mercoledì 10 agosto 2016

L’inconcepibile potere del silenzio



(Pablo D'Ors) La necessità primaria della comunità cristiana è oggi il rinnovamento nello Spirito che la preghiera propizia. Senza preghiera, o con una preghiera tiepida, la Chiesa non può dare ai nostri contemporanei quello che sperano e di cui necessitano. Ciò che dobbiamo dare non è altra cosa dallo Spirito, ma per darlo bisogna averlo, e per averlo bisogna permettere che Egli entri a poco a poco nel nostro essere, poiché la preghiera non è altro che questo. È tutto ovvio, elementare, ma molto urgente. Gli sforzi che la Chiesa sta investendo nel pensiero (la catechesi, la teologia...) o nell’azione (l’annuncio, l’azione sociale...) non sono in assoluto paragonabili a quelli che investe nella crescita della vita interiore, che a mio modo di vedere, nella maggior parte dei cristiani, è sottosviluppata.I monasteri sono, o dovrebbero essere — a mio parere — il cuore orante della Chiesa. Per questo potrebbero trasformarsi molto bene in autentiche scuole di formazione per la vita interiore, tanto del popolo di Dio, sempre più affamato di interiorità — e questo è per me uno dei segni più chiari dei tempi — così come dei cosiddetti ricercatori spirituali, persone allontanatesi dalla confessione e dalla pratica cristiane e che, tuttavia, hanno sentito la chiamata dello Spirito e tentano di rispondere senza per questo arrivare a essere inquadrati in un determinato regime di organizzazione ecclesiale, che quasi sempre considerano sorpassato. Queste “nuove scuole monastiche” potrebbero costituire la principale piattaforma per una nuova primavera ecclesiale.
Perché questo sia possibile, urge scindere la vita monastica da quella contemplativa, un’unione che ha comportato una conseguenza nefasta: quella di credere che gli unici a essere chiamati alla contemplazione fossero coloro che si ritiravano dal mondo. Secondo questa visione semplicistica, alla vita monastica e religiosa toccava la contemplazione, e a quella secolare e laica, l’azione: Marta e Maria, distinte con chiarezza. Non sembra che oggi questo sia più sostenibile. Siamo tutti chiamati a contemplare. La contemplazione non è privilegio di pochi. La contemplazione è una necessità di tutti, un regalo senza il quale la vita attiva è solo frenesia o, nella maggior parte dei casi, umanesimo etico e buona volontà.
Il monaco non dovrebbe mai definirsi specialmente per il suo appartarsi dal mondo, ma per il fatto di essere una persona unificata (come indica l’etimologia della parola monaco, dal greco monos, l’uno). La principale sfida del monaco non è dunque, necessariamente, la fuga mundi, ma l’unificazione personale. Dietro questa proposta pulsa l’intuizione di Raimon Panikkar, che nel suo Elogio de la sencillez parla appunto della universalità dell’archetipo monastico. Dentro ogni uomo e ogni donna c’è un monaco, un solitario. E tutti siamo chiamati, in diversi momenti storici, a tendere verso questa unificazione.
Il cammino per questa vita contemplativa a partire dall’archetipo monastico è il silenzio, il silenziamento, dovrebbe dirsi meglio, in modo che sia esplicito che si tratta di qualcosa di fondamentalmente interiore: l’avventura del distacco e l’esperienza dell’essere. Ciò che voglio proporre qui è l’instaurazione, nelle nostre comunità ecclesiali, monastiche o altro, della via meditativa, quella che favorisce questo silenziamento in modo più esplicito. Ciò non esclude, certamente, che si continui con la vita liturgica, la vita devozionale, quella caritativa e molte altre, sebbene debba concedersi alla meditazione una certa priorità. Poiché questo è immediato, cioè, senza la mediazione di riti, preghiere, attività o altri mezzi, il silenzio propizia un accesso più diretto al Mistero. 
La spiritualità è essenzialmente silenzio, bisogna sottolinearlo, di questi tempi. Dio è essenzialmente silenzio... nel quale tutto risuona. Tutte le celebrazioni liturgiche, i piani educativi, i programmi pastorali, la catechesi dei bambini e quella per gli adulti, i corsi di teologia, e potremmo forse estendere all’infinito l’elenco delle azioni ecclesiali, tutto questo si svolge per arrivare a Dio, al silenzio di Dio; ma, se non si arriva a Lui — è solo una domanda — non è più sensato andare direttamente al silenzio di Dio per vedere se da lì Egli ci conduce a tutte quelle attività in cui la Chiesa, apparentemente, tanto si affanna?
Il mio rimprovero principale alla Chiesa di oggi, che formulo non senza tristezza, è che sono molti, moltissimi, coloro che stanno nelle cose di Dio, ma pochi, pochissimi, coloro che sono in Dio, il che non è assolutamente lo stesso. Un cristiano è colui che ha ascoltato la chiamata per stare con Dio, non soltanto nelle sue cose. Perché ciò sia più che una bella idea, è urgente che avvenga una semplificazione delle nostre vite, dato che non è fattibile stare in Dio e, allo stesso tempo, in molte altre cose. La vita spirituale è necessariamente semplice. Solo il semplice è veramente di Dio. Chi vive unitariamente, vale a dire, come un monaco, vive sinceramente. La profezia monastica (che risuona specialmente nei nostri tempi, sebbene in chiave secolare) è, sicuramente, quella della sincerità.
Mettere in pratica tutto questo comporterà una certa destabilizzazione di strutture consolidate e, soprattutto, un grande ripensamento teologico. L’unico modo perché inizi realmente a realizzarsi questo cammino è cominciare a intraprenderlo. Prega, se vuoi che la preghiera sia il vero motore della Chiesa. Prega, se vuoi che non siano la teologia, la gerarchia, la tradizione e le tradizioni a guidare la nostra bella e tribolata imbarcazione. Il pensiero, il magistero, la Bibbia, le istituzioni... tutto questo ha naturalmente il suo posto, ma soltanto se coloro che pensano e scrivono di teologia, coloro che leggono e ascoltano le Scritture, coloro che governano i destini delle comunità e sostengono strutture pastorali sono alimentati dallo Spirito, la nostra vera guida. E perché ciò sia possibile, bisogna dedicargli del tempo, la maggiore e migliore parte del nostro tempo. E bisogna imparare a tacere e ascoltare. E a dimenticarci di noi stessi.
Il principale ostacolo teorico a questa tesi è la preminenza che la Chiesa cattolica — forse le Chiese cristiane in generale — ha dato alla parola rispetto al silenzio. Abbiamo letto e dato per buono che i monoteismi siano religioni profetiche — della parola — e le tradizioni spirituali dell’Estremo oriente, religioni mistiche, quelle del silenzio. Ma la vera profezia è oggi, nel cristianesimo — e questa è una mia ipotesi — quella mistica.
Sostengo che oggi convenga cominciare a lavorare pastoralmente a partire dal silenzio, poiché farlo a partire dalla parola è, tra l’altro, controproducente, dato che in molti contesti provoca un rifiuto e una maggiore disaffezione. Siamo nell’ora dello Spirito, nell’ora del silenzio. Non tanto in quella del logo o della parola; da qui l’anti-intellettualismo regnante nella nostra società, che tende a guardare con sospetto a tutto quanto è teorico. Stanchi di parole che sono degenerate in verbosità, il mondo chiede ad alta voce il silenzio. E noi, i cristiani e le cristiane del nostro tempo, siamo coloro che sono chiamati a donarlo. Sogno un cristianesimo che viva e parli di un Cristo patrimonio universale dell’umanità, non proprietà privata dei battezzati. Sogno una Chiesa inclusiva, che non escluda e non sia esclusiva. E sogno — ancora un sogno, lo so — che questo cammino di cui ho appena dato qui testimonianza sarà quello che percorrerà il cristianesimo nel millennio che abbiamo appena inaugurato. Prima o poi, in un modo o nell’altro, la Chiesa, o almeno la sua avanguardia, si aprirà all’esperienza della meditazione e scoprirà la bellezza e l’inconcepibile potere del silenzio, che è soltanto uno dei nomi più dolci dell’unità.
L'Osservatore Romano