giovedì 13 ottobre 2016

Le radici della guerra civile islamica

Aleppo in fiamme

di Leone Grotti (lanuovabq)

C’è una guerra che è più importante di tutti i conflitti del Medio Oriente messi assieme, perché ne è alla base, ma pochissimi ne parlano. E c’è una tendenza, che conta più di mille discorsi sulla sicurezza e sull’integrazione dei giovani musulmani in Europa, che in pochi analizzano. Ci riferiamo, da una parte, alla guerra senza esclusioni di colpi interna all’islam tra sunniti e sciiti, dall’altra, al fanatismo religioso, propagandato dall’Arabia Saudita in tutto il mondo, che spinge sempre più giovani occidentali a diventare jihadisti. Senza questi due fattori, non si può capire che cosa sta succedendo oggi in Medio Oriente e Occidente.
Padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, tra i più importanti islamologi viventi, è uno dei pochi che ha il coraggio di affrontare questi argomenti in un momento storico in cui ogni ragionamento critico sulla religione del profeta Maometto è censurato e stigmatizzato. Anche per questo, il docente presso il Pontificio istituto orientale a Roma e professore ordinario presso la Université Saint Joseph di Beirut, riceverà venerdì a Bassano del Grappa il premio internazionale Cultura Cattolica 2016, già assegnato in passato a personaggi del calibro di Augusto Del Noce, Joseph Ratzinger, Giacomo Biffi, Luigi Giussani, Krzysztof Zanussi, Carlo Caffarra e tanti altri. In questa speciale occasione, padre Samir ha rilasciato un’intervista allaNuova BQ.
Padre Samir, qual è l’origine delle guerre e degli scontri che insanguinano il Medio Oriente?
Tutto parte da una concezione radicale dell’islam sunnita che considera gli sciiti eretici, non autentici musulmani. Gli sciiti, che rappresentano circa il 15% dei musulmani, oltre che in Iran sono al potere in Siria e Iraq. Ed è proprio a questi due ultimi paesi che i sunniti hanno dichiarato guerra, cominciata nel 2011 con la ribellione siriana contro il regime di Bashar al-Assad, che è dittatoriale come quasi tutti i regimi in Medio Oriente. La ribellione è stata subito appoggiata da Arabia Saudita e Qatar, che poi hanno deciso di creare un gruppo terroristico contro gli sciiti.
Intende lo Stato Islamico?
Esatto. Partiamo dal nome originario, Stato islamico dell’Iraq e della Siria: perché proprio questi paesi? Perché non l’Egitto, che è più importante, o la Giordania? Il motivo è semplice: perché sono due paesi governati dagli sciiti. Alla base di questi conflitti c’è l’odio dei sunniti nei confronti degli sciiti che cresce da decenni.
Non ci sono altre ragioni?
Prendiamo la guerra in Yemen, qual è l’origine del disastro attuale? I ribelli sciiti Houthi non rivendicano il potere, ma si sono opposti all’attuale regime perché non offre loro le stesse garanzie e condizioni del precedente governo (di Saleh, abbattuto con la primavera araba, ndr). Subito è intervenuta l’Arabia Saudita a bombardare. Ma con quale diritto? Si capisce che il problema non è innanzitutto politico.
Ma religioso?
Certo. Questa tendenza radicale e fanatica dell’islam non ammette l’esistenza del diverso. Noi la vediamo applicata nei gruppi che combattono in Siria e Iraq ma ha un’origine precisa. Viene innanzitutto dal wahabismo saudita, poi dai salafiti, che come modello hanno il ritorno alle pratiche del VII secolo, e infine dai Fratelli Musulmani, che non sono militanti attivi e la cui ideologia si avvicina a quella dei radicali islamici. Il dramma è che l’Occidente appoggia, arma e finanzia Arabia Saudita e Qatar, che diffondono queste ideologie.
Anche l’Iran sciita però non sembra da meno.
Pure il grande ayatollah Khomeini era fanatico, infatti. Ed anche Khamenei oggi lo è. Però la maggior parte degli imam sciiti iraniani non lo sono, anche se in questo momento devono obbedire al potere centrale.
Perché queste tendenze radicali portano al terrorismo?
È colpa dell’interpretazione letterale e ideologica del Corano: nel testo sacro si trovano tanti versetti che incitano ad uccidere chiunque non sia musulmano e non la pensi come i musulmani. Anche Maometto stesso ha messo in pratica questa teoria negli ultimi suoi dieci anni di vita, durante il periodo di Medina, conquistando le tribù con la guerra. Quando è morto, poi, e le tribù se ne volevano andare, il primo califfo, Abu Bakr, valente capo militare, le ha riconquistate con la forza. È la non distinzione tra politico e religioso che può causare violenze come quelle che vediamo oggi. È chiaro che se qualcuno prende come modello l’islam degli inizi, del settimo secolo, la violenza è una conseguenza inevitabile. Ma oggi viviamo in un altro mondo.
Soprattutto la guerra in Siria, però, ha anche cause economiche e politiche.
Certo, ma tutto parte da una visione politica della religione. E finché ci saranno questi gruppi fanatici la guerra non si risolverà. Bisogna eliminarli, non c’è soluzione, perché davanti alla loro violenza disumana, non si può che rispondere con lo stesso mezzo.
L’Occidente dunque dovrebbe intervenire?
No, l’Occidente dovrebbe fermare il commercio di armi, che è la seconda causa, dopo quella ideologica analizzata prima, del disastro. Questa guerra non sarebbe ciò che è se l’Occidente non avesse venduto all’Arabia Saudita (e non solo) le armi, che ora vengono usate in Siria e Iraq. Questo non è un commercio capitalistico come tutti gli altri, al di là del bene e del male, dobbiamo prendere coscienza che ci stiamo autodistruggendo. Ci vorrà tempo, ma dobbiamo reagire e cambiare. Il male suscita il male. E noi poi ne paghiamo le conseguenze: gli otto milioni di siriani che scappano, dove vanno? Cercano rifugio da noi, dove c’è vita e libertà.
A proposito di migranti, per lei l’integrazione è possibile?
È molto difficile, soprattutto quando arrivano centomila profughi alla volta. Ma bisogna provarci. Da un lato è necessario fornire loro mezzi di sostentamento, un tetto e da mangiare, questa è la prima cosa. E gli italiani nell’accoglienza e nel senso di umanità sono eccezionali. Poi però bisogna fare un lavoro educativo, e questo è più difficile. A tutti bisogna dire: se volete vivere qui pacificamente e in modo costruttivo dovete entrare in un’altra visione della vita rispetto alla vostra. Certo, con i musulmani è più difficile.
Perché?
Quando dico questa cosa mi accusano di essere fanatico, ma è la realtà. C’è un problema: l’islam non è come il cristianesimo, non distingue tra dimensione spirituale, religiosa, civile e sociale. La religione musulmana impone come ci si veste, cosa si mangia, come ci si rapporta con le donne, anche se queste cose non c’entrano con la religione. Ma questa mancanza di distinzione rappresenta al contempo la forza e la debolezza dell’islam.
In Occidente forse i due aspetti sono fin troppo separati.
A volte la società moderna compie la stupidaggine di mettere in contrapposizione religione e cultura. La distinzione senza divisione è l’unica via. Ma per l’islam non può essere così e infatti quasi tutti i paesi musulmani sono governati dalla sharia. Ecco perché è difficile integrare i musulmani. Eppure bisogna farlo, soprattutto per il loro bene.
Come?
Bisogna mettere in chiaro che loro non possono imporre niente al paese in cui arrivano. Non possono cioè pretendere che costruiamo noi le loro moschee, che diamo da mangiare pasti halal, che interrompiamo il lavoro per la preghiera rituale. No. Sono liberi di non mangiare la carne come la prepariamo noi, ma non possono imporci di mettere a disposizione la loro nelle scuole, ad esempio. Sono liberi di pregare in fabbrica, ma senza interrompere il lavoro e tra l’altro delle deroghe sono previste dall’islam se richieste. Devono poi capire che, da noi, uomini e donne hanno pari diritti, contrariamente a quanto prevede la religione musulmana, e che in Occidente vige la libertà religiosa. Il diritto islamico punisce con la morte gli apostati, cioè chi chi abbandona l’islam, ma da noi questo è inconcepibile e non può essere applicato. Noi dobbiamo aiutare i musulmani ad entrare in questa visione di libertà che è propria dell’Occidente. Senza dimenticare un’altra cosa.
Quale?
Sarebbe meglio se questa immigrazione enorme non ci fosse. La prima cosa che l’Occidente deve fare è quindi impegnarsi perché queste persone possano vivere in pace nelle loro terre.
Che pensieri le ha fatto sorgere il brutale assassinio di padre Jacques Hamel?
Ciò che è successo è inammissibile, anche per tutti i musulmani normali. I terroristi islamici hanno messo insieme in un solo atto tutti i fatti più tremendi. Vorrei sottolineare che queste persone non sono pazze, perché un pazzo non fa queste cose, a meno che la pazzia non sia ispirata dal fanatismo religioso. Però mi sorprende l’apertura della causa di beatificazione, ce ne sono tanti di casi così. Io non so niente della vita di padre Jacques, forse è un uomo santo, ma è troppo presto per dire che è un modello. Bisognava istruire la pratica seguendo il processo classico. L’ho trovato un po’ precipitoso e spero che i musulmani non la prenderanno come una provocazione. 
Sono passati dieci anni dal discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, che ha destato tanto scalpore e polemiche a non finire. Come lo giudica?
Era un discorso perfetto e spero che abbia lasciato traccia positiva nonostante tutto. Il Papa diceva soltanto che la fede senza ragione è un male e la ragione senza fede è un male. Che fede e ragione debbano aiutarsi a vicenda lo dicono anche i musulmani che hanno studiato. Tra IX e XIII secoli i filosofi musulmani scrivevano che le proposizioni di fede vanno giudicate con la ragione, anche se sappiamo che questo è un processo difficile per chiunque. Gli imam oggi dovrebbero dire che non si può ripetere ciò che è stato nel VII secolo e applicare alla lettera il Corano. Purtroppo il discorso di Benedetto XVI è stato strumentalizzato, eppure lui non voleva criticare l’islam. Anzi, la sua era una mano tesa a tutti i musulmani. «Camminiamo insieme», ecco cosa stava dicendo.