giovedì 29 dicembre 2016

C’è sempre un cammino di speranza.



Intervista a Jean Vanier

(Charles de Pechpeyrou) Come si può aiutare una persona che è stata umiliata a capire il significato del proprio valore? È questa la preoccupazione costante diJean Vanier, che nel 1964 ha deciso di fondare L’Arche per condividere la sua vita quotidiana con persone con disabilità. A suo parere, è importante innanzitutto far cadere i muri e creare luoghi di incontro, di gioia, affinché ognuno scopra la propria umanità. Creare luoghi che non siano nascosti, ma aperti alla gente.
Abbiamo appena celebrato Natale, la festa della nascita di Gesù, della vulnerabilità ma anche della speranza, e al tempo stesso si assiste a terribili crisi umanitarie come quella della Siria. Come si può festeggiare il Natale degnamente senza essere indifferenti a quella sofferenza?
Bisogna evitare di credere che risolveremo tutti i problemi. Bisogna creare una cultura della gioia, nella famiglia ma anche con altre persone. Bisogna creare luoghi della gioia dell’incontro, compiere piccoli gesti, come Papa Francesco ci invita a fare, accogliere le persone, creare comunità più aperte. Nella chiusura la gioia non si può sviluppare. Se di fronte ai mali del mondo, uno reagisce solo con la rabbia, crea infelicità attorno a sé. E poi c’è la speranza, c’è sempre un cammino di speranza, grazie a Gesù. 

Lei cita Papa Francesco: come spiega il suo atteggiamento verso le persone scartate dalla società?
Mi ha commosso molto il suo atteggiamento quando ha visitato la nostra comunità a Ciampino. Il Papa va incontro alle persone che si sentono messe da parte, ferite, umiliate. Più che come un padre, si comporta come un fratello, stringe le persone tra le braccia. Il Santo Padre è tra quelli che si rivelano attraverso il contatto, le mani, lo sguardo, il tono della voce. Dice alle persone che sono belle, che hanno un valore, per incoraggiarle. 
Perché parla di persone umiliate e non di persone escluse?
L’umiliazione è il risultato dell’esclusione, che è sociologica, politica. L’umiliazione consiste nel fatto che tutti mi trattano come fossi una persona brutta, dunque io credo di esserlo e mi chiudo in me stesso. Noi abbiamo accolto qui a Trosly-Breuil una donna emiplegica, ma a caratterizzarla era soprattutto un’enorme violenza. Lo psichiatra che ci aiutava ha detto: «in fondo, quando qualcuno viene umiliato per quarant’anni, l’unica risposta è o il grido o la depressione». Il grido dell’umiliazione è un appello all’incontro. Da noi questo incontro avviene, anche se non dura un’intera vita. È un modo di essere: come si può aiutare una persona che è stata umiliata a capire il significato del proprio valore? San Francesco d’Assisi, che desiderava profondamente essere un cavaliere forte, ha sofferto molto nei suoi anni di prigionia a Perugia seguiti da due anni di malattia mentale; in quel momento ha toccato il fondo. Nel testamento che ha scritto poco prima della sua morte, ha confessato di avere provato repulsione per i lebbrosi quando era giovane, poi un giorno, si è detto che voleva vivere con loro. Quando li ha lasciati, ha provato una dolcezza nuova nel corpo e nello spirito. È passato dalla repulsione a un incontro che gli ha fatto bene. Ha rivelato ai lebbrosi che erano belli.

Nella società occidentale quanto si è consapevoli che queste persone umiliate hanno un valore?
In generale le persone vogliono chiarire le questioni attraverso leggi senza entrare troppo in rapporto, perché hanno paura dell’incontro. Nel 2000 però c’è stata una rivoluzione per quanto concerne il Secours catholique: non “fare per” ma “fare con”. Qualcosa si sta muovendo, qualcosa sta nascendo, un movimento a favore delle persone ferite. Ma la gente si sente anche un po’ persa. Per esempio non vuole più riflettere su ciò che l’aborto significa, non cerca di sapere che il mistero di ognuno comincia con il concepimento, e dura fino alla morte. E questo perché i nostri paesi sono guidati dai mass media. O c’è una comunità molto determinata come è qui L’Arche, che accoglie le persone fragili o, nella maggior parte dei casi, è la paura a prevalere, una paura profondamente radicata nell’essere umano. Oggi si è spinti a vincere, ad aver successo nella vita professionale, a essere ammirati, onorati, a forgiarsi fin dall’infanzia un’identità di potere e di successo. In realtà, molti francesi si sentono soli, si sentono persi, alla deriva. Invece le persone profondamente radicate nella fede sanno che l’importante è amare.

Che cosa manca allora perché la gente si renda conto che le persone escluse, umiliate, sono fratelli in umanità?
È questo il punto. Forse un evento che sconvolge. Una persona è rinchiusa nelle sue certezze, si trova di fronte a qualcosa che la obbliga a cambiare. È l’uomo che giace in terra a obbligare il samaritano a cambiare.

Ma allora si ha l’impressione che l’unico modo per rendersi conto del dramma delle altre persone è che ne accade uno anche nella nostra esistenza?
Ciò avviene quando si ha bisogno di aiuto, quando non si è più onnipotenti. Perché si ha così paura di chi vive per strada o dei disabili? Perché, inconsapevolmente, si pensa che potrebbe accadere anche a noi. Per questo non si ha tanta voglia di avvicinarci a quelle persone che ci danno un’immagine di ciò che noi potremmo diventare. 

Ascoltandola, ci si immagina due mondi paralleli, impermeabili.
Ci sono due modelli. In Cile, a Santiago, c’è una strada dove a sinistra ci sono tutte le baraccopoli e a destra le case di ricchi, vigilate. Nessuno attraversa quella strada. Le cose però ora stanno cambiando, con associazioni come Le Rocher e Secours catholique. In molte parrocchie i volontari hanno cominciato a distribuire caffè ai senzatetto, e ora mangiano tutti insieme attorno a un tavolo. C’è un sentimento che non esisteva qualche anno fa, forse perché il numero di chi vive per strada sta aumentando. A livello di popolazione mondiale, tuttavia, la maggior parte delle persone è a disagio, stressata, presa dalla frenesia quotidiana. Che cosa si può fare allora? Creare luoghi di incontro, come qui, o in alcuni appartamenti a Parigi dove vivono senzatetto e volontari. Tutti cominciano così a scoprire la propria umanità. Creare luoghi che non siano nascosti, ma aperti alle persone. Far cadere i muri che le separano.
Per porre fine alla cultura dello scarto?
Oggi si parla da un lato di aborto e dall’altro di suicidio assistito, perché c’è una rassomiglianza tra le persone che invecchiano, che sono colpite dalla malattia dell’Alzheimer, che non parlano o parlano poco, e le persone che hanno una disabilità grave, come qui, e non parlano. Allora ci si vuole sbarazzare di loro perché costano troppo e non c’è personale a sufficienza. Ma non avviene ovunque così. Conosco una casa di riposo dove il personale è ottimo e dove regna la gioia. Il suo responsabile crea i sorrisi e chiede a tutto il personale di fare lo stesso. In alcune residenze per persone anziane invece si sente subito il clima teso. È molto semplice: si può creare il luogo del sorriso o il luogo della chiusura. Ciò dipende spesso dalla volontà di una sola persona.

Qual è l’ingrediente magico che dà questa volontà?
Le motivazioni possono essere molto diverse: una persona che è stata aiutata nella vita, il frutto di un pellegrinaggio, qualcuno che ha in famiglia un membro che soffre... Nel racconto del buon samaritano, sono certo che l’ebreo che è stato soccorso è cambiato. Occorre quindi in primo luogo un’esperienza, ma anche una comprensione, ossia una presa di coscienza che l’umanità si evolve, che è importante scoprire che ogni essere umano è mio fratello. Oggi osservo un movimento in questa direzione.

L'Osservatore Romano