sabato 26 dicembre 2015

La vita isolata e il suo sale (e salario) non hanno sapore




di Luigino Bruni

Le solitudini non sono tutte uguali. Ci sono persone diventate sole vivendo, anziani la cui solitudine continua a essere abitata dall’assenza-presenza di chi hanno amato. C’è chi è solo perché è semplicemente povero, isolato e abbandonato nelle periferie delle nostre città. Ma ci sono anche le solitudini dei potenti, o quelle delle vittime di un modello economico-sociale che celebra la liberazione dai legami come conquista della civiltà, promettendo un’altra felicità sostituendo le persone con le merci. Le buone solitudini, che possono essere persino beate (beata solitudo, sola beatitudo), sono sempre intrecciate con gli incontri, sono pause nel ritmo sociale ordinario della vita, dialoghi diversi che ricreano e rigenerano lo spazio interiore per poter incontrare di nuovo il volto dell’altro. Quando, invece, la solitudine diventa alternativa alla vita in comune, quando incontro me stesso per fuggire da te, se mi abituo a stare da solo perché non so più stare con nessuno, ritorna forte la parola di Qohelet: guai ai soli.

«Ho osservato anche che ogni lavoro e ogni industria degli uomini non sono che invidia dell’uno verso l’altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento. L’idiota incrocia le sue braccia e divora la sua carne. Meglio riempire un palmo di calma che due manciate di affanno e compagnia di vento» (Qohelet 4, 4-6). Qohelet continua la critica della sua società. Vede "sotto il sole" uomini che si affannano nella concorrenza, in una competizione che per Qohelet non è l’anima dello sviluppo, ma solo il risultato dell’invidia sociale. Ha visto uomini superarsi in un gioco dove tutti perdono, "gare posizionali" senza traguardo. Lo ha visto nel suo mondo, e noi lo vediamo ancora di più nel nostro. E quindi torna forte il suo giudizio: hebel, vanità, fumo, rincorsa sciocca di vento. Al lato opposto di questa frenesia, Qohelet vede chi rinuncia alla gara, incrociando le braccia nell’inattività. Neanche questa è sapienza. È stolto almeno quanto la competizione invidiosa della prima scena. E poi ci indica una via saggia: lasciare libera una mano perché il suo palmo possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla "consolazione". Le due mani dell’uomo non devono essere impegnate nella stessa attività: se è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le occupa col solo lavoro frenetico. Il frutto del lavoro e dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre.

La nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha dato vita a una cultura della vita buona fondata sul lavoro, istituendo un legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro. Le braccia inattive perché non si vuole o non si può lavorare nell’età del lavoro, non sono braccia generatrici di benessere né di gioia. Nella corsa che la civiltà occidentale ha iniziato da alcuni decenni, però, ci siamo dimenticati la seconda follia-vanità del saggio Qohelet: la vita è fumo e fame di vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti "tempi". In quella cultura antica era ancora molto viva l’esperienza dell’Egitto e di Babilonia, quando gli ebrei diventati schiavi lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro che sono ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e solo per il lavoro. È difficile dire se oggi soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici. Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non la vediamo come follia evanitas, e la incentiviamo.

È il rapporto tra l’uno e il due che è al centro di questa capitolo di Qohelet: «E tornai a considerare quest’altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo [è uno, non due], non ha nessuno, né figlio né fratello. Eppure senza fine si affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: "Ma per chi è il mio penare, per chi mi privo di felicità?". Fumo anche questo, misera sorte» (5,7-8). Siamo di fronte a una pagina stupenda, un vero e proprio distillato di antropologia. Qohelet ci svela un rapporto profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un uomo solo, che lavora troppo, sempre («senza fine si affatica»), e la molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. Sta nella non sazietà la chiave di questo verso: la ricchezza che non può essere condivisa non sazia, non appaga il nostro cuore. Alimenta soltanto la fame di vento, e produce il grande auto-inganno che la ricchezza in sé o l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E la giostra continua a girare, sempre più a vuoto.

D’un tratto Qohelet ci fa entrare nell’anima di questa persona, mostrandoci un veloce ma intenso esame di coscienza: "Ma perché tutta questa fatica per nulla? A chi e a che cosa serve questo folle lavoro che mi sta consumando la vita?". Se potessimo leggere il diario dell’anima del nostro tempo, di simili esami di coscienza ne troveremmo milioni. La solitudine "distorce gli incentivi" e fa lavorare troppo, perché la soddisfazione nel lavoro diventa un sostituto della felicità al di fuori dal lavoro. Il lavoro che diventa poco a poco tutto distrugge le poche relazioni rimaste, e così si lavora ancora di più. Il tempo di lavoro cresce, torno a casa stanco, non ho voglia di uscire, il "costo" delle relazioni extra-lavorative sale, domani uscirò meno, e lavorerò di più ... Poi un giorno può arrivare puntuale la domanda: "Ma perché e per chi?". Una domanda che è drammatica quando ce la poniamo per la prima volta a ridosso della pensione, ma che può essere liberatoria se siamo ancora in tempo. Finché siamo abbastanza vivi per porci questa domanda, possiamo ancora sperare: il giorno veramente triste è quello quando rinunciamo a soffrire per la nostra infelicità e ci adattiamo a essa. Ci convinciamo di star bene nella trappola nella quale siamo caduti, e non chiediamo più nulla, per non morire. 

«Meglio due di uno solo, perché se cadranno l’uno farà rialzare il suo compagno. Ma chi è solo, guai a lui, chi lo rialza se cade? Due che dormono insieme si possono scaldare. Ma se uno dorme solo, quale calore? Se uno è aggredito, l’altro con lui fa fronte. Una corda a tre fili non si rompe facilmente» (5, 10-12). Questa non è una specifica lode della famiglia o dell’amicizia e neppure della spiritualità della comunità. Il discorso è più radicale. La vita non funziona se si è soli. Quando restiamo soli siamo fragili, vulnerabili, miseri. Dopo oltre due millenni da queste antiche parole, abbiamo costruito contratti, assicurazioni e coperte termiche per poter fare a meno dell’altro. E così abbiamo dato vita alla più grande illusione collettiva della storia umana: credere di poterci rialzare, proteggere e scaldare da soli. Ma abbiamo anche imparato che non basta essere in due nello stesso letto per sentire calore: non ci sono letti più gelidi di quelli dove si dorme in due, ciascuno immerso nella propria solitudine senza più parole. Non basta essere in due per sfuggire al "guai a chi è solo". Ci sono molte solitudini disperate rivestite di compagnia, e molte compagnie vere nascoste dietro a ciò che ci appare come solitudine.

«Meglio due di uno solo, perché c’è un salario buono per la loro fatica» (5,9). Il salario buono è quello che può essere condiviso. Il senso vero della fatica del lavoro è avere qualcuno che attende il nostro salario. Il salario senza un orizzonte più grande dell’io è un sale senza massa da insaporire. È quello di casa il tempo giusto del buon salario. L’accumulare ricchezza senza che ci sia qualcuno che con questa ricchezza deve crescere, abitare, studiare, essere curato, è fame di vento, è cibo che non sazia, anche quando consumato nei ristoranti a cinque stelle. Il nostro tempo sta perdendo il giusto tempo del lavoro anche perché ha spezzato il legame tra lavoro e famiglia. Quando i figli non ci sono, quando l’orizzonte del lavoro è troppo corto, è difficile trovare una risposta per la nuda domanda di Qohelet. Ma la nostra società post-capitalistica ha un crescente bisogno di persone senza legami forti di appartenenza, e quindi senza limiti di orario, di spostamento, senza il ritmo dei "tempi" diversi. Sono questi i dirigenti ideali delle grandi multinazionali. Qualche volta qualcuno si chiede: "Perché tanto lavoro, per chi"? Una domanda che può essere l’inizio di una vita nuova. L’offerta di nuovi beni e servizi per accompagnare le solitudini sta diventando ampia e sofisticata con la vendita di beni pseudo-relazionali. Produciamo persone sempre più sole e produciamo sempre più merci per saziare solitudini insaziabili. E il Pil cresce, indicatore delle nostre infelicità, e insieme cresce la domanda insoddisfatta di gratuità.

Ma che cosa accadrà quando questa domanda di Qohelet diventerà collettiva? Quali nuove risposte riusciremo a dare insieme? Ci sarà ancora del sale buono nelle dispense delle nostre imprese, delle città? E se cercando bene negli angoli più nascosti ne troveremo ancora qualche manciata, sarà sufficiente per insaporire le masse? Quel sale avrà ancora sapore?

l.bruni@lumsa.it