venerdì 16 settembre 2016

Come farsi maledettamente male



LA STORIA DI TIZIANA RACCONTA L'URGENZA CHE PREME SULLA CHIESA DI TROVARSI AGLI ESTREMI CONFINI DELLA SOLITUDINE E DEGLI ERRORI, NELLE PERIFERIE ESISTENZIALI DELLA FRUSTRAZIONE E DEI FALLIMENTI, PER OFFRIRE AD OGNI UOMO E A OGNI DONNA LO SGUARDO COMPASSIONEVOLE DEL SIGNORE. E PRENDERE PER MANO CHI NON HA PIU' NESSUNO PER ACCOMPAGNARLO IN UN CAMMINO DI FEDE IN UNA COMUNITA' CRISTIANA, L'UNICO LUOGO DOVE LA PAROLA, I SACRAMENTI E LA COMUNIONE CELESTE, "CONTAGIANO" LA DIGNITA' TRA LE PERSONE NELLO SPLENDORE DELL'IMMAGINE DI DIO RIFLESSA NEL FIGLIO CONSEGNATO PER AMORE A CIASCUNO.
Japicca

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L'EROSIONE DEL "MARGINE DI INDICIBILITA'" CHE AVVELENA LE NOSTRE ANIME E FERISCE I NOSTRI CORPI
C’è la libertà assoluta di fare qualsiasi cosa, e c’è la libertà tecnologica assoluta di farne qualsiasi cosa. Poi però c’è una “progressiva erosione del margine di indicibilità” (Michele Serra). E “l’indicibilità” è quel punto (reale, non virtuale) che non corrisponde alla somma dei nostri corpi, della nostra psiche, delle nostre extension digitali. E’ il punto in cui la libertà cambia nome e diventa Libero Arbitrio. Nessuna possibilità di uno smartphone e nessuna doxa sociale dovrebbe impedirci di dire: questa libertà c’è, ma non la uso. Perché bisogna saperlo: quell’indicibilità, che sia corpo o sia psiche (etsi anima non daretur) quando va a sbattere, là fuori, contro quella cosa dura, e cattiva, che è la vita, si fa male. Maledettamente male. (Maurizio Crippa, Il Foglio 16 settembre 2016).
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Se tutto è così facilmente rappresentabile, se tutto è così “naturalmente” pubblico, come si fa a spiegare ai ragazzi che mettono in rete atti sessuali (altrui) più o meno carpiti che è un gesto violento e pericoloso? Che può portare una persona a sentirsi morire, magari a morire davvero? Loro sono avvezzi a postare TUTTO. Come se nessuna esperienza potesse darsi se non ha la sua vidimazione social. Come se la vita fosse invissuta se non è impaginata nei miliardi di quadratini portatili che ognuno di noi porta in tasca. Credo che questo sia il vero problema, la progressiva erosione del margine di indicibilità, di preziosa solitudine, di silenzio e di segreto che chiamiamo genericamente “privacy” ma è molto di più, è la Verità non riproducibile, non replicabile che ognuno di noi ha nel cuore e nel corpo. È come se, non afferrandone più il valore e il peso, non riconoscendola più come tale, quella Verità potesse essere presa a calci come un barattolo, e che sarà mai, la mia compagna di scuola senza mutande, il mio compare di discoteca strafatto, non è forse tutto lo stesso infinito spettacolo, lo stesso romanzo collettivo del quale tutti siamo autori, basta uno smartphone carico? Ma raccontare è difficile. Il racconto è menzogna e artificio perfino quando ti fai un selfie; e essere autore di qualcosa – di qualunque cosa – è una responsabilità. Ogni post, anche se sono miliardi, ha un autore, e ogni autore è il suo responsabile. L’irresponsabilità è solo l’orribile equivoco, e l’orribile alibi, che si annida nei numeri smisurati del web. (Michele Serra, La Repubblica 15 settembre 2016)
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LA SOLITUDINE SENZA RITORNO DI CHI DIVENTA UN NIENTE A DISPOSIZIONE DEGLI SGUARDI DI TUTTI
La ferocia non è una soltanto. La ferocia materiale di chi insultava Tiziana per strada, dopo averla vista nel video hard che lei aveva affidato agli amici (ai nemici), la ferocia di chi stampava magliette con la frase da lei pronunciata nel video, la ferocia immateriale che trasforma moltissimi spettatori, linkatori, guardatori, in linciatori quasi inconsapevoli, convinti di avere davanti, con il filtro di uno schermo, non una persona ma una cosa, uno scherzo, un gioco anche crudele ma pur sempre un gioco, un corpo, nient’altro che un corpo. Invece, al contrario, una ragazza che per sventatezza, per un minuto di eccitazione, per fiducia e per allegria affida se stessa a qualcun altro, invia come un regalo qualcosa di sé, qualcosa anche di segreto e spavaldo insieme, un’esibizione, una bravata, quella ragazza pensa sempre, sempre, di avere a che fare con gli esseri umani. Con persone che non la tradiranno. Che non la tratteranno come una cosa disprezzabile, massacrabile. Quella ragazza non pensa di avere a che fare con la ferocia, in tutte le sue forme, materiali e immateriali. Invece ha lasciato il lavoro, ha lasciato il paese che per lei ora esplodeva in risate e insulti e canzoni e impossibilità di avere una vita, ha cercato di difendersi, ha speso soldi in avvocati, ha cercato di cambiare cognome, ha provato per due anni a immaginare un futuro e non ce l’ha fatta. Si è impiccata a trentun anni nello scantinato della casa in cui era tornata a vivere con la madre, perché nella sua vita ha fatto irruzione una ferocia che si moltiplica, che ghigna, che saltella nei siti porno, nei social network e perfino sui giornali, che non ha pietà ma soprattutto non ha considerazione, coscienza che le persone esistono, non sono soltanto un’immagine da cliccare e quindi da distruggere... Tiziana era sola contro un mondo intero, reale e virtuale, che cliccava sulla sua faccia e rideva, si eccitava, si annoiava, se ne fregava, ma sempre pensando di averne diritto. Perché appena lei ha affidato quei video agli amici, ha smesso di esistere, ha smesso di essere una persona, è diventata una foto, un frame, un nulla a disposizione di tutti.(Annalena Benini, Il Foglio, 15 settembre 2016).
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LA BANALIZZAZIONE DELLA PERSONA CHE LA SPOGLIA DELLA SUA SACRALITA'
Secondo la neuropsichiatra Francesca Migliarese, “di fronte a questa gogna mediatica mi chiedo perché quando qualcuno cade siamo portati a ridere. Facciamoci caso, prendiamo Paperissima, di fronte ad una caduta noi ridiamo, anche se le conseguenze possono essere quelle di un grande dolore. In realtà noi ridiamo perché così allontaniamo l’identificazione con l’altro e della sua esperienza. E’ una reazione spontanea della nostra psiche che non vuole essere ferita”. Ma perché allora questa aggressività? “Perché di fronte a un corpo femminile nudo o a un atto sessuale mostrato il nostro inconscio conserva il sacro che abbiamo perso. Il corpo della donna è legato alla vita e così l’atto sessuale lo è per l’aspetto generativo. Percepiamo l’urto della dissacrazione, per quanto ormai tendiamo a normalizzare e a banalizzare tutto”. Però di fronte a tutto questo ci sono due reazioni possibili e la Migliarese le individua in un archetipo della Bibbia. “Nel Genesi Noè si addormenta ubriaco e nudo e i figli hanno reazioni differenti: Cam lo vede e inizia a spifferare la cosa con sarcasmo ai fratelli, gli altri invece si preoccupano di coprirlo perché hanno sviluppato una capacità adulta di provare pietas di fronte ad un corpo che in quel momento stava conoscendo una dissacrazione. Cam, il figlio che ha riso del padre sarà da lui maledetto. Trasportato alla vicenda di Tiziana c’è chi poteva e doveva preservare quel corpo e magari fermare subito la catena diabolica che poi l’ha portata alla morte per vergogna. Tiziana poteva essere salvata da chi avrebbe dovuto avere pietà per quell’esibizionismo così inopportuno. Ma l’uomo porta con sé entrambe le reazioni, una distruttiva e l’altra costruttiva. A Napoli ha prevalso la prima. In fondo l’uomo non sembra più dare valore a queste cose, ma l’inconscio da un punto di vista psicologico continua a testimoniare che in quel corpo nudo c’è qualche cosa di sacro. La lotta tra queste pulsioni scatena così la cattiveria della rete”. Ma la chiave per capire tutto forse sta proprio nella testimonianza. “Perché Tiziana si è fatta filmare?”, si chiede l’esperta. “Ognuno di noi ha bisogno di tracce che testimonino che siamo vivi e presenti e la funzione delle foto è questa, quella di avere ricordi di una testimonianza che abbiamo vissuto una certa esperienza e poi di una condivisione”. C’è una bella frase che la moglie di Richard Gere dice in Shall we dance a proposito del perché ci si sposa: La tua vita non passerà inosservata, perché io l’avrò osservata. La tua vita non sarà priva di testimoni, perché io sarò il tuo testimone. Ecco il punto: gli altri sono dei testimoni della nostra vita, ma si vede che in quella relazione intima Tiziana non aveva di fronte un testimone, così può aver cercato un ritorno di condivisone in qualcun altro di esterno, che poi lo ha tradito perché si è comportato come il figlio di Noè: ha riso”. Ma la condivisione dei social non è la condivisione di un’esperienza. “C’è una canzone, quella di J-Ax “Vorrei, ma non posto” che ribadisce proprio questa solitudine incomunicabile. Tutto questo sbattimento per far foto al tramonto, che poi sullo schermo piatto non vedi quanto è profondo e poi ancora quando dice che un senso a questo tempo che non dà il giusto peso a quello che viviamo. Ogni ricordo è più importante condividerlo, che viverlo. Tutto questo è tremendamente vero e forse, per evitare questo baratro, sarebbe bastato dire come dice la canzone: "Vorrei ma non posto”. (http://www.lanuovabq.it/)
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IL MASSACRO CHE ATTENDE TUTTI PER AVER PERDUTO IL SENSO DEL PUDORE
Degrado culturale? Certo. Chi può negarlo? Un degrado che ha raggiunto ormai vaste zone della popolazione, ben più ampie dei 2 milioni 300 mila giovani dai 15 ai 29 anni che né studiano né lavorano, e quindi non si capisce come potrebbero sfuggirvi. Ma al centro di queste storie c'è qualcosa di più profondo della cultura, che pure è alla base della società umane. Sono storie di corpi gettati via, offesi, abbandonati agli altri, dalle donne innanzitutto, e dagli uomini che le usano in modo perverso, appena possibile. Il grande assente di queste vicende è il pudore, quell'aspetto sottile, indispensabile dell'essere umano, al limite tra la cultura e la sua base più profonda: l'istinto. Il filosofo Max Scheler chiamava il pudore il «nascondimento del bello», necessario a preservarlo. Un aspetto, che, come tutto l'istinto cui appartiene, condividiamo in parte con gli stessi animali, che si mostrano solo quando sentono che non corrono alcun pericolo, che l'altro non vuole fargli del male, sono in mani amiche. Nell'Occidente «evoluto» però, molti pensano che il pudore sia soltanto un vecchio tabù culturale/religioso, che prima ci se ne libera meglio è. Tragico errore, perché senza la consapevolezza della sacralità del nostro corpo (dopotutto il nostro patrimonio più sicuro e prezioso) è difficile sopravvivere, soprattutto in modo equilibrato. Senza il rispetto del corpo (che il bambino ancora avverte), diventiamo solo testa: miti, slogan, ideologie. Privi di equilibrio e di un territorio fisico e simbolico, personale, nel quale l'altro possa entrare solo se ammesso e profondamente desiderato. Soprattutto mai invitato ad entrare e rapinarci, sperando nella sua attenzione e benevolenza. La cacciata del pudore non è una tragedia solo delle donne. Certamente sono le più esposte, anche per l'uso strumentale che la comunicazione, dalla pubblicità ai media, continua a fare del corpo femminile, con la loro partecipazione. Anche per i maschi però non è facilissimo: la pressione a considerarsi merce è forte, ed è indebolito il rapporto con la natura profonda, di cui si nutre appunto l'istinto, con il suo fratello pudore. Che le religioni non hanno inventato, ma trovato in tutte le culture umane, anche le più semplici, seppure declinato in modi diversi. Certo non ha giovato al pudore l'interpretazione auto repressiva che ne hanno dato il sociologo cui si ispira il «politicamente corretto» (Norbert Elias), e la stessa psicoanalisi freudiana; entrambi d'altronde smentiti dall'antropologia. Adesso, anche per la spinta esibizionistica e invasiva che ormai ogni cellulare possiede, è però urgente riscoprire e valorizzare il sentimento del pudore, ed il mondo degli istinti profondi cui appartiene. Senza pudore non c'è il senso di sé e quindi neppure dell'altro. Si è separati dalla propria fonte di vita, dal proprio territorio affettivo e psicologico, disorientati. Chiusi nel proprio corpo, e si cerca di arrangiarsi con quello, scambiandolo. Ma è un massacro. (Claudio Risè, Il Giornale)
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IL DISPREZZO E LA REPUTAZIONE DIGITALE
Si, il web è un mondo affascinante, ma anche terribile. In gioco c’è una nuova ed inesplorata dimensione dell’identità: la reputazione digitale. Ognuno di noi ha una reputazione digitale, che pesa enormemente nella vita reale. Ancor prima di un incontro, sia galante che di lavoro, andiamo a spulciare la reputazione digitale della persona che stiamo per incontrare. Cerchiamo su google le notizie, spiamo i suoi profili social, guardiamo le immagini e i video. E non c’è nulla di più fragile della reputazione digitale: chiunque può calunniare, maledire, attaccare, insultare o tradire, come gli amici di Tiziana Cantone. E questo riguarda in modo massiccio gli adolescenti, per il quali la popolarità digitale sembra essere una componente ineludibile della loro autostima. La logica perversa del cyberbullismo è proprio questa: la vittima non può difendersi. L’attacco è inarrestabile. Il disprezzo on line è virale. E soprattutto è per sempre. La sopraffazione è pari all’impotenza della vittima. Ecco la questione che voglio porre è questa: il diritto alla gestione della propria reputazione digitale. Qualcuno dovrà pure dire stop alla dittatura di Google, di Facebook e dei vari social ai quali consegniamo la nostra immagine e la nostra reputazione on line. Lo so, la questione investirebbe norme, diritti, giurisprudenza e tanti azzeccagarbugli cavillosi sarebbero lì, pronti a difendere la sovrana libertà del web di disporre di noi. Ma il dato è questo: vogliamo avere il diritto di gestire la nostra reputazione digitale. Vogliamo avere il diritto di ripensamento sui contenuti che diffondiamo. Vogliamo che faceboock non sia l’arrogante proprietario dei nostri post. Vogliamo che google rispetti il diritto all’oblio. Vogliamo una rete più umana. In definitiva vogliamo che l’umano abbia ancora il dominio sulla tecnologia. (Tonino Cantelmi, Agenzia SIR)