martedì 26 luglio 2016

Con Pietro e imitando Maria



Istituzione e carisma in «Iuvenescit ecclesia».

(Paolo Martinelli) La recente lettera della Congregazione per la dottrina della fede Iuvenescit ecclesia, indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa, costituisce un intervento magisteriale di grande rilievo teologico ed ecclesiale. Infatti, dalla buona relazione tra i doni gerarchici e carismatici dipende l’effettiva dinamicità della comunità ecclesiale e la sua incisività missionaria. Pertanto nel documento non si tratta di un problema “interno”, ma di una questione propria della Chiesa “in uscita”, in stato permanente di missione. 
Con questa importante tematica, infatti, si va a considerare il cuore dell’evento cristiano nella sua capacità di permanere nel tempo e nello spazio, mostrando come la Chiesa non cresca «per proselitismo ma “per attrazione”» (Evangelii gaudium, n. 14).
Il testo prende giustamente le mosse dalla riscoperta dei carismi nella vita della Chiesa come fenomeno proprio del nostro tempo: «È felicemente cresciuta la consapevolezza della multiforme azione dello Spirito santo nella Chiesa, destando così un’attenzione particolare ai doni carismatici, di cui in ogni tempo il Popolo di Dio è arricchito per lo svolgimento della sua missione» (Iuvenescit ecclesia, 1). 
La riflessione proposta dal documento riguarda certamente le aggregazioni, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, quale fenomeno tipico della nostra stagione ecclesiale, ma anche le forme antiche e nuove di vita consacrata che costituiscono una realtà fondamentale nella dimensione carismatica nella Chiesa (cfr.Iuvenescit ecclesia, 2; 22c). 
La collocazione dei carismi sappiamo non essere questione scontata nella storia della Chiesa e nella riflessione teologica. La considerazione sui carismi, così ben documentata nel Nuovo testamento, di cui il testo della Congregazione rende ampiamente conto (4-8), è stata spesso segnata problematicamente, in modi diversi, a partire dall’epoca subapostolica fino alla prima metà del XX secolo. Non di rado infatti nella storia della Chiesa gruppi di adepti si sono concepiti sostanzialmente indipendenti dalla comunità ecclesiale, dal suo regime sacramentale e dalla autorità dei pastori in forza di un presunto legame diretto con lo Spirito divino, che rendeva inutili le mediazioni ecclesiali. Ciò ha permesso nel tempo il sorgere di una certa circospezione nei confronti del “carismatico”, con il rischio di non considerare adeguatamente tale realtà. La riflessione teologica a partire dalla metà del XX secolo ha aiutato a riscoprire tale dimensione costitutiva della Chiesa.
Non sono mancate anche visioni che hanno contrapposto i carismi e la struttura gerarchica. Iuvenescit ecclesia fa opportunamente menzione delle interpretazioni errate della Scrittura a questo proposito: «L’antitesi tra una Chiesa istituzionale di tipo giudeo-cristiano e una Chiesa carismatica di tipo paolino, affermata da certe interpretazioni ecclesiologiche riduttive, non trova in realtà un fondamento adeguato nei brani del Nuovo testamento» (7). Analogamente si fa riferimento alla infondatezza di considerare «una Chiesa “della carità” a una Chiesa “dell’istituzione”» (7); «una “Chiesa dello Spirito”, diversa e separata dalla Chiesa gerarchica-istituzionale» (11). 
Il documento della Congregazione partendo dalle numerose affermazioni conciliari in proposito, in particolare quelle di Lumen gentium (4 e 12), e considerando il magistero pontificio successivo, afferma, contro ogni visione giustappositiva o conflittuale, la “coessenzialità” dei doni gerarchici e carismatici nella vita e nella missione della Chiesa (Iuvenescit ecclesia, 10. 13). Essi si implicano vicendevolmente. Il medesimo Spirito che opera nella struttura gerarchico-sacramentale della Chiesa è lo stesso che suscita i carismi per l’edificazione comune: «Una loro contrapposizione, come anche una loro giustapposizione, sarebbe sintomo di una erronea o insufficiente comprensione dell’azione dello Spirito santo nella vita e nella missione della Chiesa» (Iuvenescit ecclesia, 10).
Guardare alla Chiesa nel suo duplice volto, petrino e mariano, può aiutare a comprendere l’«armonia» dei doni nella Chiesa, prodotta dallo Spirito di Dio, come ricorda suggestivamente Papa Francesco (cfr. Omelia nella solennità di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 19 maggio 2013). 
Si deve al teologo svizzero Hans Urs von Balthasar la tematizzazione di questi due volti dell’unico mistero ecclesiale, peraltro ampiamente presenti nella tradizione teologica. Egli ha scritto diffusamente nella sua vasta opera teologica di “principio mariano” e “principio petrino” che presiedono alla vita della Chiesa in relazione al mistero di Cristo che permane nella storia, lungo i secoli. Considerando ora queste realtà in termini di “volto” andiamo a sottolineare il loro carattere “visivo”. 
Al centro della riflessione si colloca il rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa. Il Signore Gesù realizza compiutamente la sua missione in obbedienza al Padre, nel mistero pasquale, come totale dedizione dello Sposo per la sua Sposa; la quale accoglie e rende fecondo in sé questo immenso dono d’amore. Proprio il riferimento nuziale ci porta a considerare come il dono obiettivamente realizzato da Cristo sia destinato alla ricezione della Sposa, alla sua risposta feconda. La santissima Eucaristia è emblematicamente vista al centro di questa dedizione sponsale.
Da questo punto di vista «Maria è quella soggettività che, nella sua maniera femminile e recettiva, può corrispondere pienamente alla soggettività maschile di Cristo mediante la grazia di Dio e l’adombramento del suo Spirito» (Hans Urs von Balthasar, Sponsa Verbi). Il volto mariano esprime dunque la ricezione del dono e la restituzione feconda di quanto accolto. 
Se questo mistero è realizzato perfettamente nella persona di Maria, che costituisce davvero la “protocellula” della Chiesa, tuttavia è altrettanto vero che ogni fedele è chiamato a entrare in questo movimento d’amore, mediante l’accoglienza della salvezza operata da Cristo e la risposta della libertà credente. Come ci ricorda la Scrittura, tutti siamo chiamati a essere «buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1 Pietro, 4, 10).
Come è possibile che questa dinamica continui nel tempo e nello spazio? L’adeguata relazione tra doni gerarchici e carismatici garantisce e promuove nella Chiesa l’incontro con il Signore Gesù e la risposta credente mediante percorsi di autentica sequela Christi
Tale realtà è illuminata innanzitutto dall’orizzonte trinitario dell’azione divina, la quale «nella storia implica sempre la relazione tra il Figlio e lo Spirito santo, che Ireneo di Lione chiama suggestivamente “le due mani del Padre”. (…) Il legame originario tra i doni gerarchici, conferiti con la grazia sacramentale dell’ordine, e i doni carismatici, liberamente distribuiti dallo Spirito santo, ha pertanto la sua radice ultima nella relazione tra il Logos divino incarnato e lo Spirito santo, che è sempre Spirito del Padre e del Figlio». Pertanto ogni dono, gerarchico o carismatico, «viene dal Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito santo» (Iuvenescit ecclesia, 11).
Il volto mariano della Chiesa in questa dinamica ci ricorda costantemente che il metodo dell’agire di Dio ha sempre un carattere sacramentale. Con ciò si intende dire che il dono di Dio avviene sempre coinvolgendo la libertà dei fedeli. Infatti, non si può mai essere spettatori della economia della salvezza. Benedetto XVI aveva affermato a questo proposito nell’esortazione Sacramentum caritatis(n. 33): «In Maria santissima vediamo perfettamente attuata anche la modalità sacramentale con cui Dio raggiunge e coinvolge nella sua iniziativa salvifica la creatura umana. Dall'Annunciazione alla Pentecoste, Maria di Nazareth appare come la persona la cui libertà è totalmente disponibile alla volontà di Dio». Ogni credente, in forza dell’azione dello Spirito santo, è dunque chiamato a partecipare con la propria vita a questo mistero d’amore. 
Ma perché questo accada occorre che nella Chiesa ciascuno sia posto oggettivamente di fronte al dono compiuto in modo perfetto da Cristo. Qui emerge il volto petrino della Chiesa, ossia la sua dimensione ministeriale. Infatti, «i doni gerarchici propri del sacramento dell’ordine, nei suoi diversi gradi, sono dati affinché nella Chiesa come comunione non manchino mai ad ogni fedele l’offerta obiettiva della grazia nei sacramenti, l’annuncio normativo della Parola di Dio e la cura pastorale» (Iuvenescit ecclesia, 14). Il volto petrino va a identificare così l’azione ministeriale nella Chiesa esercitata nella sua pienezza dai vescovi in comunione tra loro cum Petro et sub Petro. Al loro ufficio partecipano, secondo il proprio grado, i presbiteri e i diaconi. 
Nel volto petrino della Chiesa a ogni fedele è pertanto assicurata obiettivamente l’offerta della grazia di Cristo. Nel sacramento dell’Eucaristia e in ogni altro sacramento la redenzione di Cristo ci raggiunge qui e ora in modo incondizionato. Pietro appare davvero come il simbolo più efficace di ciò che il ministero della Chiesa deve essere: egli infatti nel suo compito non mette al centro se stesso ma l’umile servizio a Cristo. Ogni ministro della Chiesa può esercitare il suo ufficio solo nella consapevolezza di dover servire lo Sposo in favore della Chiesa, sua Sposa. In ciò consiste emblematicamente il comando di Cristo nell’ultima cena: «Fate questo in memoria di me» (Luca,  22, 19; 1 Corinzi, 11, 25). Il ministero sacerdotale radica in questa obbedienza il suo servizio. 
Tuttavia, proprio il volto mariano della Chiesa ci ricorda che non basta che la grazia sia obiettivamente offerta alla libertà credente. La grazia implica ed esige la nostra libertà. La salvezza di Dio diventa efficace in noi coinvolgendoci nella azione divina. La grazia che ci salva deve essere così riconosciuta, accolta e «restituita» in modo fecondo attraverso il dono della propria vita, in cui si esprime il sacerdozio comune (Iuvenescit ecclesia, 22a). 
Lo Spirito santo che ha operato nel mistero dell’incarnazione (cfr.Luca, 1, 35) e che altrettanto efficacemente opera nei doni gerarchici e nei sacramenti, è lo stesso che agisce nel cuore dei fedeli, perché la grazia di Cristo porti frutto: «Il Paraclito è, contemporaneamente, Colui che diffonde efficacemente, attraverso i sacramenti, la grazia salvifica offerta da Cristo morto e risorto, e Colui che elargisce i carismi. (…) L’azione libera della santissima Trinità nella storia raggiunge i credenti con il dono della salvezza e al contempo li anima perché vi corrispondano liberamente e pienamente con l’impegno della propria vita» (Iuvenescit ecclesia, 12).
Affinché sia superato il rischio di una riduzione soggettiva dei doni dello Spirito santo e della stessa redenzione «lo stesso Spirito dona alla gerarchia della Chiesa la capacità di discernere i carismi autentici, di accoglierli con gioia e gratitudine, di promuoverli con generosità e di accompagnarli con vigilante paternità» (Iuvenescit ecclesia, 8). In tal senso il volto mariano della Chiesa esige a sua volta il volto petrino, che si esprime nell’episcopato e in modo peculiare nel ministero del successore dell’apostolo Pietro, quale centrum unitatis Ecclesiae(Iuvenescit ecclesia, 21), «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23). 
Nella visione marcatamente pneumatologica della Chiesa, che ci viene mostrata dalla Iuvenescit ecclesia, vediamo così definitivamente superata ogni forma di sterile contrapposizione e giustapposizione tra doni gerarchici e carismatici. Essi sono davvero coessenziali alla vita e alla missione della Chiesa. Se da una parte, come ricorda ancora il documento, i doni gerarchici sono «stabili, permanenti ed irrevocabili» (Iuvenescit ecclesia, 13) — in quanto devono prolungare nel tempo la presenza obiettiva della grazia di Cristo — dall’altra parte, i doni carismatici avranno nel tempo caratteri diversificati, sapendo che in questo contesto «la diversità non costituisce un’anomalia da evitare, ma al contrario è una necessità benefica» (Iuvenescit ecclesia, 4). Infatti, i diversi carismi rendono i fedeli capaci di rispondere al dono della salvezza assumendo fino in fondo le differenti circostanze del tempo presente come occasione per annunciare la gioia del vangelo e per rendere testimonianza alla verità, «portando nei nuovi contesti sociali il fascino dell’incontro con il Signore Gesù e la bellezza dell’esistenza cristiana vissuta nella sua integralità» (Iuvenescit ecclesia, 2). 
A testimonianza di questa dinamica si possono citare i grandi fondatori di ordini religiosi e di spiritualità lungo la storia della Chiesa, dagli inizi fino a oggi. Essi, infatti, mediante un determinato carisma hanno assunto la propria circostanza come ingrediente della propria esperienza spirituale; rispondendo a un bisogno del proprio tempo hanno dato origine a percorsi autentici di sequela di Cristo. San Benedetto, san Francesco d’Assisi, sant’Ignazio di Loyola, come anche santa Chiara d’Assisi, santa Teresa d’Avila, madre Teresa di Calcutta e tanti altri in forza di un carisma condiviso hanno generato o riformato aggregazioni di fedeli come forme incisive di sequela di Cristo. Ciò spiega perché i carismi nelle loro forme storiche possono mutare ed evolvere, con il mutare delle condizioni storico-culturali, e non sono mai garantite come tali per sempre; mentre in quanto tale «la dimensione carismatica non può mai mancare alla vita e alla missione della Chiesa» (Iuvenescit ecclesia, 13). 
Nella prospettiva che emerge dal documento della Congregazione diviene chiaro come i doni gerarchici implichino sempre la dimensione carismatica; a loro volta i doni carismatici sono per loro natura orientati all’incontro con Cristo nei sacramenti e alla testimonianza cristiana nel mondo: «I doni carismatici, infatti, muovono i fedeli a rispondere, in piena libertà e in modo adeguato ai tempi, al dono della salvezza, facendo di se stessi un dono d’amore per gli altri e una testimonianza autentica del Vangelo di fronte a tutti gli uomini» (Iuvenescit ecclesia, 15).
Il volto mariano della Chiesa, che ci ricorda continuamente il «sì» (Luca, 1, 38) della libertà creaturale al “Dio-che-parla”, ci aiuta a comprendere il fiorire delle nuove realtà ecclesiali in forza di carismi condivisi. Essi costituiscono «realtà fortemente dinamiche, capaci di suscitare particolare attrattiva per il Vangelo e di suggerire una proposta di vita cristiana tendenzialmente globale, investendo ogni aspetto dell’esistenza umana»; per questo «tendono ad avere come scopo “il fine apostolico generale della Chiesa”» (Iuvenescit ecclesia, 2). Maria ci aiuta così a comprendere la nostra personale e comunitaria responsabilità di fronte al dono di Cristo per il bene del mondo. I doni carismatici sono elargiti nella Chiesa affinché, a imitazione di Maria, la grazia del Signore sia feconda in noi e porti frutto abbondante, a gloria del Padre (cfr. Giovanni, 15, 8.16).
L'Osservatore Romano