mercoledì 27 aprile 2016

Aspettativa di vita in calo, è la crisi di fede

Malato in ospedale

di Riccardo Cascioli

L’aspettativa di vita in Italia nel 2015 è calata per la prima volta. Questo è il dato certamente più interessante contenuto nel voluminoso rapporto Osservasalute 2015, prodotto dall’Osservatorio italiano sulla salute, il cui direttore, Walter Ricciardi, è anche il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. In valori assoluti si tratta di piccole variazioni: 80,1 anni per gli uomini contro gli 80,3 dell’anno precedente, e 84,7 per le donne contro gli 85 del 2014. Inoltre non si deve dimenticare che l’Italia è tra i 10 paesi al mondo con l’aspettativa di vita più alta, ben al di sopra degli 80 anni.
E però il calo dell’aspettativa di vita è una notizia importanteperché indica un cambiamento di tendenza che con tutta probabilità si confermerà e rafforzerà negli anni a venire. Il caso italiano non è certo unico: negli Stati Uniti è già dagli anni ’90 che si nota questa tendenza in alcune aree, e nel Regno Unito identico allarme è stato lanciato l’anno scorso. Diverse sono le ipotesi sulle cause: negli Stati Uniti si punta il dito contro l’aumento dell’obesità – con relative malattie cardiovascolari che essa comporta – e anche del diabete; nel Regno Unito invece imputato principale è il Sistema Sanitario Nazionale che, a corto di fondi, non si cura troppo delle persone anziane; in Italia, invece, il rapportoOsservasalute se la prende con la pochissima attenzione che lo Stato dedica alla prevenzione delle malattie principali cause di mortalità. Sicuramente sono questi tutti fattori che in qualche modo incidono sui tassi di mortalità, ma fermarsi qui sarebbe drammaticamente riduttivo. 
La sensazione è infatti quella di trovarsi davanti a una vera e propria svolta, le cui vere radici sono culturali. Proviamo infatti a chiederci: che cosa ha permesso negli ultimi cento anni il prodigioso aumento dell’aspettativa di vita (in Italia nel 1910 gli uomini potevano sperare di vivere fino a 44,3 anni, le donne 45,7, in cento anni i valori sono quasi raddoppiati)? I fattori sono diversi: anzitutto il miglioramento delle condizioni di vita (vestiti per coprirsi, una casa, cure mediche a portata di mano); il miglioramento dell’igiene; gli spettacolari progressi della medicina che hanno debellato molte malattie che ancora pochi decenni fa mietevano vittime e hanno permesso di allungare le aspettative di vita per altre patologie; il miglioramento delle condizioni di lavoro (orari più corti, ambienti meno insalubri, misure di sicurezza). Ma tutto questo si riconduce a un unico processo, ovvero lo sviluppo.

In effetti, con la Rivoluzione industriale, soprattutto a partire dall’inizio del XX secolo si è avuto un rapidissimo miglioramento delle condizioni di vita, che non è solo economico. Ma ancora non basta, perché non è un caso che certe condizioni si siano verificate nei Paesi di tradizione cristiana: lo stesso concetto di sviluppo è figlio della civiltà cristiana, della cultura nata dalla fede vissuta da generazioni e generazioni di europei. Lo sviluppo, rettamente inteso, è un processo che, mettendo al centro il bene della persona, valorizza tutte le capacità umane, la libertà e la creatività della persona. Ecco cosa c’entra il cristianesimo: Cristo, e solo Cristo, ha liberato l’uomo da tutte le schiavitù, solo Cristo ha riconosciuto il valore assoluto di ogni essere umano, solo nel cristianesimo la realtà assume un valore tutto positivo e l’uomo è chiamato a collaborare alla Creazione con il suo lavoro. Da qui nasce il concetto di sviluppo. Altre culture – vedi in Oriente – al massimo hanno una idea di sviluppo che coincide con la crescita economica, con il fare i soldi, cosa che genera nuove forme di schiavitù, di cui si potrebbero fare mille esempi.
La longevità è dunque l’esito, una delle conseguenze di un lungo processo culturale che nasce dalla fede di un popolo. Per fare un solo esempio, basti pensare alla cura per i malati, gli anziani, all’estrema attenzione per il singolo malato, per gli stessi moribondi, che è nata dal popolo cristiano. 
Da anni però spira un forte vento contrario, e le grandi scoperte nel campo medico che potenzialmente dovrebbero garantire un aumento esponenziale dell’aspettativa di vita, non bastano più a coprire gli effetti di quel processo di secolarizzazione e scristianizzazione che, con la perdita del valore assoluto della vita, arrivano a colpire inesorabilmente anche la speranza di vita.

Pensatori molto alla moda anche fra i cattolici – vedi Serge Latouche – arrivano addirittura a proporre la cancellazione della parola “sviluppo” e teorizzano la “decrescita felice”, operando tra l’altro la solita riduzione economicistica della persona. La povertà materiale che aumenta nei nostri Paesi occidentali è figlia di una povertà morale che a sua volta – come ebbe a dire Benedetto XVI – è figlia della crisi di fede. Malgrado a parole si affermi il contrario, la persona, il suo bene, non è più al centro: si distrugge la famiglia, si rivendica l’aborto come diritto umano, si promuovono stili di vita "sterili", si reclama la libertà di suicidarsi, si crede di vivere meglio, più ricchi e più larghi, senza mettere al mondo i figli.

Tragica illusione, di cui la crisi economica è solo una conseguenza. E con questa, ecco meno possibilità di vestirsi, più difficoltà a permettersi una casa decente, l’impossibilità di curarsi adeguatamente. Il resto lo compie la cultura eutanasica – già diffusa ben prima dell’approvazione delle leggi in materia – che porta nel migliore dei casi a non “sprecare” cure per malati senza speranza di guarigione. È dunque così sorprendente che a un certo punto la curva dell’aspettativa di vita inverta la tendenza e punti al ribasso?