venerdì 23 ottobre 2015

Il mondo ha bisogno di fedi in dialogo



di Giancarlo Bosetti
Il dialogo tra le religioni in un tempo di conflitti e massacri che insanguinano il mondo, specialmente là dove passano i confini tra fedi, lingue; popoli diversi, può apparire come un povero palliativo, come una debolissima, inerme risposta alla furia omicida che miete vittime e innalza canti di odio. I credenti si possono affidare alla speranza che le preghiere ricevano risposta in alto nei cieli, i non credenti per lo più scuotono la testa e invitano a passare ad azioni più concrete per fermare la violenza e per rimuovere le cause dei conflitti (cose la cui importanza e necessità non possono sfuggire né agli uni né agli altri). Eppure io continuo a pensare, anche se appartengo ai secondi e non ai primi, anche se non ho dunque fiducia che forze celesti possano aiutarci grazie alle nostre preghiere, che il dialogo tra le religioni sia una attività umana importante, influente, capace di scatenare risposte potenti sulla terra.

Ma fate attenzione che quando si parla di questo argomento non c’è niente di scontato, né tra i credenti né tra i non credenti: il campo è accidentato e pieno di effetti sorprendenti. Tanto per cominciare, il dialogo tra le fedi ha amici e nemici in tutte le confessioni, tra i musulmani e gli ebrei come tra i cristiani. E anche al di fuori delle religioni abramitiche e monoteiste, tra induisti, buddhisti e tutti gli altri, il dialogo è voluto da alcuni e temuto e contrastato da altri. Se appena si approfondisce l’argomento si scopre che il dialogo tra le religioni è, sì, largamente desiderato come fattore di pace, ma è anche una sfida che pone a ciascuna fede il problema del senso della propria unicità, identità e verità. 

La sfida ha innumerevoli possibili conseguenze sul piano politico, religioso, teologico e si capirà facilmente perché essa sia importante anche per chi non appartiene a nessuna Chiesa. Essa costringe a mettere la propria fede in relazione alle altre, a misurare l’assolutezza della propria credenza con l’assolutezza delle altre credenze. Costringe a riflettere, spingendo a guardarci con gli occhi degli altri. C’è chi di fronte a questo processo fugge impau-rito, percependo il rischio del «relativismo» – ecco la la parola più minacciosa – come 
un baratro oscuro. E c’è chi invece capisce che questa sfida è inevitabile perché la diversità religiosa è entrata nella vita quotidiana ed è imposta dalla realtà. 

Non è un problema soltanto di oggi, anche se oggi è molto acuto, di fronte ai conflitti settari tra sciiti e sunniti che destabilizzano il Medio Oriente, di fronte al terrorismo jihadista dell’Isis e ai pogrom contro i cristiani in Pakistan e in Africa. 
Ma che risposta è il dialogo? Si può dialogare con Al Baghdadi, che ordina di decapitare ostaggi innocenti davanti a una telecamera per fare pubblicità al suo movimento? Si può dialogare con Abubakar Shekau, il leader di Boko Haram, che rapisce bambine per impedire loro di studiare? Evidentemente no. Il dialogo non può sostituire le funzioni militari, o di polizia, e le azioni politiche, a livello nazionale e internazionale, che sono necessarie su questa terra, ora e probabilmente sempre, per far rispettare i diritti delle persone e prima di tutto il diritto alla vita. Ma con milioni e milioni di musulmani pacifici, sciiti e sunniti, e di ogni possibile setta, che non condividono, come noi, la violenza jihadista e ne sono le prime vittime, si può e si deve dialogare, per conoscere le rispettive realtà e anche per collaborare nell’isolare ed eliminare le bande criminali e violente, che in diverse epoche e con diversa intensità si sono manifestate in tutte le religioni. 

Ma bisogna farlo anche per un importante arricchimento reciproco e per una migliore comprensione della propria stessa religione. (...) Il dialogo non è mai indolore per nessuna religione. Il dialogo crea complicazione ai religiosi di qualsiasi fede perché comporta, insieme ai benefici (la convivenza, la pace, l’isolamento dei violenti), anche il riconoscimento del pluralismo come un dato di fatto permanente e dunque una forma di limitazione della propria ambizione confessionale di universalità (convertire un giorno tutti) e di smentita della propria unicità (ci saranno altre religioni fino alla fine dei tempi), il che spinge necessariamente a cercare una giustificazione della pluralità nella dottrina della propria fede. 

La convivenza di tante confessioni sullo stesso territorio, nelle stesse città o nella sfera dei media, di Internet, delle televisioni satellitari, in una parola la globalizzazione, ci costringe non solo a tollerarci tra vicini, ma a toccarci e urtarci continuamente, nella vistosissima presenza degli uni davanti agli altri, perché è proprio di tutte le religioni l’uso di «segnare» il territorio con gli edifici e i simboli religiosi, con l’abbigliamento, con le ricorrenze festive e i riti che coinvolgono la vita comune, con i cibi e i suoni che differenziano una fede dall’altra. Ha ragione Raimon Panikkar quando dice molto efficacemente: «Siamo gettati gli uni nelle braccia degli altri ». È passato remoto, lontanissimo, inimmaginabile quello in cui le comunità potevano tenersi reciprocamente all’oscuro e a distanza.

Eppure vediamo che questo stato di cose non ha cancellato dalla società le religioni. La nostra epoca introduce nella vita ordinaria dei fedeli di qualunque confessione la chiara percezione della varietà religiosa, delle credenze e delle miscredenze, come un dato costitutivo della specie umana. Tutti sanno e vedono la presenza di altre fedi, di altre abitudini, riti, modi di nutrirsi, festività, santi. Eppure tutti sappiamo e vediamo che questa varietà che attraversa la nostra vita quotidiana non distrugge la fede, le fedi, così come la luce dissipa il buio. Niente affatto. Accade più spesso il contrario, che la consapevolezza della varietà incrementi la forza del legame con la propria fede. Le teologie pluraliste non sono un’invenzione di sofisticati teologi, ma si formano anche nel senso comune dei fedeli. È raro trovare chi ritiene gli altri veramente «infedeli», cioè credenti nel falso Dio o idolatri da convertire. Queste sono realtà che riesce a fingere soltanto chi vuole speculare sulla paura e sulla perdurante ignoranza, ma è molto più facile trovare, dovunque, chi riprova la violenza fanatica e il terrorismo, dall’interno di qualunque fede, tra i musulmani non meno che tra i cristiani. 

Avvenire