sabato 19 dicembre 2015

Martini, lettera ai cristiani perseguitati



di Carlo Maria Martini
Scrivendo in occasione del Natale alle comunità cattoliche della Terra Santa, sia di lingua ebraica come di lingua araba (ma avendo in mente anche tutti gli uomini e le donne delle diverse confessioni cristiane, delle diverse religioni e tutti coloro che cercano un senso serio della vita), viene subito alla mente l’augurio biblico, fatto poi proprio anche da san Francesco d’Assisi: il Signore vi dia pace. Infatti si tratta di comunità che hanno molto sofferto, soffrono molto e vivono in mezzo a popoli gravati da grandi sofferenze. E le notizie quotidiane che giungono dal Medio Oriente non fanno che mostrare un crescendo drammatico di situazioni disperate, come senza via di uscita. 


Ogni sofferenza suscita naturalmente il lamento, la rabbia, la recriminazione, il risentimento, la ricerca dei colpevoli, fuori e anche dentro la comunità, la voglia di vendetta. Non per niente molte pagine della Bibbia sono piene di espressioni come: «Fino a quando, o Dio, continuerai a dimenticarci? Non sarai tu più benevolo con noi? Fino a quando ci calpesterà l’avversario, ci opprimerà il nemico? Come la fiamma che brucia il bosco e come il fuoco che divora i monti, così tu inseguili con la tua bufera e sconvolgili con il tuo uragano…». Sono lamenti per le sofferenze imposte dall’esterno, per la violenza che regna all’interno, sono desideri che finalmente «si mettano le cose a posto», sono scoppi d’ira per il fatto che anche dentro la comunità e i gruppi si ha l’impressione che «ciascuno cerchi il proprio interesse». Così agli episodi di povertà e di deprivazione si aggiungono quelli di corruzione e sfruttamento della condizione dei poveri.


Ma un lamento senza fine e senza sbocco non corrisponderebbe alla vocazione cristiana e ci renderebbe afflitti «come gli altri uomini, che non hanno speranza» (1Ts 4,13) e alla fine ci trascinerebbe in un vortice cieco di rappresaglie. «Se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità» (Fil 2,1), se c’è una via propria che viene dal Vangelo, noi siamo in obbligo di esprimerla e di mostrarla ad altri.


Per dire parole di autentica consolazione, incoraggiamento e conforto in tale situazione, sarà importante prima di tutto eliminare ogni ragionamento, anche legittimo, su chi soffra o abbia sofferto di più o di meno, evitando di presentare in prima istanza il conto dei tanti torti ricevuti e delle sacrosante ragioni che militano dalla nostra parte. Ciò è già stato minuziosamente elencato per decenni e per secoli e non è qui che la comunità cristiana potrà dare il suo contributo specifico.
La sofferenza purtroppo accomuna tutti, e quando io soffro devo sentire anzitutto il desiderio di capire che cosa soffra o possa soffrire l’altro che si trova in una situazione analoga alla mia. Il dialogo paziente e umile, fatto di ascolto reciproco e di tentativo di comprensione delle sofferenze dell’altro ha già portato nelle nostre terre, come anche in altri paesi devastati dalla violenza e dalle vendette, molti buoni frutti. Un po’ più di fiducia nell’umanità dell’altro, soprattutto se sofferente, non può dare che validi risultati ed è già stato invocato autorevolmente da tante parti.


Se c’è questo desiderio di capire l’altro e di considerarlo come una persona umana che può soffrire al pari di me, anche se per il momento lo vedo piuttosto come la causa ingiusta delle mie sofferenze, allora su una simile situazione possono cadere delle forti parole bibliche: consolazione, grazia, riparazione, solidarietà.


Consolazione
San Paolo ai Romani dichiara apertamente che non c’è paragone tra le sofferenze che sopportiamo qui e la gloria che ci attende. Parimenti san Pietro nella prima Lettera ci ricorda che noi cristiani, pur se afflitti da varie prove, abbiamo una speranza più grande che riempie il cuore di gioia. Nella seconda Lettera ai Corinti ci viene richiamato che il Dio di ogni consolazione ci consola in ogni nostra tribolazione (qualunque essa sia), affinché anche noi possiamo consolare coloro che si trovano in una simile tribolazione.


La consolazione che lo Spirito Santo promette non è fatta semplicemente di parole buone, ma è un allargamento della mente e del cuore che permette di comprendere la propria situazione dolorosa in un quadro ancora più grande, che abbraccia le nostre regioni e il mondo intero e che viene descritta come un gemito doloroso di tutta la creazione. Così ciascuno è portato a pensare più alle sofferenze dell’altro che alle proprie, più a quelle comuni che a quelle private, e a preoccuparsi di fare qualcosa perché l’altro o gli altri comprendano che le loro sofferenze sono capite e accolte e che si desidera, per quanto è possibile, porre fine ad esse.


Grazia
Ancora nella sua prima Lettera, san Pietro non esita a dire che la situazione delle comunità a cui scrive, comunità piuttosto povere, emarginate, che non contavano molto nella società di allora ed erano persino un po’ perseguitate, si rivela di fatto come "grazia". È una grazia poter partecipare alle sofferenze di Cristo, anche senza averne dato motivo. È una grazia potersi unire all’azione con cui Gesù prende su di sé i nostri peccati e li vince. Le comunità cattoliche, ispirate dal Vangelo, sono chiamate anzitutto a riconoscere la forza potente che promana dalla loro sofferenza accettata con amore. Questa sofferenza può cambiare il cuore dell’altro e il cuore del mondo. Tali comunità, anche se piccole, povere, senza potere, sono di fatto uno strumento di dialogo e di pace in un mondo lacerato da disordini e portano una ventata di aria nuova in una serie di violenze senza fine.
Riparazione
Quando ci si rende conto davvero delle sofferenze dell’altro dimenticando un po’ le proprie, si può comprendere meglio anche il suo punto di vista e cercare insieme che cosa può riparare il male fatto. Spesso il male sarà in qualche modo irreparabile (la morte di una persona cara): ma anche qui l’esperienza mostra che anche il semplice stare vicini e vivere insieme una sofferenza grande e comune agisce come da balsamo sulle ferite anche più gravi e dispone a pensieri e opere di riparazione e di pace. Ne nasce un dialogo anzitutto familiare e fraterno, che potrà con il tempo e con la grazia dello Spirito trasformarsi anche in dialogo a livello più ampio, culturale, sociale e anche politico.


Solidarietà
Un tale dialogo ispirerà gesti di amicizia e di buona volontà, che vanno dai gesti semplici e quotidiani, già da tanto tempo compiuti nelle vostre regioni da molta gente umile, come quello di trattare con riguardo tutte le persone in qualunque situazione si trovino e far sentire loro benevolenza e bontà, sino al rispetto della dignità umana ad ogni costo, che trova vie di uscita anche in situazioni di grave conflittualità. Questo rispetto e amore per l’altro porta anche a comprendere che il bene della pace e della riconciliazione è così grande che è interesse di tutti fare, per ottenerlo, anche qualche sacrificio.


Come scriveva il grande papa Giovanni Paolo II, «non c’è pace senza giustizia» e quindi occorre che in ogni cosa anzitutto si stabiliscano i diritti e i doveri di ciascuno. Ma aggiungeva: «Non c’è giustizia senza perdono». Non è quindi possibile arrivare a una qualche intesa senza la rinuncia a qualcosa a cui si avrebbe teoricamente diritto ma che si mette in gioco per ottenere un bene più grande, cioè il bene della riconciliazione e della pace.


Di qui possono nascere e svilupparsi tante opere di solidarietà, nella linea di quelle che già esistono ampiamente nelle vostre regioni sia all’interno delle chiese sia da parte della Chiesa universale come da parte dei governi e di istanze non governative. Allora il canto di Betlemme che risuona in questi giorni - Pace in terra agli uomini che Dio ama - assume tutta la sua pregnanza e produce fin da ora quei frutti che esso è destinato a portare in pienezza nella vita eterna. Che questo Natale segni un termine e un sollievo per tante sofferenze e dia a tante famiglie quel supplemento di speranza che aiuti a perseverare nel compito arduo e difficile di vivere la pace in un mondo ancora tanto lacerato e diviso.
Avvenire