giovedì 25 febbraio 2016

Il nome e l’aggettivo

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Messa a Santa Marta. 
L'Osservatore Romano
Siamo aperti agli altri e capaci di misericordia o viviamo chiusi in noi stessi schiavi del nostro egoismo? La parabola evangelica di Lazzaro e dell’uomo ricco, presentata dalla liturgia, ha guidato Papa Francesco — nella messa celebrata giovedì 25 febbraio a Santa Marta — in una riflessione sulla qualità della vita cristiana. Richiamando l’antifona d’ingresso tratta dal salmo 139 (23-24), il Pontefice ha sottolineato l’importanza di chiedere al Signore «la grazia di conoscere» se percorriamo «una via di menzogna» o quella «della vita». Siamo, ha spiegato Francesco, sul tracciato della riflessione portata avanti nei giorni precedenti quando si parlava della «religione del fare» e della «religione del dire». Lo spunto viene dato dai due personaggi evangelici: l’uomo ricco, descritto come uno «che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo» e che «ogni giorno si dava a lauti banchetti». Una caratterizzazione anche un po’ forzata che vuole, cioè, mostrarci una persona che «aveva tutto, tutte le possibilità». Di fronte a lui c’è «un povero, di nome Lazzaro» che «stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe».
Il Papa ha analizzato la descrizione dei personaggi e ha evidenziato come il ricco — lo «si vede proprio nel dialogo finale col padre Abramo» — fosse «un uomo di fede», che «aveva studiato la legge, conosceva i comandamenti» e che «sicuramente tutti i sabati andava in sinagoga e una volta all’anno al tempio»; insomma: «proprio un uomo che aveva una certa religiosità». Allo stesso tempo dal racconto evangelico emerge come egli fosse anche «un uomo chiuso, chiuso nel suo piccolo mondo, il mondo dei banchetti, dei vestiti, della vanità, degli amici». Chiuso nella sua «bolla di vanità», costui «non aveva capacità di guardare oltre» e non si «accorgeva di cosa accadesse fuori del suo mondo chiuso». Ad esempio, «non pensava ai bisogni di tante gente o alla necessità di compagnia degli ammalati», pensava invece solo a se stesso, «alle sue ricchezze, alla sua buona vita: si dava alla buona vita». Era — ha concluso così la sua analisi il Pontefice — un uomo «religioso, apparente». Di fatto, un perfetto esempio «della religione del dire».
Il ricco epulone «non conosceva alcuna periferia, era tutto chiuso in se stesso». Eppure «proprio la periferia» era «vicina alla porta della sua casa», ma lui «non la conosceva». Questa, ha spiegato Francesco, «è la via della menzogna» dalla quale nell’antifona si chiede al Signore di liberarci.
Di fronte a tale descrizione, il Pontefice si è addentrato nell’analisi interiore dell’uomo ricco, una persona che «si fidava soltanto di se stesso, delle sue cose», e «non si fidava di Dio»; assolutamente lontano dall’«uomo beato che confida nel Signore» che gli viene contrapposto nel salmo responsoriale tratto dal salmo 1. «Quale eredità — si è chiesto allora il Papa — ha lasciato quest’uomo?». Sicuramente, ha detto citando ancora il salmo responsoriale, «non è come un albero piantato lungo i corsi d’acqua», ma «come pula che il vento disperde».
Quest’uomo aveva una famiglia, dei fratelli, nel racconto evangelico si legge che egli chiede al padre Abramo di inviare loro qualcuno per avvisarli: «Fermatevi che questa non è la strada!». Ma lui morendo, ha spiegato Francesco, «non ha lasciato eredità, non ha lasciato vita, perché soltanto era chiuso in se stesso».
Un’aridità di vita sottolineata, ha puntualizzato il Pontefice, da un particolare: parlando di quest’uomo il Vangelo «non dice come si chiamava, soltanto dice che era un uomo ricco». Dettaglio significativo, perché «quando il tuo nome è soltanto un aggettivo, è perché hai perso: hai perso sostanza, hai perso forza». Allora di qualcuno si dice: «questo è ricco, questo è potente, questo può fare tutto, questo è un prete di carriera, un vescovo di carriera...». Succede spesso, ha spiegato il Papa, che siamo portati a «nominare la gente con aggettivi, non con nomi, perché non hanno sostanza». Questa era la realtà del ricco del racconto odierno.
A questo punto Francesco si è posto una domanda: «Dio che è Padre, non ha avuto misericordia di questo uomo? Non ha bussato al suo cuore per commuoverlo?». E la risposta è stata immediata: «Ma sì, era alla porta, era alla porta, nella persona di quel Lazzaro». Lazzaro, lui sì che aveva un nome. «Quel Lazzaro — ha aggiunto il Papa — con i suoi bisogni e le sue miserie, le sue malattie, era proprio il Signore che bussava alla porta, perché quest’uomo aprisse il cuore e la misericordia potesse entrare». E invece il ricco «non vedeva», «era chiuso» e «per lui oltre la porta non c’era niente».
Il brano evangelico, ha commentato il Pontefice, è utile a tutti noi, a metà del cammino quaresimale, per sollecitarci alcune domande: «Io sono sulla strada della vita o sulla strada della menzogna? Quante chiusure ho nel mio cuore ancora? Dove è la mia gioia: nel fare o nel dire?», e ancora: la mia gioia è «nell’uscire da me stesso per andare incontro agli altri, per aiutare», oppure «la mia gioia è avere tutto sistemato, chiuso in me stesso?».
E mentre pensiamo a tutto questo, ha concluso Papa Francesco, «chiediamo al Signore» la grazia «di vedere sempre i Lazzari che sono alla nostra porta, i Lazzari che bussano al cuore» e quella di «uscire da noi stessi con generosità, con atteggiamento di misericordia, perché la misericordia di Dio possa entrare nel nostro cuore».