giovedì 24 marzo 2016

AUDIZIONE ALLA CAMERA DELL’AVV. SIMONE PILLON. Testo integrale.



PRESIDENTE. Grazie. Do la parola all’avvocato Simone Pillon, vicepresidente del comitato Difendiamo i nostri figli.
SIMONE PILLONvicepresidente del Comitato Difendiamo i nostri figli. Grazie, presidente. Rappresento il Comitato Difendiamo i nostri figli che ha organizzato, come ben sapete, due manifestazioni nel Paese, con l’esplicito scopo di fermare questo progetto di legge. Reiteriamo, in questo luogo, la richiesta.
Questa legge va fermata, non perché siamo contro qualcuno o contro qualcosa, ma per ragioni che cercherò ora di elencare. Tali ragioni hanno a che fare con la sociologia, hanno a che fare con il diritto, hanno che fare anche con il buonsenso e hanno a che fare con la demografia.
Questa proposta di legge, che voi lo vogliate o meno, introduce di fatto una cesura storica perché c’è stato fino ad oggi un modello antropologico che è stato quello della famiglia naturale, fondata sulla unione stabile tra un uomo e una donna. La rottura di questo modello, che storicamente si è radicato, non sarà senza conseguenze. Qui, si propone di affiancare al modello familiare naturale, (o meglio – attraverso questo affiancamento – di decostruire la famiglia naturale), altri modelli che oltretutto non sono uno, ma più di uno.
È innegabile che ci saranno delle conseguenze. Quello che, però, colpisce particolarmente, signori deputati, è che nessuno si è premurato di studiare quali possano essere le conseguenze sul tessuto sociale di questa legge. Noi abbiamo già esperienze di altri Paesi che hanno scelto questa strada e che ci vengono costantemente sbandierati come esempio da seguire. Sarebbe dunque agevole approfondire la questione. Invece nessuno parla delle conseguenze pratiche della decostruzione della famiglia.
Il punto è chiedersi perchè  in questa sede non sia stato audito qualcuno che abbia portato dati sulle conseguenze nel tessuto sociale del Paese dell’approvazione di quelle leggi. Lo dico perché forse il confronto con qualche dato socio-demografico dovrebbe suonare come campanello di allarme.
Il fatto che nella Svezia civilissima, che ha approvato le unioni omosessuali da ormai otto anni, si riscontri che il 65 per cento delle persone vivono da sole è un dato demografico che meriterebbe un adeguato approfondimento. Il fatto cioè che, nel momento in cui si va a liquefare il modello familiare che è il vero collante del Paese, la conseguenza non è l’aumento dei diritti per tutti, ma è la solitudine, dovrebbe metterci in allarme.
Inoltre, come già è stato accennato, mi chiedo se ci siamo posti la preoccupazione che questa legge diventerà di fatto un modello educativo che sarà presentato alle giovani generazioni come opzione possibile.
Oggi, un giovane che si affaccia alla vita ha davanti a sé essenzialmente il modello dell’impegno sociale (matrimoniale) e del disimpegno pubblico (nella convivenza di fatto), invece con l’approvazione di questa legge andremo a presentare ai giovani un modello molteplice, con moltissime sfumature: il modello del disimpegno; il modello del disimpegno parziale; il modello dell’impegno fino a un certo punto. Famiglie per tutti i gusti e formule di impegno da scegliere a catalogo. Tutto questo va considerato in un ambito, come quello del diritto di famiglia – seguo il diritto di famiglia da ormai quindici anni – in cui anche un semplice spostamento del codice legislativo porta conseguenze sociali che non sono misurabili.
Vi prendete, dunque, la responsabilità di andare contro la realtà della famiglia naturale formata dall’unione stabile tra un uomo e una donna? A questo punto vi sfido a farlo del tutto. Mi chiedo, se ci si assume come Parlamento la responsabilità di rompere modelli secolari, anzi millenari, mediante una semplice votazione a maggioranza, perché non farlo completamente? Mi chiedo il perché della limitazione, per esempio, al numero di due dei contraenti l’unione civile oppure della convivenza di fatto, cioè perché non prevederne tre o quattro? Parlate di libertà assoluta? Perché limitare la libertà di tre o quattro persone che vogliono veder riconosciuta la loro unione affettiva?.
In tal senso, se il codice deve essere quello della libertà e dell’amore, vi comunico che nella civilissima Olanda già sono in vigore i cosiddetti «poliamori». E’ dunque quello è il modello da seguire? Ci interessa quello?
A contrariis, vi chiedo dunque provocatoriamente: perché ponete tale limite? Per quale ragione non si può riconoscere la relazione tra tre o più persone? Voi dite di no, sostenendo che questo non sia corretto, però dovete giustificare perché se si può riconoscere rilevanza pubblica pari al matrimonio a un unione tra due maschi o tra due femmine perché non si possa attribuire tale medesima rilevanza all’unione tra tre o più persone, o perché ancora non sia possibile permettere il matrimonio tra padre e figlia, o tra padre e figlio. Forse conta solo l’abitudine o la pressione mediatica ovvero ci sono limiti insormontabili nella realtà naturale? Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo continuare a inseguire i costumi sessuali, adattando ad essi le norme, oppure – come chiediamo – il legislatore dovrebbe limitarsi semplicemente a prendere atto della realtà della famiglia naturale e proteggerla e custodirla al meglio? Questa insanabile contraddizione (se cioè si giustifica la rottura del modello familiare naturale come si può giustificare il mantenimento di altri limitazioni legali?) sta alla base della normativa in discussione ma nessuno ancora ne ha fornito giustificazione. Ciò che non può essere accettato è l’atteggiamento puramente ipocrita – consentitemi il termine un po’ forte – che qualcuno ha adottato, tentando di nascondere il vero contenuto dell’operazione di ingegneria sociale cambiano semplicemente il nome alle cose ma lasciandone intatto il contenuto. Qui si vuole approvare il matrimonio omosessuale, per cui chiamiamolo con il suo nome ed evitiamo pietosi nascondimenti che abbiamo definito al Circo Massimo quali mere operazioni di «maquillage» perché non cambiano la sostanza delle cose.
In effetti si tratta di un matrimonio, è innegabile che sia da considerarsi come un matrimonio. Inoltre, posto che la giurisprudenza delle Corti europee e anche le Corti italiane è di natura sostanziale e non certo nominalistica, al matrimonio saranno immediatamente ricollegate tutte le conseguenze giuridiche del matrimonio.
Vorremo vedere – quando si apriranno i primi processi di divorzio tra due persone omosessuali che vorranno sciogliere l’unione civile – se la questione della fedeltà rileverà oppure no quale causa di scioglimento. Quello è un matrimonio, anche se l’obbligo di fedeltà è stato escluso, e vorrò proprio vedere se per i due contraenti sarà o meno possibile continuare la vita in comune sapendo che uno o entrambi coltivano anche relazioni extra.
Allo stesso modo vorremo vedere quale sarà l’atteggiamento che sceglieranno le Corti europee allorché si troveranno chiamate a scegliere se riconoscere o meno il diritto all’adozione, i diritti alla genitorialità, il diritto alla stepchild adoption e gli altri diritti alla genitorialità, se, cioè, sceglieranno di negare tali diritti nascondendosi dietro al principio nominalistico oppure se, come è già accaduto nella sentenza X e altri vs. Austria, in base alla natura sostanziale delle disposizioni legislative riconosceranno ogni diritto alla genitorialità anche per coppie dello stesso sesso che oggi – si dice – ne sarebbero escluse a norma di legge.
La foglia di fico dello stralcio della stepchild adoption non convince nessuno e sono sicuro che non convince neanche voi, tant’è vero che in questa stessa Commissione saremo audititra poco per la riforma della legge sulle adozioni, cioè si vuole fare entrare dalla porta quello che è stato fatto uscire dalla finestra. Ho invertito volutamente l’esempio perché una riforma delle adozioni al fine di soddisfare i capricci di (pochissimi) adulti a scapito di (moltissimi) bambini sarebbe una vera e propria porta sull’abisso.
Questa proposta di legge istituisce, di fatto, il gran bazar della famiglia perché, se tutto è famiglia, niente è più famiglia.
La proposta di legge apre a cinque modelli di famiglia:
Primo: la famiglia naturale fondata sul matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione,
Secondo: l’unione civile (tra l’altro francamente – perdonatemi – non ho capito perché debba essere riservata alle persone dello stesso sesso. Per quale motivo dobbiamo impedire a due persone di sesso diverso di accedere all’unione civile? Questa sì che mi sembra una grande violazione del diritto di parità).
Terzo: le convivenze registrate
Quarto: i patti di civile convivenza che sono un’ulteriore specificazione
Quinto: le libere convivenze, sulle quali tra l’altro mi soffermerò nella disamina breve degli articoli.
Questo è il modello educativo che vogliamo offrire ai nostri giovani? Cinque modelli familiari differenti? Una vera e propria classifica, per cui si configurerà la famiglia di serie A, la famiglia di serie B, la famiglia di serie C, la famiglia di serie D e la famiglia di serie E? La libera scelta del partner indipendentemente dalla identità sessuale?
Tra l’altro in base al modello scelto, sarà evidente e certificata la qualità dell’impegno che i contraenti attribuiranno alla loro relazione. Siete davvero convinti che questo sia un modello sociale virtuoso? Avete verificato che questo esperimento di ingegneria sociale promuova i giovani nella coesione sociale oppure non configuri piuttosto – come crediamo – un incentivo alla confusione e al disimpegno?
Tra l’altro, come già è stato accennato, questa legge discrimina profondamente le coppie eterosessuali (specialmente quelle con figli), che non possono o non vogliono sposarsi, e le discrimina senza motivo rispetto ai contraenti delle unioni civili sia per quanto concerne la pensione di reversibilità, sia per quanto concerne l’assegno di mantenimento, sia con riguardo ai diritti successori per tutto quanto riguarda la quota di legittima e i legittimari.
Inoltre, questa norma non prevede in alcun modo il diritto all’obiezione di coscienza in favore dei funzionari pubblici. So che altri parleranno di questo delicato argomento, quindi non mi soffermo sul punto. Ricordo semplicemente che in Italia è molto diffusa e sentita tra moltissime persone (nonostante il sistematico tentativo di rimozione da parte di alcuni) una forte identità culturale cristiana; ciò porterà inevitabilmente all’insorgere di questioni di coscienza in ordine alla celebrazione delle “unioni gay”, come è peraltro accaduto negli Stati Uniti d’America, pur avendo questo Paese una radice culturale ben diversa.
Le stesse questioni di coscienza che concernono la fede cattolica potrebbero sorgere anche con riguardo ad altre religioni, per esempio all’Islam per citarne una, che su questo tipo di normativa avrebbe certamente gradi riserve. Ecco perché pare davvero indispensabile introdurre una clausola di coscienza che permetta l’astensione del funzionario dalle procedure per la stipula delle unioni civili.
Poiché sono avvocato e mi occupo da sedici anni di diritto di famiglia, mi permetto di segnalare brevemente altri tre punti che, a mio avviso, sono tecnicamente inaccettabili e privi di sostenibilità giuridica.
Il primo concerne lo scioglimento dell’unione civile. Il disegno di legge Cirinnà, nella formulazione originaria, prevedeva – anche per l’unione civile tra coppie dello stesso sesso – l’istituto della separazione e poi del divorzio. Frettolosamente, nella notte dei lunghi coltelli che ha preceduto la presentazione del maxiemendamento, è stato tagliato e incollato tutto, come è stato detto molto bene dal professor Quadri. Qualcuno ha messo i vari testi nel frullatore ed è uscito il testo che oggi discutiamo. Il testo tuttavia…
PRESIDENTE. Non siamo a un comizio.
SIMONE PILLONvicepresidente del Comitato Difendiamo i nostri figli. Certamente. Dicevo, il testo tuttavia deve avere un contenuto che sia giuridicamente sostenibile. La separazione è stata rimossa e sostituita dalla previsione di cui al comma 24 in cui si legge che l’unione civile si scioglie quando le parti hanno manifestato, anche disgiuntamente, la volontà di scioglimento dinnanzi all’ufficiale dello stato civile; in tal caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione di volontà.
Resta un punto di domanda: lo scioglimento deve essere chiesto da entrambi, oppure è sufficiente che lo faccia uno solo? L’espressione «disgiuntamente» di per sé non specifica. Infatti, la norma afferma che «l’unione civile si scioglie quando le parti», cioè entrambe le parti sembrano dover avanzare la domanda. Il fatto che lo chiedano congiuntamente, ovvero che lo possano fare disgiuntamente non specifica se sia sufficiente che anche solo una di queste chieda lo scioglimento.
Se mi permettete, non è una cosa da poco. Infatti, se dovesse passare l’interpretazione, che è perfettamente compatibile con il testo, per cui debbano essere entrambe le parti a chiedere lo scioglimento, ciò significherebbe che una persona che ha stipulato un’unione civile, oltretutto senza obbligo di fedeltà, si potrebbe trovare a dover permanere in quell’unione civile nella quale l’altro partner nel frattempo è legittimato a coltivare relazioni con altre persone, senza poterne uscire, perché per poterlo fare è necessaria la richiesta di entrambi. Non è una questione di poco conto.
Si propone pertanto una modifica che chiarisca che la volontà di scioglimento dell’unione può esser validamente presentata anche da una sola delle parti.
C’è un altro punto che è già stato parzialmente evidenziato, e che mi lascia perplessità ancor più consistenti. Mi riferisco al comma 43 relativo alle convivenze di fatto, in relazione anche ai commi 36 e  37. Non è infatti chiara la modalità con la quale si possa verificare con apprezzabile margine di oggettività se ci si trovi giuridicamente in presenza di una convivenza di fatto o meno?
Il comma 36 definisce la convivenza di fatto e prevede alcuni requisiti, che però sono di tipo squisitamente soggettivo e ben difficili da dimostrare in fase processuale. La norma si riferisce a legami affettivi di coppia e reciproca assistenza morale e materiale, che hanno peraltro a che fare più che altro con i doveri e gli obblighi che i contraenti assumono reciprocamente, ma sono ben difficili da provare in tribunale e dunque sfuggono ad una compiuta definizione dell’istituto giuridico.
L’unico requisito oggettivo individuato dalla norma è quello della semplice co-residenza, di talché il fatto di avere residenza comune e dunque scheda anagrafica unica configura – sia pure con presunzione juris tantum ma coi limiti alla oggettività della prova di cui sopra – la sussistenza di una “convivenza di fatto” con diritti e doveri connessi. Capirete che, ragionando per assurdo (ma non tanto, perché nei tribunali del nostro Paese arriva più l’assurdo che il non assurdo), potrebbe essere che taluno si trovi suo malgrado coinvolto in una “convivenza di fatto” scoprendo, per esempio, di esser obbligato a versare gli alimenti al proprio ex-coinquilino, senza aver mai avuto la volontà di stipulare una convivenza di fatto.
Faccio l’esempio dei due studenti universitari che, per ragioni di convenienza, pongano la residenza in comune. Uno dei due ben potrebbe decidere di interrompere la convivenza e chiedere contestualmente all’altro l’assegno di alimenti. Come sarà possibile comprovare che quel tipo di relazione fosse o meno fondata su legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale? Uno dei due avrà tutto l’interesse ad affermare la natura affettiva della coabitazione e l’altro, invece, dovrà – non si sa con quali fortune – negare ogni coinvolgimento di reciproca assistenza. Chi sarà in grado di discernere se da quella situazione, che è una mera situazione di fatto, nascano o meno considerazioni di carattere giuridico?
E soprattutto, è giusto che persone che hanno scelto di convivere liberamente e senza reciproco impegno, si trovino costrette per legge e in modo retroattivo ad assumere diritti e doveri reciproci?
L’ultimo punto, che però è dirimente, è se si considerano i diritti dei minori. E’ infatti pacifico che se sussiste la convivenza di fatto come prevista dai commi 36 e 37 da essa derivano derivano tutte le conseguenze giuridiche attive e passive ivi compreso il diritto agli alimenti. Infatti, da quello che ho capito anche leggendo le audizioni precedenti, mi pare chiaro che la volontà del legislatore per quanto concerne il comma 65 (diritto agli alimenti) non sia di vincolare la sussistenza del diritto all’assegno di alimenti alla stipula del patto di civile convivenza. L’assegno di alimenti discende dunque dalla mera sussistenza della convivenza di fatto, come stabilita dall’articolo 36.
Dunque, i conviventi (anche coloro che già convivono) che vogliano (legittimamente) sottrarsi a tutte le conseguenze giuridiche della convivenza di fatto hanno quale unica alternativa quella di separare le residenze. Siamo alla versione italiota dei LAT (live apart togheter) cioè le famiglie che si ricostruiscono e si decostruiscono più volte nell’ambito della stessa giornata, scegliendo di volta in volta in quale appartamento pranzare e in quale dormire. Eterno fidanzamento sessuato.
Come che sia, imporre alle coppie conviventi di separare la residenza quale unica via per non sottostare agli obblighi reciproci che questa legge introduce, comporta serie conseguenze giuridiche su altri piani. Per esempio, il genitore che per tali ragioni porti altrove la propria residenza non potrà beneficiare degli assegni familiari per l’eventuale prole, ove risulti non convivente con essa. E questa è solo una delle possibili conseguenze.
Con questa legge in altre parole si vogliono portare le persone conviventi (e la stragrande maggioranza sono eterosessuali, molte delle quali con prole) a separare le rispettive residenze, provocando in tal modo una serie di gravi conseguenze per la prole e obbligando le coppie conviventi a scelte contrarie alla libertà e di autodeterminazione.
Tutto questo, a mio avviso, costituisce una grave violazione dei diritti individuali delle persone.

DOMANDE

SIMONE PILLONvicepresidente del Comitato Difendiamo i nostri figli. Grazie, presidente. Rispondo all’onorevole Marzano, che con la prima domanda chiedeva chi sono i deboli.
Io non voglio identificare chi siano i deboli nella contrapposizione tra categorie presunte, omosessuali ed eterosessuali, non è questo il punto. Il problema su cui voglio portare la riflessione è un altro, onorevole: siamo sicuri che la risposta del dare, e cioè, seguendo il suo ragionamento, se concedere il matrimonio a tutti sia una modalità per venire incontro alle esigenze dei deboli?
Se le categorie che non possono accedere al matrimonio sono tout court da considerare deboli, allora abbiamo anche i single che non possono accedere al matrimonio, quindi perché non garantire il matrimonio anche ai single? Abbiamo anche i poliamori in Olanda, cioè tre persone che si vogliono molto bene, vivono insieme e hanno un progetto solidaristico di vita in comune, quindi perché non dobbiamo concedere il matrimonio anche a loro?
Questa è una domanda che io pongo dunque a Lei. Se la società naturale configurata dalla Costituzione è fondata sulla differenza sessuale e sul numero 2 cioè sulla coppia dei protagonisti, forse ci sarà una ragione che viene anche dalla natura e dalla storia e che oggi si vuol contraddire a colpi di maggioranza senza curarsi delle conseguenze.
Circa la sua domanda sulla naturalità della differenza tra il maschile e il femminile. Lei che per formazione filosofica è molto abile a giocare con le categorie linguistiche (Cfr. la decostruzione del linguaggio di Derrida e la decostruzione dei generi secondo Judith Butler) chiede come si possa accostare il concetto di paternità al concetto di mascolinità. Dunque padre e maschio sono concetti non collegabili? Ricordo che non solo la realtà delle cose ma anche le disposizioni legislative europee quali la recentissima risoluzione n. 2079 del 2015 del Parlamento europeo, ci impongono il recupero e il rispetto del ruolo dei padri nell’educazione dei figli e chiedono che sia dato finalmente spazio alla figura del padre, inscindibile dalla mascolinità, come la madre è inscindibile dalla femminilità. Almeno nella realtà immanente che conosciamo.
Il problema è che oggi viene messa in discussione la stessa realtà e la discussione si sposta sulla sussistenza o meno dell’ovvio. Dunque chiedo a Lei: la mascolinità corrisponde in una misura alla paternità? Ancora esiste tale corrispondenza o abbiamo perso ogni categoria? Sembra che purtroppo sia valida questa seconda ipotesi, anche perché (rispondendo all’onorevole Pagano) questa norma che oggi stiamo discutendo pone grossi problemi anche in ordine alla determinazione di cosa sia maschio e cosa sia femmina. Ai commi 26 e 27 si stabilisce che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile mentre la stessa sentenza porta alla trasformazione del matrimonio in unione civile. Ma chi è maschio e come si rettifica il proprio sesso? Pare che il corpo non abbia più nulla da dire in proposito.
La sentenza n. 15138 del 2015 della Corte di Cassazione ha infatti stabilito che una persona con caratteristiche morfologiche maschili possa cambiare sesso senza modificare nulla del proprio corpo, quindi oggi siamo di fronte…
MICHELA MARZANO. Ma che c’entra?
SIMONE PILLONvicepresidente del Comitato Difendiamo i nostri figli. Sto rispondendo all’onorevole Pagano che ha chiesto come gestire la questione del cambiamento di sesso. Qui si pone un problema fondamentale, perché due persone anagraficamente definite come maschi – a sentir la Corte di Cassazione non è detto che lo siano – quantomeno dal punto di vista semplicemente morfologico – (anche a tacer del sesso gonadico, del sesso cromosomico, del sesso psichico). Dunque due maschi di cui uno però sia anagraficamente femmina (anche se morfologicamente maschio) debbono poter accedere all’unione civile oppure al matrimonio?
Se non possiamo più determinare giuridicamente chi è maschio e chi è femmina perché viene messo in discussione tutto, credo che a quel punto non possiamo più determinare neanche se questo che ho in mano ora sia un microfono oppure se sia un codice civile.
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