lunedì 12 settembre 2016

Quando la coscienza bussa alla tua porta...

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di Caterina Giojelli (Tempi)

«Quando la coscienza bussa alla tua porta, è impossibile fingere di non essere in casa, soprattutto se nelle vene ti scorre il sangue di un eroe risorgimentale. Ma la risolutezza del militante, fondata su rocciose certezze, non rientra nel mainstream, cosicché Gandolfini è stato bollato come oscurantista, sanfedista, omofobo, retrogrado, reazionario, seminatore di odio. In realtà, la sua storia, sconosciuta ai più, parla per lui e dimostra il contrario». Mentre il giornalismo la buttava in caciara, banalizzando nel polemismo più battagliero e persuasivo la portata delle piazze del Family Day, il buon Stefano Lorenzetto andava a conoscere il suo leader Massimo Gandolfini, o meglio a riconoscere, dietro quelle tutine etiche e mimetiche appiccicategli addosso dai colleghi in servizio alla causa del loveislaw, un uomo che si batteva per non far bottega di un bene indisponibile come la vita.


Lo ha atteso nel suo studio nell’ospedale Poliambulanza di Brescia, dove Gandolfini dirige il Dipartimento di neuroscienze per la chirurgia testa-collo, e qui, tra calchi, preghiere e disegni dei nipoti, ha ascoltato stupito uno Spartaco uscire dal coro e intonare qualcosa di molto nuovo. Quello che ne è uscito è un libro-intervista, L’Italia del Family Day. Dialogo sulla deriva etica con il leader del comitato Difendiamo i nostri figli (ed. Marsilio), che è un bel sentire: non solo per quelle parole di buon senso indomito al senso comune che hanno fatto effrazione nel dibattito sulle unioni civili, trascinando in piazza oltre un milione di italiani. Ma anche per quel parlare di Gandolfini di sé, della propria famiglia e della propria fede che davvero non si nutre di marmellata ma di quel sale che brucia a vivo e impedisce alla carne di marcire.
Ne parla il Gandolfini medico, capace di scoperchiare i crani e immergere le mani nel cervello dei pazienti; il Gandolfini erede di don Enrico Tazzoli, il più noto dei patrioti martiri impiccati a Belfiore; il Gandolfini ex militante dei Cristiani per il socialismo, che votò a favore del divorzio ma poi, davanti al sangue dell’agente di polizia Antonio Custra assassinato a pochi passi da lui a Milano, cominciò a diventare l’uomo che è oggi. Un padre di sette figli non suoi, che invece di arruolarsi nelle Br scoprì vivendo che la possibilità di un bene è un diritto iscritto dalla Provvidenza nella carne umana e non deve marcire.


Leggetela, la storia della sua militanza e “conversione” e di quando, dopo avere aderito al Cammino neocatecumenale, Gandolfini iniziò a mettere su famiglia accendendo un cero alla Madonna perché facesse dono di un figlio a lui e a sua moglie Silvia, che non potevano avere bambini. Il dono arriva pochi mesi dopo, nel 1983, quando i padri agostiniani li chiamano dal Perù: «Abbiamo qui una bambina abbandonata. Il suo nome è Maria». Gandolfini ha allora capelli lunghi e barba alla Che Guevara, quando, in viaggio nella paca, due agenti armati credendolo un seguace di Renato Curcio incaricato di portare armi a Sendero Luminoso, iniziano a perquisirlo coi mitra puntati. «Padrecito!», urlano entusiasti scoprendogli il rosario appeso al collo, «mi avevano scambiato per un missionario. Devo la salvezza alla Madonna».
A Maria seguì Paulo, appena 20 giorni. Gandolfini lo “rapì” in una favela di Salvador de Bahia, portandolo «via con la forza, violando la legge». Paulo era pelle e ossa, in preda a una dissenteria imponente, il tribunale la tirava per le lunghe, «guardi che muore, guardi che muore, guardi che muore» ripeteva inutilmente Gandolfini al giudice. Finché, una mattina, addentrandosi da solo in quella stanza dove erano ammassati 42 bambini, riuscì a trafugare il bimbo e con l’aiuto di una coppia e la comprensione dell’ufficiale giudiziario a curarlo fino a portarlo in Italia. E poi fu il turno di Loretta, e di Daniele, «ci chiamò il tribunale per i minorenni di Brescia, illustrandoci le malformazioni congenite di cui il piccolo soffriva. Era un elenco lungo così. Scorrendolo, da medico mi venne spontaneo esclamare: Silvia, ma questo qui è aggiustabile». E venne Marco, dimenticato in un orfanotrofio di Belo Horizonte, e Barbara, un ritardo mentale, con tratti autistici, “rimandata indietro” da due famiglie. E poi arrivò Samanta, che era già stata sottoposta a sette interventi: «Questa bambina dovrà tornare ancora sotto i ferri – gli disse il chirurgo –, Dio solo sa quante volte. Ma io non posso più operarla se non ha alle spalle una famiglia che la assista».
Una casa ospedaleDa allora Samanta ha subìto altri 21 interventi e vive insieme ai Gandolfini, in una casa che è a un tempo famiglia e ospedale e alla quale il neurochirurgo fa ritorno dal suo lavoro (ha all’attivo più di 15 mila interventi, non ne esegue meno di sei o sette a settimana), passando la notte ad esaminare migliaia di pagine come consultore vaticano per l’esame dei miracoli e preparare gli incontri promossi da quella compagnia di amici che lo ha acclamato leader del comitato Difendiamo i nostri figli. «Questo movimento di popolo diventerà un partito?», chiede Lorenzetto, «a me lei ricorda un po’ Alcide De Gasperi». «È indispensabile che io continui a fare il padre e il neurochirurgo, perché sono l’asse portante di una famiglia», è la risposta del medico. Che con la sua vita, la sua battaglia, la sua storia (che ora grazie a Lorenzetto non resterà sconosciuta ai più), è già testimonianza di quanto esortava San Francesco citato in esergo dall’autore: «Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile e all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile»

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