venerdì 25 marzo 2016

Qui pregò Omar



Nuovo tweet del Papa: "La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo" (25 marzo 2016)

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La tentazione del fondamentalismo

(Manuel Fraijò) La fede dei credi monoteisti scivola con relativa facilità in convinzioni assolute. È logico tornare ai fondamenti, ma bisogna farlo senza rigidità, senza negare la storia: con un approccio aperto e dinamico.
«Il fondamentalismo pietrifica la Bibbia e la trasforma in autorità assoluta». Lo afferma, pensando al cristianesimo, il teologo Jürgen Moltmann. Identifica così una delle tentazioni delle religioni monoteiste: la loro fede può, con relativa facilità, scivolare in convinzioni assolute. Cerchiamo di chiarire un minimo la questione.Naturalmente, nessuno rimprovererà alle religioni il loro continuo ritorno ai propri fondamenti. I loro fondatori e il credo a cui hanno dato origine non possono essere un mero punto di partenza che si dimentica. Le origini non si escludono impunemente. Le religioni, come le persone e i popoli, hanno grandi obblighi contratti con il ricordo; senza di esso si muore. «Che cos’è l’uomo? Solo la sua storia glielo dice» ha scritto il filosofo Wilhelm Dilthey. È quindi necessario che le religioni ritornino sempre — soprattutto in tempi agitati — alle loro origini, ai loro fondatori, ai loro libri sacri alla ricerca dell’anelata identità. Ma l’identità non è qualcosa di chiuso né d’inscatolato che si accumula solo agli inizi e condanna quanti sono nati dopo a essere meri ripetitori. 
Il momento fondazionale non esaurisce le possibilità di configurazione dei progetti religiosi. Il tempo aggiunto, la tradizione, i secoli trascorsi aiutano a delineare l’intuizione originaria. Anche a questi passi intermedi vanno date validità e una certa normatività. Non solo: s’impone pure una considerazione benevola del momento presente. Le religioni sono comunità narrative di accoglienza che aiutano a vivere e a morire in modo degno e pieno di speranza. Quando una religione esclude uno di questi tre stadi — le origini, la tradizione e il momento presente — e si aggrappa al fatto che il velo si squarciò completamente nei mitizzati momenti iniziali nasce il fondamentalismo.
Il suo peccato non si trova quindi nella ricerca di fondamento; questa è umana e necessaria, senza di essa si va alla deriva. Il fondamentalismo diviene forte quando le religioni, oltre ad affermare legittimamente la loro trascendenza, negano, senza alcuna legittimità, la loro contingenza storica e le ferite che il passare del tempo provoca. La negazione della storia è un invito solenne al fondamentalismo. 
Il pericolo fondamentalista interessa molteplici ambiti delle nostra società. Risulta però strano che sia tanto presente nelle religioni, soprattutto in quelle monoteiste. Il fatto è che, con le parole del teologo Wolfhart Pannenberg, «il fondamentalista è l’uomo della cosa sicura». Ma, cos’è il sicuro nelle religioni? Non è la fede fiduciosa, senza certezze né prove, il loro tratto distintivo? Il mondo a cui si affacciano i credenti è così misterioso, così tremendo e affascinante che dovrebbe resistere alla piatta oggettività fondamentalista. L’esperienza religiosa si forgia a contatto con simboli, miti, riti e leggende. 
Si potrebbe affermare, con Paul Ricoeur, che è «il regno dell’inesatto». Come si può essere fondamentalisti in uno scenario così scivoloso, in un universo così carico di mistero e d’incertezza? Sembra piuttosto che la persona religiosa dovrebbe avere familiarità con lo spessore dell’ineffabile, con i molti nomi e volti del divino. Tutte le religioni ci guadagnerebbero se includessero nella loro piccola bibbia il verso di José Ángel Valente: «Morì, ossia, seppe la verità». 
Ma fino ad allora, fino a quando non imboccheremo l’ultima curva del cammino, la verità sarà una creatura sfuggente, specialmente per il fondamentalista. 
Il filosofo Henry Bergson ha affrontato questi interrogativi distinguendo due tipi di religione: quella statica e quella dinamica. La prima si esaurisce nella ricerca di sicurezze. Il suo problema è la paura, che cerca di schivare accumulando certezze dottrinali e schemi immutabili di condotta che difende con ira, intransigenza e fanatismo. 
In definitiva, la religione statica rifiuta la fatica del dubbio e l’esercizio della ragione critica. 
Al contrario la religione dinamica ha familiarità con le domande che «il terrore della storia» (Mircea Eliade) suscita. Sa che chiedere è essere misericordiosi. Perciò, sempre secondo Bergson, la religione dinamica culmina nella mistica. «Superuomini senza orgoglio», così chiama i mistici, al cui vertice per lui ci sono san Giovanni della Croce e santa Teresa di Gesù. Non meraviglia che questo grande europeo sia morto (nel 1941) chiedendo «un supplemento di anima» per un mondo in cui s’intravedeva che la meccanica stava avendo la meglio sulla mistica. 
Illustri conoscitori della storia delle religioni monoteiste indicano due ambiti particolarmente sensibili al fondamentalismo. In primo luogo, la comprensione e l’interpretazione dei loro testi sacri. Da quasi tre secoli il cristianesimo fa ritorno all’esegesi della sua Bibbia. L’applicazione del metodo storico-critico ai testi biblici non ne ha comportato l’indebolimento, bensì una maggiore forza. Qualcosa di simile ci si aspetta dall’incipiente esegesi critica del Corano. 
Il libro sacro dei musulmani determina rigidamente tutti gli aspetti della loro vita religiosa e sociale. Secondo l’islam, il Corano fu integralmente dettato al profeta Maometto da un angelo in cielo. Forse questa provenienza divina tanto diretta è all’origine del timore di sottoporre il Corano ai rigori dell’esegesi storico-critica. Un timore che non è unanime: esiste un islam fondamentale che inizia ad affacciarsi all’esegesi critica del Corano; meno propenso a questo compito è l’islam fondamentalista, sempre orientato all’interpretazione letterale del testo sacro; ed estraneo agli sforzi dell’interpretazione storico-critica è il fondamentalismo islamico, di triste attualità per i fini malvagi con cui legge e applica determinati passi del Corano. Non esiste, quindi, un unico islam, come non esiste un solo cristianesimo o un unico ebraismo. Sarebbe ingiusto non differenziare attentamente.
In secondo e ultimo luogo: a tutte le religioni costa separare il sacro dal profano. Molti musulmani sostengono che, per l’onore di Allah, non ci dovrebbero essere zone franche secolari. Gli studiosi dell’islam sono però convinti che in alcuni Paesi musulmani l’islam si stia evolvendo e finirà col realizzare, come è avvenuto con il cristianesimo, che nella vita non tutto è religione. 
All’inizio di questo secolo, profeti di sventura hanno assicurato che il XXI secolo sarebbe stato «il secolo di Gesù contro Maometto». Si spera che siamo ancora in tempo per evitarlo. E il cammino migliore è quello dell’avvicinamento reciproco, sereno e riflessivo, più attento a ciò che unisce che a ciò che separa. Nel suo viaggio in Centrafrica, Papa Francesco si è recato in una grande moschea musulmana per pregare. In realtà, così fu al principio. Le cronache narrano che, dopo quattro mesi di assedio, il califfo Omar (632) conquistò Gerusalemme senza alcun tipo di violenza. Entrò come un pellegrino, a dorso di cammello, con indosso un mantello usato. Al momento della preghiera, il patriarca di Gerusalemme, Sofronio, gli offrì la sua chiesa perché pregasse in essa; ma Omar declinò l’invito con queste o simili parole: «Meglio di no, non sia che in futuro, dopo la mia morte, qualche musulmano te la sottragga dicendo: “Qui pregò Omar”». Un inizio di dialogo promettente.
L'Osservatore Romano