martedì 29 novembre 2016

Fratello Universale




-Il marabut cristiano (Solène Tadié)
-Esercizi estremi dello spirito (Lucetta Scaraffia)
-Una via attuale (Bernard Ardura)
-Al cuore delle masse (g.m.v.)
-Come un chicco di grano (Charles de Jésus)
-Fratello Universale
-Racconta Liliana Cavani (Silvia Guidi)   
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Il marabut cristiano 
di Solène Tadié
Il 1° dicembre 1916 moriva Charles de Foucauld, assassinato all’età di 58 anni da un gruppo armato della tribù dei senussisti, che aveva circondato il suo eremo di Tamanrasset nel Sahara algerino. Se la notizia della sua morte non ebbe una grande eco nell’Europa lacerata dalla grande guerra, il religioso passerà agli occhi della storia come uno dei più importanti della sua generazione, a cavallo di due secoli.
La prima biografia scritta da René Bazin nel 1923 consacrò la sua posterità spirituale, facendo conoscere in Francia e poi al mondo la sua personalità fuori dal comune e la sua opera prolifica, che hanno suscitato tante vocazioni. A un secolo dalla morte, una nuova opera dedicata alla vita del religioso, beatificato da Benedetto XVI nel 2005, intitolata Charles de Foucauld, 1858-1916 (Paris, Éditions Salvator, 2016, pagine 720, euro 29,90) con la prefazione di padre Bernard Ardura, postulatore della sua causa di canonizzazione, dovrebbe a sua volta fare epoca.

L’autore, Pierre Sourisseau, è in effetti, tra i migliori conoscitori del prete eremita: archivista della sua causa di beatificazione, ha all’attivo trentacinque anni di lavori di ricerca, di articoli e di conferenze su di lui. Il volume, simile a una summa, presenta una serie di ritratti di Foucauld, seguendo le tappe della sua vita e i suoi diversi status, dalla sua infanzia a Strasburgo e la sua gioventù nell’esercito, fino alla sua vocazione missionaria tra i tuareg del Sahara. Ripercorre anche nel dettaglio i suoi anni di ricerca contemplativa in Terra santa, nella trappa in Francia poi in Siria, così come il suo soggiorno tra le suore clarisse a Nazaret, dove fiorirà la sua vocazione profonda, fino alla sua ordinazione a Viviers, il 9 giugno 1901.
Attraverso il voluminoso carteggio di Foucauld, numerose citazioni delle sue opere e documenti inediti della sua causa di canonizzazione, Sourisseau fa anche luce su alcuni elementi ancora oggetto di dibattito. In particolare attenua l’immagine di libertino impenitente e di dilettante attribuita al giovane prima della sua conversione, specialmente da ufficiale.
Se l’appellativo di «letterato festaiolo», affibbiatogli dal suo amico, il generale Laperrine, non è certo del tutto infondato, la sua corrispondenza dell’epoca lascia già intravedere un giovane uomo profondo, alla ricerca di un ideale, che si rivelerà un lavoratore instancabile quando un progetto gli sta a cuore. I racconti della sua spedizione nei paesi del Magreb tra il 1882 e il 1886 — dopo essersi congedato dall’esercito — lo confermano: l’ardente fede che osserva tra i musulmani rimetterà al centro delle sue riflessioni la questione della trascendenza, che aveva liquidato durante la sua adolescenza.
Contrariamente all’idea molto diffusa secondo la quale si sarebbe convertito improvvisamente entrando nella chiesa Saint-Augustin di Parigi, solo alla fine di un lungo percorso, anzitutto intellettuale, Foucauld riabbraccerà la fede. Due persone ebbero un ruolo determinante nel processo: Bossuet e la sua amata cugina Marie de Bondy. Quest’ultima gli aveva regalato per la sua prima comunione le Elévations sur les mystères, capolavoro del grande predicatore che riscoprirà a Parigi al suo rientro dal Marocco, nell’estate del 1886.
Charles provava allora un’inclinazione nuova per l’idea stessa di virtù, inclinazione rafforzata dal clima di dolcezza instaurato dalle presenze femminili di sua zia e delle sue cugine, dalle quali viveva, e nelle quali trovò «l’esempio di tutte le virtù unito alla visione di grandi intelligenze e di convinzioni religiose profonde», come scriverà alcun anni dopo. Per soddisfare quello slancio dell’anima, all’inizio però si volse verso i moralisti dell’antichità, quegli stessi filosofi «pagani» che anni prima l’avevano portato ad allontanarsi dalla fede cristiana, ma fra i quali trovava ormai «solo vuoto e disgusto». Anzi, con suo grande stupore, il modello di virtù professato da Bossuet lo riavvicinò alle sue aspirazioni profonde, al punto da fargli pensare che «la fede di una così grande mente (…) non era forse così incompatibile con il buon senso come (gli) era sembrato fino ad allora». Sua cugina Maria, che gli aveva fatto «sentire il calore e la bellezza» dell’opera di Bossuet, incarnava la forma più perfetta di quella «bellezza d’animo» che lasciava trasparire una virtù «così bella da avergli irrevocabilmente rapito il cuore». Fu allora che Charles decise di seguire dei corsi di religione nella cripta della chiesa Saint-Augustin, impartiti da Henri Huvelin, che diventerà poi il suo direttore spirituale. Da quel momento Charles de Foucauld manterrà una relazione epistolare costante con il prete, che considera un padre e che eserciterà su di lui una considerevole influenza.
La fedeltà di Foucauld verso la sua famiglia e i suoi numerosi amici è attestata da una fitta corrispondenza. Ma fu a sua cugina Maria — colei che aveva destato in lui il gusto del Vangelo e che chiamava «Madre» — che riservò il suo affetto più grande. Un affetto corredato da una profonda ammirazione reciproca, rivelata nel corso della biografia da molti passaggi dei loro scambi epistolari, quasi quotidiani.
Maria era per Charles una figura di santità, che consultava ogni volta che nasceva in lui un dubbio. Fu sempre lei a fargli scoprire la devozione al Sacro Cuore di Gesù, il quale diventerà il suo emblema. Quel cuore sovrastato da una croce che portava sulla sua veste liturgica e che faceva apparire nell’intestazione di tutte le sue lettere era anche il simbolo di ciò che Maria aveva risvegliato in lui: «Lei ha acceso il fuoco dell’Amore divino nel mio cuore dove si era tanto spento e mi ha salvato quando ero perduto», le scrisse il 2 luglio 1901, pochi giorni dopo la sua ordinazione e la sua prima messa nella festa del Santissimo Sacramento. Fu in quel momento che sentì la chiamata a una vita missionaria nel Sahara. Fratel Charles de Jésus aveva allora quarantatré anni.
«La palla è lanciata: chi la fermerà?», scrisse un giorno Huvelin riguardo al suo figlio spirituale. Una formula molto calzante che fa eco al motto della famiglia di Foucauld: «Mai indietro», e che divenne ancora più pertinente nell’ultima parte della sua vita, segnata da una seconda chiamata verso l’Africa del Nord. La chiamata assunse allora un carattere diverso, quello di una «vocazione speciale». Huvelin, all’inizio contrario all’idea di una partenza di Charles verso regioni così lontane, finì col comprenderne la dimensione spirituale. «Qualcosa lo spinge, qualcosa di irresistibile, credo» scrisse a Marie de Bondy.
Charles trascorse inizialmente tre anni a Beni Abbès, in Algeria, durante i quali si distinse per la sua lotta attiva contro la schiavitù. Ma non riuscendo a portare compagni nella fraternità che aveva eretta, decise su invito del comandante Laperrine di avvicinarsi ai tuareg, popolo che viveva nel cuore del deserto. A Tamanrasset, nella regione dell’Hoggar, quello che i tuareg chiamano il «marabut cristiano» non lesina sforzi: dal Natale 1905 iniziò a tradurre i vangeli in lingua tuareg e poi elaborò — con l’aiuto di un amico interprete — un vocabolario tuareg-francese. Scrisse anche testi in prosa sui costumi ancestrali di quel popolo, fondati sulle testimonianze degli anziani.
Questi lavori di ricerca, dal valore scientifico senza precedenti, erano in sintonia con l’apostolato di fratel Charles de Jésus: la diffusione della bellezza del cristianesimo con le sue opere e la sua bontà. In effetti, la sua rapida presa di coscienza dei limiti dell’evangelizzazione tradizionale tra il popolo tuareg gli aveva ispirato quest’intuizione, espressa in una lettera a monsignor Guérin: «Non bisogna predicare Gesù, ma preparare la sua predicazione». Proprio in questo apostolato originale, in questa ecclesiologia antropologica monsignor Maurice Bouvier, postulatore della sua causa di beatificazione e canonizzazione tra il 1990 e il 2011, ha percepito alcune intuizioni anticipatrici dello spirito del concilio Vaticano II.
«È nel momento in cui Giacobbe è in cammino, povero, solo, in cui si distende sulla nuda terra, nel deserto… è nel momento in cui si trova in questa dolorosa situazione di viandante isolato nel mezzo di un lungo cammino in un paese straniero e selvaggio, senza alloggio, è nel momento in cui si ritrova in questa triste condizione, che Dio lo ricolma di favori incomparabili». Questa meditazione biblica (ispirata a Genesi 28) di Charles de Foucauld, scritta durante il suo soggiorno a Roma nel dicembre 1896, riassume in modo particolarmente eloquente il suo percorso spirituale: quello di un uomo insaziabile nella sua sequela di Gesù, in costante ricerca nella sua vocazione.
Una meditazione che assume tratti eminentemente profetici nel momento in cui Charles, giunto a un crocevia della sua esistenza, sta per intraprendere un cammino che si annuncia abissale quanto quello di Giacobbe.
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Esercizi estremi dello spirito
di Lucetta Scaraffia
Sui santi, sui giganti della vita spirituale, sono stati scritti libri agiografici, biografie storiche o romanzate, ma mai nessuno aveva osato scrivere un’autobiografia immedesimandosi nel soggetto narrante a tal punto da confondere la sua vita con quella del personaggio stesso.
È proprio questa la specificità del libro di Pablo d’Ors L’oblio di sé(Milano, Vita e Pensiero, 2016, pagine 300, euro 20), che affronta dall’interno la vita di Charles de Foucauld. Personaggio complesso e intrigante sul quale si moltiplicano le biografie, sia per l’anniversario — il centesimo — della sua morte, sia per l’attualità della sua esperienza di cristiano appassionato che impara a vivere e a conoscere l’islam.
Le capacità di d’Ors di entrare nel personaggio si radicano in alcune innegabili somiglianze: l’origine aristocratica, la ricerca del silenzio come asse portante della via spirituale, il deserto, la scrittura. In un senso più profondo, probabilmente, hanno in comune la ricerca di Dio attraverso esercizi estremi dello spirito, per poi scoprirlo vivo e presente anche nella più umile e banale delle vite umane.
L’esistenza del visconte Charles de Foucauld, rimasto orfano da bambino, è stata per la prima fase la vita di chi protesta contro il suo destino, rifiutando di essere ciò che gli viene di volta in volta richiesto dalla famiglia e dalle circostanze: studente svogliato, soldato indisciplinato e licenzioso, comincia a rivelare coraggio solo grazie all’amore per il suo paese, che gli resterà per tutta la vita. L’esperienza nell’esercito coloniale, che in quegli anni stava portando a termine l’occupazione dell’Algeria, gli apre però nuove e decisive prospettive. Il deserto, un mondo sconosciuto del quale coglie immediatamente il fascino e la ricchezza, lo attira tanto da indurlo a cambiare mestiere: da militare si fa esploratore, e comincia a rivelare la tempra d’acciaio nel sopportare disagi e umiliazioni, nell’affrontare pericoli, che poi segnerà tutta la sua vita successiva.
Esploratore molto stimato, autore di un volume di ricerca geografica premiato in patria, Charles si accorge di non essere interessato al successo mondano e professionale, e sente l’impulso a tornare non solo alla religione dei suoi avi, per capirla meglio, ma addirittura a vestire l’abito trappista. Per tutta la sua vita, ma soprattutto in questa prima fase di incertezza e di ricerca, un ruolo centrale è svolto dalla cugina prediletta, Marie, dolce e credente, che gli starà a fianco fino alla fine con immutato affetto, sostegno e confidente. Sarà lei la destinataria delle sue memorie.
La vita nel monastero trappista segna l’inizio di un lungo e fecondo cammino spirituale, sempre alla ricerca di una più piena povertà, di una umiltà più totale, di una radicalità che lui considera fin dall’inizio come l’unica condizione per arrivare a Dio.
La chiave autobiografica permette di mettere al centro della narrazione sempre e solo la vita spirituale di Charles, di leggere i suoi tentativi di trovare la condizione adatta a lui — dal monastero di monache di Nazaret, dove faceva il giardiniere vivendo in un capanno degli attrezzi, agli eremi di fango che si costruisce con le sue mani nel deserto, prima a Beni Abbès poi fra i tuareg a Tamanrasset, dove morirà ucciso in un’incursione di predatori — e la sua crescente consapevolezza, fino all’illuminazione.
Una vicenda appassionante, un percorso vertiginoso che si legge come un romanzo di avventure, nel quale appaiono personaggi tratteggiati con grande finezza, come l’irlandese che lo inizia allo studio del deserto, o il comandante supremo delle oasi, che si perdeva spesso nella contemplazione del deserto e capiva profondamente la fascinazione che questo esercitava su Charles. Oppure i complessi e difficili rapporti con la popolazione locale, che si rasserenano e diventano per lui fonte di importanti esperienze spirituali quando abbandona ogni idea di evangelizzazione, per cercare solo la loro amicizia.
L’epica che accompagna come un filo rosso la vicenda è quella del fallimento: Charles fallisce come soldato, come esploratore, come trappista... ma anche come fondatore di un nuovo ordine di piccoli fratelli e sorelle che seguano la sua via. I piccoli fratelli si formeranno solo dopo la morte, mentre da questo punto di vista la sua vita sarà segnata da una completa solitudine. Ma è solo nel fallimento che si può pensare l’imitazione di Cristo, del messia che è morto in croce come un malfattore.
E, nel percorrere la strada della rinuncia, Charles apprezza il fatto di avere avuto qualcosa di importante a cui rinunciare: «Senza la ricchezza né i titoli nobiliari, senza onori, non avrei potuto disfarmi di quei titoli e di quegli onori, di quella ricchezza; e senza una rinuncia significativa — come richiesto a una trappa — le mie scelte sarebbero state meno credibili, e probabilmente meno salde e durature».
Neppure la trappa era abbastanza mortificante per lui, che ammette senza reticenze di essere sempre stato un esagerato, ma, scrive «non mi vergogno di aver esagerato, perché non concepisco l’amore senza esagerazione».
In alcuni momenti della vita, come a Nazaret, Charles ha sfiorato la pazzia, che si confonde con la visione mistica forse anche nella vita di altri santi, sembra suggerire d’Ors. Ma sarà nell’eremo che si era costruito nel deserto, a Beni Abbès che, dopo un lungo periodo di fatiche e delusioni, Charles vive la sua notte oscura, che lo porta a comprendere quello che definisce «uno dei misteri più insondabili del cristianesimo», cioè «così come Dio ha creato il mondo dal nulla, a quanto dicono le Sacre Scritture, allo stesso modo — dal nulla — crea ogni singola anima che si lascia lavorare e plasmare da Lui. Il nulla è necessario alla creazione. Il nulla è il nocciolo dell’esperienza mistica perché (il) nulla è Dio».
È solo quando riesce ad abbandonare ogni progetto di evangelizzazione, a rinunciare a tutto, che l’eremita riesce a trovare Dio nelle persone che incontra, nei poveri che ascolta e aiuta, e poi perfino nelle cose, negli oggetti di ogni giorno. «Essere testimoni del Vangelo — comprende — non significa soltanto testimoniarlo dinnanzi al mondo, bensì essere capaci di captarne le testimonianze in ogni dove».
Ma è Charles o Pablo che sta parlando? La sovrapposizione completa fra scrittore e personaggio dell’opera, nella quale cade completamente il lettore, emerge con chiarezza alla fine, quando Charles, poco prima di morire, riflette sul silenzio dal suo eremitaggio sul monte dell’Assekrem: «Ho l’impressione che più si è ricchi dentro e più si è silenziosi. Il silenzio è la manifestazione più eloquente di un’interiorità feconda: il rumore, invece, è l’atto di terrorismo più efficace contro l’anima» perché — continua — «ho passato la vita intera a esercitarmi per poter ascoltare Dio, ma Lui, misteriosamente, mi ha offerto solo silenzio. C’è chi pensa che il silenzio sia la prova irrefutabile dell’inesistenza di Dio. Da parte mia, credo sia proprio l’opposto: il silenzio è il suo linguaggio migliore, la perfetta dimostrazione della libertà che ci concede e, dunque, del suo immenso amore».
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Una via attuale
di Bernard Ardura
A un secolo dalla fine della sua vita terrena, Charles de Foucauld ci propone una via più che mai attuale per la diffusione del Vangelo, il primo compito affidato da Gesù ai suoi discepoli. Missionario nel più profondo della sua anima, Charles de Foucauld già nel 1902, ossia alcuni mesi dopo il suo arrivo a Beni Abbès, si rende conto di trovarsi in mezzo a un guarnigione militare francese i cui membri sono in maggioranza indifferenti nei confronti della religione. Il mondo circostante, inoltre, è interamente musulmano. Charles parte allora dalla parabola della pecorella smarrita, ma da un punto di vista radicalmente differente: «Occuparmi specialmente delle pecore smarrite. Non lasciare le novantanove pecore smarrite per tenermi tranquillamente nell’ovile con la pecora fedele. Correre dietro le pecore smarrite, come il buon pastore».
Facendo eco a questi pensieri di Charles de Foucauld, Papa Francesco commentava, il 17 giugno 2013, la stessa parabola rivolgendosi ai partecipanti al convegno ecclesiale della diocesi di Roma: «Ah! È difficile. È più facile rimanere a casa, con una sola ed unica pecorella! È più facile con questa pecorella, pettinarla, accarezzarla..., ma noi, preti, e voi, cristiani, tutti: il Signore vuole che siamo dei pastori e non dei pettinatori di pecorelle; dei pastori!».
L’uomo silenzioso del Sahara, uomo di adorazione e di preghiera, che si è fatto «fratello universale», sempre accogliente per tutti, si proponeva di «gridare il Vangelo sui tetti con tutta la mia vita». Questa è stata la via aperta dal «missionario isolato», il cui esempio ha ispirato e continua a ispirare innumerevoli pastori e fedeli.
Quando Charles de Foucauld elabora gli Statuti della congregazione, di cui già da anni porta il progetto nel cuore, riassume in poche parole un ideale missionario che parte da una convinzione: ogni battezzato è invitato a vivere come Gesù. «In ogni cosa, domandarci ciò che Gesù farebbe al nostro posto, e farlo». Nell’elaborare gli Statuti, de Foucauld fissa le priorità: «Amore fraterno di tutti gli uomini: vedere Gesù in ogni essere umano; in ciascuna anima, vedere un’anima da salvare; in ogni uomo vedere un figlio del Padre celeste; essere caritatevole, benevolo, umile, coraggioso con tutti; pregare per tutti gli uomini, offrire le proprie sofferenze per tutti, essere un modello di vita evangelica, mostrare attraverso la propria vita cosa è il Vangelo... farsi tutto a tutti per guadagnare tutti a Gesù».
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Al cuore delle masse
Nel giugno 1953, da pochi mesi alla guida della Segreteria di Stato vaticana come pro-segretario di Stato per gli affari ordinari, Giovanni Battista Montini — che esattamente dieci anni dopo sarebbe divenuto papa prendendo il nome di Paolo VI — scrisse la prefazione a un libro rimasta inedita e pubblicata quasi mezzo secolo più tardi, nel 1998. La richiesta era arrivata all’alto prelato da René Voillaume, fondatore e priore generale dei Piccoli fratelli di Gesù, ispirati alla figura di Charles de Foucauld. Il religioso francese (1905-2003) aveva chiesto a Montini di scrivere la prefazione alla seconda edizione della traduzione italiana del suo Au coeur des masses. La vie religieuse des Petits Frères du père de Foucauld. Il volume era stato pubblicato in Francia nel 1950 e in seconda edizione due anni dopo, e da poco era uscito in Italia con il titolo Come loro. La vita religiosa dei Piccoli fratelli di Padre de Foucauld (Roma, 1952). Era stato verso la fine della guerra che Montini aveva conosciuto Voillaume, e con lui Magdeleine Hutin, fondatrice delle Piccole sorelle di Gesù. Fu questo l’inizio di un rapporto e di un’amicizia che continuarono anche dopo l’elezione al papato e di cui è un primo segno questa prefazione, che pubblichiamo per intero sul sito dell’Osservatore Romano. Nel 1968 il fondatore dei Piccoli fratelli predicò gli esercizi spirituali in Vaticano e ne trasse un libro uscito in Francia l’anno successivo e subito tradotto in italiano (Con Gesù nel deserto, Brescia, 1969) con una prefazione di Virgilio Levi, in quegli anni segretario di redazione dell’Osservatore Romano. (g.m.v.)
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Come un chicco di grano
Sono un vecchio peccatore che, all’indomani della sua conversione, quasi vent’anni fa, è stato attirato con forza da Gesù a vivere la vita nascosta di Nazaret. Da allora, mi sforzo di imitarLo, ma miseramente, purtroppo! Ho passato molti anni in questa cara e benedetta Nazaret, domestico e sacrestano del convento delle clarisse. Ho lasciato quel luogo benedetto solo per ricevere, cinque anni fa, l’ordine sacro. Prete libero della diocesi di Viviers, i miei ultimi ritiri di diaconato e di sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazaret, la mia vocazione, non dovevo viverla in Terra Santa, anche se molto amata, ma tra le anime più malate, le pecore più sperdute, più abbandonate: questo banchetto divino di cui sono diventato ministro, dovevo presentarlo non ai fratelli, ai parenti o ai vicini ricchi, ma ai più zoppi, ai più ciechi, ai più poveri, alle anime più abbandonate che hanno più bisogno di sacerdoti. Da giovane ho percorso in lungo e in largo l’Algeria e il Marocco: in Marocco, grande quanto la Francia, con dieci milioni di abitanti, nell’entroterra non c’è neanche un sacerdote; nel Sahara algerino, sette, otto volte più grande della Francia, più popolato di quanto si credeva un tempo, ci sono solo una dozzina di missionari. Poiché nessun altro popolo mi sembrava più abbandonato di quelli, ho chiesto e ottenuto dal Prefetto apostolico del Sahara il permesso di stabilirmi nel Sahara algerino per condurvi, in solitudine, nella clausura e nel silenzio, nel lavoro manuale e in santa povertà, solo o con qualche altro prete o laico, fratelli in Gesù, nell’Adorazione perpetua del Santissimo Sacramento, se il buon Dio mi dona qualche fratello, una vita il più conforme possibile alla vita nascosta dell’amato Gesù a Nazaret. Tre anni e mezzo fa, mi sono stabilito qui, a Beni Abbès, nel Sahara algerino, proprio al confine con il Marocco, cercando, molto miseramente, molto tiepidamente, di vivervi la vita benedetta di Nazaret; finora sono stato solo: «il chicco di grano che non muore, rimane solo». Preghi Gesù affinché io muoia a tutto ciò che non è Lui e la Sua volontà. Una piccola valletta è la mia clausura da dove esco solo quando un dovere molto imperioso di carità mi costringe a farlo — in mancanza di un altro prete (il prete più vicino è a 400 km a Nord) — a portare Gesù in qualche luogo… Sono stato così costretto a viaggiare, per lungo tempo, nel 1904… Ma eccomi ora rientrato nella mia clausura, ai piedi del divino Tabernacolo, per condurvi sotto gli occhi dell’Amato una vita tanto simile a quella della divina casa di Nazaret quanto me lo permette la miseria del mio cuore... Lei capisce ora quanto mi sta a cuore il suo Gesù Adolescente! Quanto mi hanno commosso le pagine in cui dipinge il Modello che da vent’anni mi sforzo d’imitare! La sua partenza per la Terra Santa mi commuove. L’amo tanto, questa cara Terra Santa, e soprattutto Nazaret!
Charles de Jésus, prete 8 aprile 1905
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Fratello universale
Per commemorare il centenario della scomparsa di fratel Charles de Jésus, la diocesi di Viviers — dove è stato ordinato — ha incaricato lo sceneggiatore e musicista Francesco Agnello di realizzare uno spettacolo teatrale che ne ripercorra il percorso spirituale. Intitolata Fratello universale in riferimento al suo instancabile intento di creare ponti a prescindere dalle culture e dalle frontiere, l’opera — accompagnata da una musica suggestiva — ha una scenografia molto sobria allo scopo di mettere in risalto il fervore spirituale degli scritti del beato. A partire dal dicembre scorso, lo spettacolo è andato in scena in diverse città francesi: gli ultimi due appuntamenti saranno i prossimi 14 e 21 dicembre nella chiesa di Sant’Agostino a Parigi. Lì dove si è compiuta la conversione di Charles de Foucauld.
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Racconta Liliana Cavani
di Silvia Guidi
«La sua è stata una partecipazione totale all’esistere. Una vita dedicata al mondo; più nel mondo di così si muore» ci dice Liliana Cavani ricordando il documentario che nel 1964 ha dedicato ai Piccoli fratelli di Gesù e alla spiritualità di Charles de Foucauld; una vita che più si allontana nel tempo più appare libera, affascinante, misteriosamente feconda. «Gli interessava — continua — testimoniare, essere presente, vedere, osservare, contagiare con lo spirito. Si fece monaco per questo, la solitudine in realtà era una continua occasione di incontro. Per anni ha fatto il giardiniere a un piccolo gruppo di clarisse, dormendo nella chiesetta del convento o nella baracca degli attrezzi nell’orto, poi ha scelto di vivere tra i tuareg, e di custodire la memoria della loro lingua».
Gesù mio fratello, vita e spiritualità di Charles de Foucauld e dei piccoli fratelli di Gesù è nato da una proposta di Pier Emilio Gennarini, dirigente Rai di grande competenza e grande passione per il suo lavoro. «Nella vita, credo, non ha firmato quasi nulla» ricorderà Furio Colombo, rievocando la vivacità culturale della Radio televisione italiana dei primi anni Sessanta «ma lo reputo il miglior giornalista mai incontrato in diverse e variegate carriere. Era il tipo che di fronte all’incertezza — “Ma lo posso fare?” — replicava: “Se pensi che sia la cosa giusta, prova. È un rischio, ma perché rinunciare?”».
Fu possibile realizzare il documentario anche grazie all’amicizia con padre René Voillaume, priore generale dei Piccoli fratelli fino al 1965, e al suo archivio su padre Charles. «Alcuni di loro lavoravano in una fabbrica metallurgica di Marsiglia ma non era possibile filmarli all’interno dello stabilimento. Altri vivevano in Libano e in Siria. Ricordo uno di loro, medico oculista, addolorato perché tanti bambini avevano patologie gravi agli occhi. E le sorelle che vivevano a Damasco, in una bidonville, una lavorava in una fabbrica di valigie, un’altra aiutava gratuitamente le famiglie in difficoltà prendendosi cura dei figli piccoli. Si rimboccavano le maniche e facevano servizio, lavorando e pregando. Uno di loro, autista di camion, mi diceva “Io prego per quelli che non hanno il tempo di farlo, o non ne hanno voglia”. Vivevano mescolati alla gente. Non volevano interviste in pubblico. A Marsiglia li ho filmati in un piccolo appartamento molto modesto, o da lontano, mentre andavano al lavoro in bicicletta, in una raffineria vicina al porto. Tanti di loro erano molto giovani; ricordo il loro priore, un milanese dolcissimo. Un’attività silenziosa ma molto efficace. Una vera libertà interiore, riproposta ogni giorno, mai stantia, mai ripetitiva, sempre fresca, un modo di vivere simile a quello dei francescani primitivi».

L'Osservatore Romano