martedì 23 febbraio 2016

Domande proibite.



 Solo i bambini non provano imbarazzo a parlare di Dio

(Anna Foa) Avete mai notato come tutto quello che appartiene al campo della credenza in Dio, delle pratiche religiose, della fede sia divenuto nel tempo una questione quanto mai privata? Come mai è considerata un’intrusione nella sfera del personale, dell’intimo, chiedere a un amico, a un amante, a un familiare se crede in Dio o se va a messa o in sinagoga o in moschea nei giorni di festa? Gli unici che possono ancora porre legittimamente queste domande sono i bambini, che infatti ti rivolgono tranquillamente le domande “proibite”: Sei ebrea? Credi in Dio? Festeggi il Natale?
Ancora innocenti, presto scopriranno che domande del genere sono giudicate sconvenienti, che non si debbono porre, che chi è interrogato arrossirà o tossirà con imbarazzo o cercherà di far scivolare la domanda, dalla sua persona a un generico “ebreo”, un generico “cattolico” e fin un generico non credente. Anche interrogare sulla mancanza di fede, sulla militanza ateistica, è considerato infatti intrusivo, imbarazzante. Avete mai sentito qualcuno chiedere a un altro: «Scusa, ma tu sei ateo?», a meno proprio che non ti trovi in piazza con i seguaci dell’Associazione del Libero Pensiero a commemorare Giordano Bruno? Insomma, sono domande che si possono fare solo se sai già la risposta. Chi sta commemorando Giordano Bruno in quel contesto non può essere religioso, chi prende la comunione in chiesa non può non essere cattolico. Insomma, sono domande che non possono essere rivolte all’altro, ma solo al tuo simile. Che non ampliano la tua conoscenza ma si limitano a confermarla. La sfera della sessualità, fino a non molti decenni fa del tutto proibita, intima, riservata, è stata sostituita da quella religiosa. Si può fare outing sulla propria omosessualità ma non sulla propria fede religiosa, o almeno sulla qualità della propria fede religiosa. La frase “ebreo” è stata sostituita, senza quasi accorgersene, da “di origine ebraica”, quasi ad attenuare un’attribuzione di identità che potrebbe imbarazzare. È di famiglia ebraica, ma che creda o non creda, che pratichi o non pratichi, sono questioni coperte dalla privacy. Altrimenti si rischia di passare per un ficcanaso, per un inquisitore, per un intollerante. Si può perfino chiedere a qualcuno se crede alle streghe, al malocchio, ai fantasmi, ma guai a chiedergli se crede in Dio. Il fenomeno è stato accompagnato da una crescente disinformazione sul fatto religioso, sui testi basilari delle religioni, sulla storia stessa delle religioni. I bambini non sanno nulla di Dio. Recentemente, un bambino di una scuola elementare davanti a cui presentavo un libro, incuriosito dal mio essere ebrea (lo avevo detto perché me lo avevano chiesto i bambini!) mi ha domandato «Ma il diavolo è il fratello di Dio?». Ho negato, parlando di angeli ribelli, ma un altro bambino ha interloquito: «Stupido, Dio è figlio unico!». E un altro: «Ma Dio, di che religione è?». Domande intelligenti, acute, che crescono però sulla totale mancanza di una qualsiasi cultura religiosa, in qualunque senso sia declinata, cattolico, multiculturale, tollerante, catechistico. Viene da rimpiangere il catechismo che almeno ti dava qualche informazione di base, che poi si poteva accettare come criticare o respingere. Ma sull’ignoranza totale può crescere solo la curiosità e la stessa intelligenza innata non è sufficiente. Naturalmente, leggere i testi basilari delle religioni, la Bibbia, i Vangeli, il Corano non è nemmeno ipotizzabile, anzi non si sa nemmeno quali siano e a chi appartengano. Ma — potremmo domandarci — che rapporto ha questa mancanza di cultura religiosa con la crescente privatizzazione della fede religiosa? I due fenomeni vanno nella stessa direzione, sono frutto dello stesso processo? Il fatto di non saper nulla di religione ha davvero come corollario quello di non poter fare nessuna domanda all’altro sulla sua fede senza rischiare un’imbarazzante interferenza personale? Certo, in origine c’è la secolarizzazione, la diminuzione del valore della religione, la crescente tolleranza fra le religioni, la rinuncia all’imposizione all’altro del proprio credo. Tutto questo è all’origine, non c’è dubbio. Nessuna società intollerante, sia essa quella cattolica del Cinque-Seicento o quella islamica di oggi, considera con imbarazzo la sfera religiosa. Può al massimo darla per scontata. All’epoca di Giordano Bruno, chiedere a qualcuno se faceva la comunione nei tempi prescritti era una domanda che comportava conseguenze penali o penitenziali, era una domanda che rivolgevano gli inquisitori nella sfera del pubblico e i confessori in quella del privato. Così, nel mondo islamico di oggi, o almeno in quello in cui l’Islam è la religione dello Stato, chi si converte al cattolicesimo non racconterà in pubblico la storia della sua conversione, si guarderà bene anzi dal rivelarla per non essere accusato di apostasia. Innanzi tutto, quindi, c’è la tolleranza religiosa e la perdita di importanza della religione almeno nella sfera pubblica. Ma queste sono precondizioni che spiegano forse la carenza di conoscenza ma non questo strano fenomeno dell’imbarazzo, dell’inserzione della religione nella sfera dell’intimità individuale più rigorosa. E se provassimo a ipotizzare che questo imbarazzo non nasce dal rifiuto, non è un fenomeno attribuibile al fatto che la religione non è importante, ma si origina invece da una carica nascosta o meglio rimossa di interesse? Nessuno può pensare che all’epoca, in realtà molto vicina, in cui il sesso apparteneva rigorosamente alla sfera del privato e del non detto, non fosse per questo importante. Anzi, tanto più era rimosso tanto più era importante. E non può essere lo stesso per la religione? Non ne parliamo, non vogliamo uscire allo scoperto se non dinnanzi ai nostri simili, perché sentiamo che è qualcosa di nostro, di fondamentale, un pezzo dominante della nostra identità sia che si tratti di aderire a una fede, che di passare a un’altra che di confermare o contestare quella in cui si è cresciuti. Perché, infatti, non crediamo che questo rinchiudere nella sfera delle emozioni private, delle credenze personali la domanda su Dio, sia un fenomeno che va nella stessa direzione dell’incultura religiosa, del fatto che di Dio nulla si sa, che delle forme assunte dalle religioni positive nulla si vuole sapere, che i testi della fede, di qualunque fede, sono relegati nelle soffitte della nostra mente. Anzi, forse è proprio questo vuoto che è dietro di noi a farci affrontare con curiosità e al tempo stesso con ritegno tutto quello che ci appare pertinente alla sfera religiosa. Divenuto un mistero, di cui nessuno parla se non per sussurri, Dio ci interpella, fosse anche per negarne o porne in dubbio l’esistenza. Nessuno più fa la famosa scommessa di Pascal, scommettere sull’esistenza di Dio. Semplicemente, facciamo finta che non esista. O che non esista la domanda, che solo i bambini ormai sono più in grado di fare. Scriveva oltre cent’anni fa Rainer Maria Rilke proprio a proposito delle domande su Dio dei bambini: «E chiedessero soltanto: “Dove va quel tram a cavalli? Quante sono le stelle? E diecimila è più o meno di molto?” Ben altre cose vogliono sapere! Per esempio: “Il buon Dio parla anche cinese? Com’è fatto il buon Dio? Il buon Dio, sempre il buon Dio! Quando di lui si sa davvero così poco!”».  

L'Osservatore Romano