mercoledì 21 dicembre 2016

La parola di Dio complica le cose...





Dal settimanale «La Vie» riprendiamo quasi per intero un articolo, pubblicato il 12 dicembre, della biblista francese che nel 2014 ha vinto il premio Ratzinger.

(Anne-Marie Pelletier) Nel dibattito sollevato da Amoris laetitia, il banco di prova è ancora una volta la questione dei divorziati risposati. Certo, il Papa ha avuto cura d’inserirlo in un contesto più ampio, che considera la vita coniugale e familiare in tutti i suoi aspetti. Ma non è bastato. Questo testo di oltre duecento pagine viene ridotto a un’ossessione per la disciplina (diritto o meno di partecipare all’eucaristia, obbligo, per chi è risposato, di non vivere more coniugali, per dirla in modo elegante, e così via). Il capitolo 8, che solleva il problema con il titolo «Accompagnare, discernere e integrare la fragilità», non è forse una negazione della tradizione, dicono i censori. Non porta forse a confondere il confine tra il bene e il male, a lasciare nel vago, a creare confusione nel giudizio morale? Usciamo dalle approssimazioni contenute in questa idea di discernimento, aggiungono. Che il Papa risponda sì o no all’elenco delle nostre domande, perché i pastori possano ricordare la legge della Chiesa, senza perdersi nei dedali e nei grovigli della vita delle coppie.
Sì, solo che, a ben guardare, questa parola del Vangelo sul “sì” e il “no” è detta a proposito dei giuramenti, per denunciare l’uomo tortuoso che si serve di Dio per camuffare la sua malvagità. Il suo proposito non ha nulla a che vedere con il “rigore”, nel duplice significato del termine, che dovrebbe essere il rigore della Chiesa che giudica vite coniugali difficili, sballottate dal peccato che tormenta i nostri rapporti reciproci. Tra l’altro, se il lettore continuerà a leggere il Vangelo di Matteo, s’imbatterà nella breve parabola dei due figli, in cui Gesù insegna che il figlio che dice no, che poi però va a lavorare, vale di più di quello che dice sì, ma poi non ci va. 
Decisamente la Parola di Dio complica le cose. Anzi, è questa una delle sue funzioni, ed è una funzione vitale. Mentre ci aspetteremmo tutto il contrario. Perché siamo impregnati dello spirito del nostro tempo, che ama i ragionamenti binari, che ci mette dalla parte dei “pro” o dalla parte dei “contra”. Ma anche perché, in un momento in cui il mondo barcolla tanto, c’è un irrefrenabile bisogno di verità non negoziabili, come si suol dire. Una buona morale cristiana non dovrebbe di fatto essere tutta dedita a celebrare le vite rettilinee e a condannare quelle zigzaganti, e ciò in virtù di alcuni semplici principi, che non ammettono discussione?
Il dramma, diciamolo pure, è che non è così che le Scritture, che ci trasmettono la parola di Dio, vedono la vita e gli uomini. Basta aprire i vangeli, per non parlare dell’antico testamento, che offre una preziosa pedagogia in materia. Chi frequenta Gesù? Chi è suo vicino, suo amico? Chi accoglie con predilezione? Si sa che le risposte a queste domande riservano delle sorprese. Di fatto Gesù sta spesso in cattiva compagnia. Lo si vede con i pubblicani, tra i quali sceglie Matteo. Conversa con una samaritana, che dovrebbe invece ignorare, e a maggior ragione quando si sa che è al sesto marito. Accetta senza tirarsi indietro i gesti di omaggio di una prostituta, e così via. È chiaro, non vede il nostro mondo come lo vedono i “giusti” che sono attorno a lui. Là dove il fariseo che l’accoglie vede una peccatrice, lui vede una donna il cui cuore palpita di vero amore. Di fronte a una donna adultera umiliata, circondata da sguardi accusatori, abbassa gli occhi e scrive per terra. Poi, quando è solo con lei, le dice semplicemente: «Va’!», che è un’ingiunzione a vivere, libera dal senso di colpa e dal peccato. E ancora, è un ladrone, crocifisso accanto a lui, a essere il primo a beneficiare della salvezza che la Croce ha dato all’umanità. E quando Gesù sciocca gli israeliti devoti guarendo nel giorno di shabbat, mostra di fatto che cosa significa veramente onorare il giorno dedicato a Dio. 
Ebbene, sono proprio questi i gesti e le parole che guidano tutto ciò che Papa Francesco ha scritto in Amoris laetitia. Sono la fonte della sua ispirazione e della sua audacia, quando chiede di non attenersi alle astrazioni di una legge per valutare la fedeltà o l’infedeltà delle coppie. Quando invita alla pazienza e alla generosità di un incontro che rispetta nell’altro la complessità della vita con i suoi rischi, le sue prove, il suo fardello di peccato. È con il Vangelo in mano che il Papa guarda al nostro mondo, cominciando con l’includervisi. Di fatto, sarebbe folle credere che la prova della debolezza riguardi soli gli altri. È come testimone della potenza del Vangelo che il Papa considera le vite lacerate, gli amori distrutti, il risollevarsi, talvolta molto claudicante, di uomini e donne che non hanno saputo o potuto mantenere la fedeltà promessa. È sbagliato affermare che, invitando in questo modo al discernimento e all’integrazione, il Papa svenda la verità, edulcori la fede, renda sfocato l’appello alla santità, ritagli su misura una pastorale compiacente. La verità è che parla facendo lui stesso ciò che invita i lettori a fare: prendere la Parola di Dio come “compagna di viaggio”. Allora il grande soffio di vita del Vangelo rovescia i banchi di quanti sono occupati a stabilire pesi e misure, a opporre ai peccatori che si presentano un regolamento, come a un posto di dogana. Così la chiarezza, che i censori di Amoris laetitia esigono, non può essere la linea di confine che delimita ciò che è conforme e ciò che è sbagliato. Ma si può intendere solo come la luce della resurrezione, che ha il potere di brillare persino in situazioni di morte, secondo una logica che inevitabilmente sconcerta la nostra percezione immediata della verità e della giustizia. 
Certo, è compito della Chiesa indicare le vie buone della vita, ma deve rendere questa testimonianza, come la rende Cristo, senza spegnere la fiammella che vacilla. Testimoniando che nessuna situazione può escludere dalla misericordia. Che solo l’arroganza di chi si giustifica in una situazione problematica costituisce un ostacolo alla misericordia, mentre la povertà riconosciuta reintegra nella comunione con Dio e con i fratelli. 
Lo riconosciamo, tutto ciò complica il lavoro dei pastori. Ma non vi è qualche indecenza nel lamentarsene? Come se accogliere in nome di Cristo gli altri con le loro ferite e le loro sofferenze potesse farsi come atto quasi amministrativo, con un giudizio definitivo su vite spesso complicate, facendo semplicemente riferimento a un articolo di legge. In realtà, l’accoglienza può nascere solo da un “compito artigianale”, per riprendere un’espressione di Amoris laetitia. Non si tratta d’altro che di discernere le situazioni rivolgendo loro lo stesso sguardo di Cristo. Vale a dire che la prima conversione necessaria è quella dei pastori a cui spetta questo compito. La parola di Papa Francesco invita dunque tutta la Chiesa a entrare in un grande circolo di conversione e di grazia.

L'Osservatore Romano