio la giustizia, tanto importante per la Dottrina sociale della Chiesa, potrebbe reggere con le sole sue forze. Ogni impoverimento della dimensione soprannaturale comporta dei costi in quella naturale. Nel Sacrificio dell’Altare Cristo morto e risorto fa una nuova creazione, compresa la ri-creazione della convivenza umana che ha origine dal matrimonio cristiano. Dal matrimonio e dall’eucarestia passano quindi le energie soprannaturali per l’impegno nella società alla luce della Dottrina sociale della Chiesa.
L’ammissione dei divorziati risposati all’eucarestia, pur secondo la logica del caso per caso, e quindi senza intaccare formalmente la dottrina ma incrinandola con una pastorale da essa difforme, provocherebbe molte difficoltà nell’impegno dei cattolici per difendere e promuovere la famiglia e incarnare nella società i principi della Dottrina sociale della Chiesa.
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Il matrimonio non è un affare solo privato

di Stephan Kampowski*.
Il legislatore si interessa giustamente nel matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna in quanto istituzione di alta rilevanza pubblica. Tale rilevanza deriva dal fatto che nella famiglia viene trasmessa la vita biologica, sì, ma anche quella sociale: il linguaggio, i costumi, le tradizioni. Essendo intrinsecamente sterili, le unioni di persone dello stesso sesso non hanno rilevanza pubblica, e non sono quindi in grado di porsi al servizio del bene comune.
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La legge è qualcosa che appartiene alla ragione. È compito della ragione fare ordine, ordinare le cose in una disposizione armonica. Un ordine è tale in quanto è disposizione verso un fine. Il fine della legge è il bene comune. In quanto è compito della legge disporre per il bene comune, soltanto delle realtà di rilevanza pubblica possono diventare oggetto di una legislazione umana. Per questa ragione, l’amicizia, essendo cosa privata, non cade nella sfera giuridica (cfr. F. D’Agostino, Una filosofia della famiglia, 147). Il legislatore umano però si interessa giustamente nel matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna in quanto istituzione di alta rilevanza pubblica. Tale rilevanza deriva dal fatto che un’unione siffatta è idonea a trasmettere sia la vita, sia la cultura ai nuovi membri della società. Come diceva Cicerone: la famiglia (basata come era per lui sul matrimonio) è il seminario della repubblica (De Officiis I, 17). Nella famiglia viene trasmessa la vita biologica, sì, ma anche quella sociale: il linguaggio, i costumi, le tradizioni.
Essendo intrinsecamente sterili, le unioni di persone dello stesso sesso non hanno rilevanza pubblica, e non sono quindi in grado di porsi al servizio del bene comune. Si tratta di unioni private, basate non su una comune missione, ma sull’affetto reciproco. Se adesso il legislatore ne dà un riconoscimento pubblico, conferendo a tali unioni uno status giuridico, allora si mette a legiferare nella sfera privata degli affetti che non hanno alcun riferimento al bene comune. Perciò non può risultarne una legge in senso stretto, dato che la legge è per definizione orientata al bene comune.
Ma in tal caso il legislatore non solo promulga una legge senza ragione di legge, ma commette anche un’ingiustizia effettiva. Talvolta si sente l’obiezione: “Il mio matrimonio (gay) non nuoce al tuo matrimonio (tra uomo e donna)”. Ma nuoce comunque a un istituto giuridico al servizio del bene comune l’essere messo sullo stesso livello di un’unione strettamente privata. Chiamando le unioni di persone dello stesso sesso con il nome “matrimonio”, oppure dando loro altre forme analoghe di riconoscimento pubblico, il legislatore dichiara implicitamente che il matrimonio è un affare privato. Sta qui l’ingiustizia di una tale legislazione. Pretendendo una rilevanza pubblica per le cose private, si rendono private le cose di rilevanza pubblica. Chi pertanto si oppone a una tale legislazione si oppone alla privatizzazione del matrimonio, ribadendo la rilevanza pubblica del matrimonio al servizio del bene comune. Le unioni tra persone dello stesso sesso, non avendo una tale rilevanza pubblica e perciò essendo cosa molto diversa dal matrimonio, non devono essere chiamate con lo stesso nome né ricevere uno status giuridico analogo. Altrimenti si tratta di un caso eclatante di discriminazione contro le persone sposate, in quanto si dà discriminazione non soltanto quando si trattano in modo differente le realtà eguali, ma anche quando si trattano in modo eguale le realtà differenti.
La legislazione che conferisce alle unioni tra persone dello stesso sesso uno status giuridico eguale o analogo al matrimonio è estremamente preoccupante anche per un’altra ragione. Come abbiamo notato sopra, una tale legislazione si insinua nella sfera privata degli affetti senza riferimento al bene comune. Se il bene comune non serve più come fondamento della legislazione, occorre un sostituto. Il posto che il bene comune occupa nella definizione della legge proposta da S. Tommaso viene ora occupato dai desideri. Ebbene, se i diritti si fondano sui desideri, lo Stato si arroga un potere arbitrario e inappellabile. I desideri non richiedono un riconoscimento: a essi si risponde o non si risponde. Un diritto basato sul desiderio non è riconosciuto, bensì concesso. Ma un legislatore creatore dei diritti può anche toglierli. In quanto contano i desideri e non le ragioni, non è possibile ragionare contro uno Stato siffatto. Non vi è istanza comune (ad esempio, la realtà del bene comune) alla quale fare appello. C’è solo il legislatore che concede i diritti graziosamente quando gli piace e li toglie spudoratamente quando gli piace.
*Professore ordinario di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia