martedì 29 marzo 2016

Alta infedeltà


Alta infedeltà, il format sfascia famiglie
di Elisabetta Broli

Di modi per cercare di distruggere la famiglia purtroppo ce ne sono parecchi. Uno di questi si chiama Alta infedeltà, un programma televisivo il cui titolo dice già molto, proposto da Real time. Il motivo per cui ne parliamo è semplice: gli ascolti da marzo 2015 (anno della prima edizione) a marzo di quest’anno (seconda edizione) sono più che raddoppiati. Lo share medio è passato dallo 0,7% all’1,58%, da 226mila telespettatori a 441mila, un ottimo successo per la rete tematica italiana di proprietà di Discovery Italia. In altre parole: su cento persone che guarda in quell’ora la televisione, una e mezza guarda “Alta infedeltà”. 
Forse qualche lettore si ricorderà come il programma fu pubblicizzato, con una finta lettera di un marito tradito a tutta pagina sul Corriere della Sera. Un’ottima operazione di marketing perché, credendola vera, tutti i media la ripresero trasformandola in un tormentone. Su Facebook la pagina creata ad hoc arrivò a registrare fino a 50 like al minuto, con una valanga di commenti di solidarietà al marito. L’incipit della lettera: “Amore mio, per te farei di tutto lo sai. E tu invece ti faresti tutti”.
Alta Infedeltà – Mille modi per tradire il sottotitolo - va in onda dal lunedì al venerdì alle 20.40. Trenta minuti in cui i veri protagonisti (così sostiene la rete, ma ha poca importanza) insieme ad attori ricostruiscono il tradimento come fosse un docu-film. Le storie, che sempre la rete giura essere vere, sono raccontate da tre punti di vista: del tradito/tradita, del traditore/traditrice e dell’amante. Perché – spiega Real time – quando c’è di mezzo un tradimento la verità non è mai una sola. Una pluralità di opinioni politicaly correct!
Il target di riferimento del programma sono le donne dai 20 ai 49 anni, molto meno gli uomini. Il messaggio che passa è che tradire è semplice e frequente, che in tutte le coppie c’è sempre un tradito o un traditore e che il matrimonio non è per sempre, come sostengono spesso i protagonisti (otto le puntate che abbiamo visto). Perché hanno tradito? Per curiosità, per noia, la nascita di un figlio cambia la famiglia, non usciamo più alla sera, non più come prima, mia moglie è sempre occupata con il bambino. Mio marito passava le serate a guardare il calcio, per non litigare ha cominciato ad andare al bar, e lì ha conosciuto una tifosa come lui. E poi la passione fisica, lo/la desideravo con tutto/a me stesso/a: come cantava Claudio Baglioni? Ma io ti voglio, quanto ti voglio… 
Mille modi per tradire, ma il risultato è sempre lo stesso: l’avvocato. Con rabbia, delusione, rancore, voglia di vendetta. Tradire è facile, così sembra, però ci vuole attenzione (cancellare sempre gli sms, come insegna il film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti, da vedere per capire dove sta andando la società), poi ci vuole memoria per ricordare le bugie e cura nei particolari. Per chi vuol mettere in campo il tradimento perfetto Alta infedeltà è il prontuario che serve. 
Ma, senza fedeltà, il matrimonio a cosa si riduce? Non è per questo che la comunità omossessuale chiede che venga reinserito l’obbligo di fedeltà nella legge sulle unioni civili? Nel ddl Cirinnà (approvato al Senato ora deve passare alla Camera) è stato tolto dopo il braccio di ferro all’interno della maggioranza, causando anche una protesta di attivisti delle associazioni Lgbt davanti a Palazzo Madama. La proposta di alcuni parlamentari Pd: togliamo l’obbligo di fedeltà anche dal matrimonio eterosessuale, “è una visione superata”. Alta Infedeltà fa scuola.
Ha detto il Papa nell’udienza generale di mercoledì 21 ottobre 2015: “Si può dire che la famiglia vive della promessa d’amore e di fedeltà che l’uomo e la donna si fanno l’un l’altra… Ai giorni nostri l’onore della fedeltà alla promessa della vita famigliare appare molto indebolito. Da una parte perché si affidano esclusivamente alla costrizione della legge i vincoli della vita di relazione e dell’impegno per il bene comune. Dall’altra perché si affidano esclusivamente alla costruzione della legge i vincoli della vita di relazione e dell’impegno per il bene comune”.  Ecco perché quella mandata in onda da Real Time è l’anti-famiglia. E basta guardare una puntata per capire cos’è la vera tv spazzatura. 

*
Love & money, ma sono solo canzonette
di Rino Cammilleri

Non passano due-tre giorni senza che il tiggì nazionale non chiuda la serie di notizie quotidiane con un assist all’industria italiana della canzonetta o del cinema. Se non si è verificata qualche strage importante, la “prima pagina” è dedicata alla politica interna («Renzi ha detto», «Bersani ha replicato», «secca smentita di Franceschini», «durissimo Cuperlo»…), poi quella internazionale, indi il Papa, la cronaca nera, un riempitivo di “varia” e infine Mollica ci comunica che il tal cantante ha appena fatto un nuovo disco «molto bello» nel quale «raggiunge la maturità artistica» eccetera eccetera. 
A domanda sul contenuto delle canzoni quello (o quella) risponde che il tema è l’amore perché per lui (o lei) è la cosa più importante del mondo e che, se nel mondo ce ne fosse di più, di”amore”, le cose non andrebbero come vanno eccetera eccetera. Chiunque si affacci sulla scena tiggina per propagandare il suo cd, la zuppa è sempre questa. Sempre. Verrebbe da pensare che il mondo è duro d’orecchi e che, anzi, sarebbe l’ora di cantargli qualcos’altro, visto che più gli canti l’”amore” e peggio va. Il fatto è che da quando la canzone è diventata un’industria bisogna seguire i ritmi, appunto, industriali. 
E la logica del mercato, al quale occorre dare quel che vuole. Ma siamo sicuri che sia questo quel che il mercato vuole? Nel dopoguerra Nilla Pizzi cantava canzoni d’amore: comprensibile, visto quel che era appena finito. Modugno sembrò lì per lì cambiare argomento, ma subito anche lui si adeguò. Seguì Gianni Morandi con il yèyè, ma sempre quella era. La lunga parentesi comunista aggiunse qualche nuovo fromage alplateau, ma a Sanremo vinceva sempre l’”amore”. Anche quando i cantanti italiani riciclavano successi americani o inglesi che parlavano di tutt’altro, la traduzione era sempre monocorde: basti pensare al testo ermetico di A whiter shade of pale che in italiano diventò Senza luce e parlò di indovinate che (l’ancora più ermetica Homburg divenne spudoratamente L’ora dell’amore). 
E così via fino ad oggi, con scommessa accettata su che cosa ci propinerà il futuro. Così, mentre untinto Gianni Morandi ancora riempie le arene con il medesimo repertorio e i grinzosi Rolling Stones si accingono al cinquecentesimo tour mentre un imbalsamato Bob Dylan annuncia il suo ennesimo album, il solito aneddoto personale chiarirà come funzionano realmente le cose nell’industria della canzone. Da ragazzo, anch’io plagiato dal clima culturale (si fa per dire) del tempo, imparai la chitarra e mi misi a scrivere canzoni. Quando ebbi un discreto repertorio di brani mi presentai alla sede romana della più importante ditta discografica. Mi ricevette un “maestro” che, dopo avere ascoltato con aria annoiata quanto avevo di meglio, mi chiese se non avessi qualcosa del tipo My sweet Lord (canzone del defunto George Harrison in lode di Hare Krishna, poi accusata di plagio da Carol King). 
Naturalmente, non gli interessava il testo, ma la musichetta orecchiabile, e solo perché avevavenduto molto. Insomma, era, in quel momento, «ciò che va». Provai a fargli ascoltare qualche altra mia cosa, ma ogni volta ripeteva lo stesso ritornello. Mi ritrovai fuori, scornato. Uguali scene, con qualche variante, si ripeterono a Milano presso altre aziende. Alla fine gettai la spugna. Sì, perché i “maestri” che esaminavano le nuove proposte badavano soprattutto al fatturato, producendo con ciò un serpente che si mordeva la coda: davano al pubblico quel che, secondo loro, il pubblico voleva, in un infernale gioco al ribasso senza fine. 
Ed è in tal modo che giovanotti e giovanotte, selezionati con criteri quali quelli testé descritti, sonomacinati dall’industria e buttati via l’anno seguente per far posto alle “nuove proposte” e ai “talenti emergenti” che dureranno in scena ancor meno. Uno su mille ce la fa, cantava il solito Gianni Morandi, e riesce a pagarsi il mutuo della villa e gli alimenti alle ex. Gli altri, sono fortunati se trovano da esibirsi in Corea. Purché tutti quanti, fortunati e no, cantino “all’italiana”, cioè l’”amore”. Ma che p….!