sabato 31 dicembre 2016

Chi non grida piu perde pure Dio



«Quando troverai sopra un albero o per terra un nido con uccellini o uova e la madre che sta a covare, non prenderai la madre sui figli, lascia andar via la madre. Perché tu sia felice e goda lunga vita» (Deut. 22,6-7) – è la stessa promessa fatta a chi “onora il padre e la madre”. Si narra che rabbì Elishà ben Avujà una volta vide un uomo salire in cima a una palma, di sabato, e prendere dal nido la madre insieme con i piccoli. E lo vide scendere illeso. Un altro uomo, invece, dopo il sabato, salì sulla palma, prese i piccoli, e lasciò volar via la madre. Scese, un serpente lo morse e lui morì. Disse Elishà: «Non c'è giustizia, non c'è Giudice». E abiurò. E come fece Elishà a mostrare che aveva perso la fede? Non costruì una filosofia atea: in un giorno di sabato sradicò un ciuffo
d'erba.
Paolo de Benedetti, Uomini e profeti, Radio3
La memoria non è semplice ricordo del passato. Il passato salva solo se è sostenuto dal presente. Il lamento nella Bibbia è preghiera perché il passato non sia morto per sempre. E anche un solo acino d’uva può salvare l’intero grappolo, se riusciamo a vedere la benedizione che contiene
Un’anima profonda della cultura dell’Occidente è il risultato dell’incontro e della tensione vitale tra l’umanesimo greco e quello biblico. Tra il genio filosofico dei greci, indagatore della verità in una libertà assoluta e sciolta daqualsiasi riferimento al passato, alla tradizione o a testi sacri, e l’ethos biblico, più orientato alla vita che alla verità, che guarda avanti, ma non è libero né sciolto dal legame con l’inizio, perché ancorato a un primo Patto e a una promessa imprescindibili. L’origine legava, il futuro slegava, e insieme sostenevano la terra occidentale. Questa cultura plurale, legata e libera, è entrata in una crisi profonda con la modernità, quando ha iniziato a perderecontatto con l’origine e quindi con la storia.
Si è così aperta una stagione inedita di futuro senza radice, che non è approdata, per ora, a una nuova terrapromessa degli uomini liberi, ma al consumismo nichilista del solo presente, senza passato e quindi senza futuro.
«“Chi è costui che viene da Edom, da Bosra con le vesti tinte di rosso, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza?”. “Sono io, io che parlo con giustizia, io il grande salvatore”. “Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel torchio?”. “Nel tino ho pigiato da solo”» (Isaia 63,1-3).
Qualcuno passa sotto le mura, vuole entrare a Gerusalemme. La sentinella fa il suo mestiere e grida: “Chi va là?”. Il viandante risponde: “Sono io”. La sentinella è il profeta; chi passa sotto le mura con il vestito insanguinato, come quello chi ha pestato con gli zoccoli l’uva rossa nel tino, è YHWH: “Sono io, Io sono”. È Dio stesso che entra nella città, e il profeta, l’amico di YHWH, gli chiede di rivelare la sua identità. Sono molti i significati nascosti in questo incipit, unico nel suo genere letterario, di uno degli ultimi capitoli del libro di Isaia. Vi è forse l’eco di antichi racconti medio-orientali di duelli tra dei, del dio guerriero, delle sue lotte contro i grandi mostri. La metafora della vigna è, invece, costante in tutto il libro di Isaia, e in generale nella Bibbia. È immagine, prima di tutto, del popolo, delle sue fedeltà e ribellioni. Dio è il vignaiolo, colui che la edifica e coltiva con amore, ed è colui che l’abbandona quando si inselvatichisce.
YHWH con l’abito insanguinato dice alla sentinella di aver combattuto e sconfitto, da solo, i suoi nemici (63,3-6). Ma la sentinella sa che i nemici non sono stati sconfitti, perché sono dentro le mura e dominano il suo popolo. Nella sua Gerusalemme occupata, YWHW non è un Dio vincitore, è un Dio sconfitto, assente, che sembra essersi dimenticato del suo patto e della sua promessa: «Dov'è colui che lo fece salire dal mare con il pastore del suo gregge? Dov'è colui che gli pose nell'intimo il suo santo spirito?» (63, 11-12). «Guarda dal cielo e osserva: Dove sono il tuo zelo e la tua potenza?» (63,15). Dov’è, allora, la tua vittoria? Quale è, per noi, il premio del sangue versato? In questo salmo di lamentazione collettiva, il più potente di tutta la Bibbia, il Dio d’Israele dal nome impronunciabile prende il nome del “padre”: «Tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. (…) Tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma» (63,16; 64,7).
Diversamente dai popoli vicini, Israele non usava per Dio la parola “padre”, perché troppo forte era il bisognoteologico di distinguere la sua fede diversa e spirituale da quelle naturali e dai riti della fertilità. Ma quel grande dolore collettivo, divenuto preghiera, mise sulla bocca del profeta quella splendida parola del primo lessicofamiliare dell’umanità - che dice, tra l’altro, quanto profondo sia il legame tra i Vangeli e la tradizione biblica, e che cristianesimo senza tutta “la Legge e i profeti” è incomprensibile o solo gnosi. Quella lamentazione collettiva vuole raggiungere direttamente Dio-padre, non le bastano più Abramo né Giacobbe (Israele). La tradizione non è efficace per la fede se è solo ricordo della fede di ieri. La fede biblica è fede storica, si fonda sul passato. Ma YHWH è il “Dio dei vivi”, non il dio dei morti, e quindi è il Dio del qui e ora. La verità della promessa fatta ai patriarchi stanell’esperienza del Dio che è presente e opera oggi. Se YHWH è un Dio vivo e vero, e non un personaggio di racconti lontani e mitologici, è ora che deve dimostrare la sua provvidenza. Israele deve ricordare, ma nessun ricordo, nemmeno il più grande e potente, può sostituire l’incontro personale e comunitario con il Dio presente. Nessuna fede dura se è solo fede ricordata e non attuale, concreta. Nella Bibbia il passato non è semplice ricordo: èmemoria, e la memoria non è nostalgia di una realtà felice, ma persa per sempre. Ogni fede muore quando la memoria diventa ricordo o nostalgia. Nella Bibbia il passato è vivo, non muore per poter diventare presente, ed è l’esperienza della presenza di YHWH, ora, che rende il passato vero. La chioma vive grazie alla radice e la vivificanell’incontro con la luce. È la presenza di YHWH oggi la garanzia che quanto abbiamo vissuto ieri – i dolori, gli amori, i volti – è ancora vivo, anche se “uscito dalla scena di questo mondo”. La fede biblica è allora la corda (fides)che lega nel presente passato e futuro.
Il modo più efficace, forse l’unico possibile, di continuare a credere in una liberazione durante l’oppressione e la disperazione, per poter credere a Dio durante la sua assenza, è l’uso della memoria per provare a rivivere lo stesso“miracolo” del tempo della prima alleanza. La lamentazione è una forma che assume nella Bibbia l’esercizio della memoria. Tramite la lamentazione, gridando e chiedendo ragione a Dio dell’abbandono e della sua assenza nel mondo, si cerca di restare aggrappati a quella corda. Non ci sono limiti alla lamentazione, si può dire e gridare tutto. È tanto più radicale ed estrema quanto più radicale ed estrema è l’esperienza dell’assenza – chi ha paura delle grandi lamentazioni e delle loro angosce non conosce i canti religiosi più sublimi, anche quando ci appaiono maledizione o bestemmia. Finché rimproveriamo Dio per le nostre sventure, finché litighiamo con lui, siamoancora dentro l’orizzonte di quella fede. È la fine del grido che segna l’inizio dell’ateismo muto – il grido di abbandono di Gesù in croce ha fatto dei “perché” senza risposta i fili più robusti di quella stessa fede-corda: «Oh, se squarciassi il cielo e scendessi!» (63,19).
Finché gridiamo e protestiamo perché la vita adulta ci appare tradimento delle promesse del primo incontro della giovinezza, siamo ancora fedeli alla prima vocazione.
Quella grande lamentazione-preghiera collettiva si è appena conclusa, ed ecco arrivare un’altra meravigliosa immagine, presa ancora dalla cultura/coltura della vigna: «Dice il Signore: “Come quando si trova succo in un grappolo, si dice: ‘Non distruggetelo, perché qui c'è una benedizione’. Così io farò per amore dei miei servi”» (65,8). Qui il profeta utilizza un bellissimo detto popolare (“non gettar via un grappolo d’uva se qualche suo acino ha ancora succo, perché in quel poco succo si nasconde un dono di Dio, una benedizione”), e lo incastona nel cuore del suo canto. L’intero grappolo si salva e non viene gettato via grazie alla vita presente in un suo piccolo resto: «Io farò uscire una discendenza da Giacobbe, da Giuda un erede dei miei monti» (65,9).
I grappoli, le vigne, le comunità, si possono salvare grazie alla benedizione di un resto vivo e che ha saputo conservare il suo succo-spirito. Per salvarli dobbiamo solo riuscire a vedere dove si trova il poco succo vivo, guardarlo, e poi attendere la benedizione. Un umile proverbio popolare, simile ai molti che venivano raccontati dalla nostra gente contadina, quelli che ci hanno insegnato i nostri nonni per trasmetterci il valore e il rispetto del pane, delle piante, degli uccellini. Della vita che va salvata sempre, dall’inizio e fino alla fine. La Bibbia è un tesoro dall’immenso valore antropologico anche per queste incastonature, per questi
cammei di umanità, parole semplici e preziose di contadini, pastori, poveri, che diventano parole di YHWH.
Benedizione (Brk) è quella che l’angelo di Dio dona a Giacobbe-Israele ferito dopo il grande combattimento dello Yabbok (Genesi 32). Benedizione è quella donata a chi salva il grappolo d’uva rinsecchito, ma ancora vivo, grazie al succo nascosto in pochi acini, forse in uno solo. La stessa benedizione. Non incontriamo tutti i giorni angeli che ci combattano e poi ci benedicano – e quando li incontriamo non li riconosciamo (quasi) mai. Ma tutti possiamo salvare, ogni giorno, un “grappolo d’uva” se riusciamo a vedere il resto di vita che permane in mezzo a ciò che appare secco e morto, dentro e attorno a noi. Avremo finalmente imparato il mestiere del vivere il giorno in cui scopriremo che la benedizione che si nasconde nelle ferite che ci insegnano la vita, gli uomini, Dio, è la stessa benedizione dell’acino d’uva salvato. Buon anno a tutti!