sabato 31 ottobre 2015

Gli errori di Michela Marzano sull’uomo, su Dio e....



di Emiliano Fumaneri

Molti l’avranno certamente vista in televisione a Open Space, impegnata a polemizzare con Filippo Savarese (al quale ha dato apertamente del bugiardo per poi scrivere sprezzante su twitter, poco prima di bloccarlo, che «”bugiardo” non è un giudizio di valore, è la descrizione di chi mente, ossia falsifica la realtà; basta non mentire!»), Maria Rachele Ruiu e Roberto Formigoni. Parlo di Michela Marzano, classe 1970, romana trapiantata a Parigi, dove insegna filosofia all’Università “René Descartes”, dopo studi prestigiosi presso la Scuola Normale di Pisa e La Sapienza di Roma. Nel 2011 diventa direttrice del Dipartimento di scienze sociali della Sorbona. All’attività accademica affianca quella giornalistica come editorialista di “Repubblica”.
E non solo: Michela Marzano, in omaggio alla tradizione platonica del “philosophe roi” (per Platone ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi), è riuscita anche a ritagliarsi uno spazio in politica facendosi eleggere deputata del Partito Democratico nella Circoscrizione I Lombardia. In Parlamento tra le altre cose si è segnalata per l’attivismo nel campo dei “nuovi diritti” e per il contrasto a omofobia e transfobia, a cominciare dal ddl Scalfarotto che l’ha vista tra le promotrici.

Da poco è uscito in libreria anche un suo saggio intitolato «Papà, mamma e gender». Il libro, scrive la Marzano nelle prime pagine, nasce per rispondere all’allarmismo sociale diffuso a piene mani da una truppa di scaltri manipolatori delle menti che ha infestato il dibattito pubblico mettendo in circolazione rappresentazioni caricaturali e propagandistiche degli studi sul gender che, in verità, non si prefiggono altro che il nobile scopo di combattere la discriminazione perpetrata ai danni di chi «viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».
Così da un lato si è creata nel paese una profonda frattura. Una guerra ideologica che vede schierate due fazioni contrapposte. Da una parte della barricata abbiamo un Fodria sgangherato: l’Armata Brancaleone degli «essenzialisti», convinti che esista una definizione unica e assoluta del Bene. Il Family Day del 20 giugno non è stato altro che la manifestazione più eclatante della chiamata a raccolta di questa specie di orda fanatica (una mobilitazione «disperata e disorganizzata» l’ha definita il sociologo Giuseppe De Rita interpellato dall’Huffington Post) impegnati a combattere con cieca dedizione un progetto di indottrinamento dei bambini volto a scardinare i valori famigliari e a banalizzare ogni comportamento sessuale.
L’essenzialismo, dice la Marzano, è quella corrente che assolutizza il dato biologico e «considera le differenze esistenti tra l’uomo e la donna come naturali e immutabili». Partendo dal presupposto che la differenza sessuale sia inscritta nel corpo, l’essenzialista ne deduce che essere uomo o donna coincide con l’essere maschio o femmina, cancellando così ogni influenza culturale nella determinazione dei ruoli maschili e femminili.
Dall’altro lato della barricata abbiamo invece coloro che vengono falsamente etichettati dalla barbarie familista come sostenitori del «relativismo etico», ma che in realtà sono solo padri e madri, sorelle e fratelli di persone omosessuali che si confrontano direttamente col dramma di una persona emarginata per il suo orientamento sessuale differente.
Dunque il quadro a tinte manichee è questo: il conflitto tra una canea berciante di oppressori ideologizzati e una comunità sofferente di dannati della terra. Carnefici e vittime, ruoli già assegnati in partenza. Fin dalle prime pagine del libro emerge la spiccata inclinazione della filosofa a fare uso della suggestione sentimentalistica.
Michela Marzano non critica soltanto il popolo del Family Day e le varie realtà pro-family (reti come la Manif pour tous e le Sentinelle in piedi, associazioni come i Giuristi per la Vita e Notizie ProVita, giornalisti come Costanza Miriano e Mario Adinolfi, ecc.) ma anche Judith Butler, la teorica del genderismo radicale. Alla Butler rimprovera di aver fatto coincidere l’orientamento sessuale con l’identità di genere. La Butler voleva rifiutare la prospettiva in virtù della quale se una donna è attratta da un’altra donna (orientamento sessuale), allora sarebbe “meno donna” (identità di genere) delle donne attratte dagli uomini. Di conseguenza le donne con orientamento omosessuale sarebbero non-donne o non-persone destinate ad essere oggetto di discriminazione e di emarginazione sociale. Per questo la Butler afferma che «il desiderio omosessuale terrorizza il genere». Ed ecco spiegato perché una femminista come Monique Wittig avesse ipotizzato una società senza sessi: la donna è tale, secondo questo punto di vista, solo se stabilisce un legame affettivo-sessuale con un uomo. Questa relazione però è asimmetrica, è un rapporto di sudditanza nei confronti della dominazione maschile. La liberazione della donna allora passa attraverso il lesbismo. Ecco perché, conclude la Wittig, «le lesbiche non sono donne».
Detto in altri termini, l’errore delle due pensatrici è il «riduttivismo», che designa l’atteggiamento incline a semplificare, depauperare, impoverire arbitrariamente la realtà umana, dichiarando la superfluità o l’insignificanza di cose e valori che invece esistono e hanno significato. Quello del riduttivista è uno sguardo mutilatorio che riduce la persona ad alcuni elementi accessori della personalità.
Questa posizione si può riassumere con una frase, dice Michela Marzano: “sono lesbica, quindi non posso essere una donna”. Ma la filosofa trapiantata a Parigi non si ferma qui. Secondo lei la tesi del genderismo radicale non è altro che la versione speculare di alcune posizioni cattoliche, che invece possono essere compendiate dalla frase: “sono una donna, quindi non posso essere lesbica”. Non si capisce peraltro quali siano queste fantomatiche “posizioni cattoliche” visto che la Marzano non indica un qualche riferimento utile a identificarle.
Alquanto sofistico appare il suo tentativo di negare che esista una teoria o una ideologia del gender: esistono solo i “gender studies”, afferma la studiosa. L’espressione “ideologia del gender” non corrisponde a un concetto univoco e definito. Esistono tante varianti della teoria del gender, dunque la reductio ad unum è arbitraria. Non si può parlare di un’unica ideologia gender, ma di un insieme eterogeneo di posizioni. L’obiezione in sé è banale: gioca sulla confusione tra essenza e esistenza. Accoglierla sarebbe come negare l’esistenza di una dottrina comunista per via della presenza al suo interno di dottrine discrepanti (come ad esempio capitava in Francia con la dottrina di Althusser e quella di Garaudy), dimenticando però che l’esistenza di queste varianti non comprometteva l’essenza dell’ideologia comunista. Semplicemente le varianti fanno parte della varietà nascente da ogni elaborazione che poggi su un’idea di base, così come anche nel pensiero cristiano esiste una varietà di scuole filosofiche o teologiche che condividono alcuni princìpi basilari e disputano sul non essenziale. Lo stesso vale per il femminismo (che si suddivide nelle due correnti del femminismo dell’«uguaglianza» e della «differenza») e per gli “studi di genere”. Senza contare che un conto sono gli studi accademici, un altro il loro uso politico.
La tesi della Marzano è questa: il sesso non coincide con i ruoli di genere né con l’identità di genere. E questo non crea alcun problema particolare, purché la distinzione tra sesso e genere non si tramuti in separazione. Se i ruoli di genere non sono una derivazione strettamente necessaria del sesso biologico (come vorrebbe un certo determinismo biologistico), per cui possono assumere forme e realizzazioni storiche differenti a seconda delle circostanze, allo stesso modo non sono nemmeno indipendenti dalle inclinazioni sessuali.
Per rendersene conto basterebbe prendere in mano il libro scritto a quattro mani da Tonino Cantelmi e Marco Scicchitano («Educare al femminile e al maschile»), che riporta una serie di studi scientifici attestanti una serie di differenze innate e sostanziali tra maschile e femminile a livello psicologico e neurobiologico. Oltre al punto di vista anatomico, dove la differenza è chiaramente evidente negli attributi sessuali più espliciti, esiste una differenza anche nell’anatomia cerebrale e a livello del sistema endocrino. Questo fa sì, ad esempio, che in generale le bambine vengano al mondo con una più spiccata predisposizione alla relazione.
Come si può negare che questa differenza innata tra maschile e femminile nel corso della storia abbia avuto una forte influenza – anche se non deterministica, cioè univoca e necessaria – sullo sviluppo dei ruoli di genere?
Gli autori, si badi bene, non sostengono affatto che sesso e genere coincidano. Ma la non coincidenza non equivale affatto a una separazione. Piuttosto si tratta di ordini di realtà distinti eppure comunicanti. Così a una condizione innata e naturalmente data come il sesso (declinabile al maschile o al femminile) si aggiunge la dimensione culturale, psichica e relazionale: il genere. Si nasce biologicamente maschio o femmina. Si diventa uomo o donna nel corso dello sviluppo, confrontandosi con l’esperienza, l’educazione, l’interazione sociale.
Tra genere e sesso sussiste una profonda relazione organica, analoga a quella che lega il corpo allo scheletro. Sull’humus biologico, sul substrato del sesso si sedimentano i ruoli di genere, che perciò hanno indubbiamente un margine di variabilità legato alle circostanze storiche e culturali. Esiste inoltre una variabilità individuale elevatissima per cui, lungi dall’accreditare qualunque “essenzialismo”, non fa alcun problema che ad alcuni bambini possa piacere giocare con le bambole e ad alcune bambine piaccia giocare a calcio. Purché si ricordi che si tratta pur sempre di variazioni contingenti e particolari su un tema predefinito, e dunque essenziale.
Il punto di non ritorno pedagogico si oltrepassa quando la flessibilità diventa intercambiabilità, quando l’eccezione diventa la norma, quando il particolare diventa universale. In breve, quando le costanti documentate e riconoscibili che caratterizzano il maschile e il femminile non vengono valorizzate, cioè quando la loro dimensione viene disconosciuta.
Contrariamente a quanto sostiene Michela Marzano, affermare che le differenze dei ruoli di genere hanno «anche» un fondamento biologico non equivale a dire che hanno «solo» un fondamento biologico (come vorrebbe un certo determinismo biologico). Così come nessuno nega i soprusi, le ingiustizie e le discriminazioni perpetrate nel corso della storia dal determinismo biologico. Ben vengano dunque le distinzioni che smantellano ruoli troppo rigidi e gabbie sociali quali erano diventati i ruoli del maschile e del femminile negli anni ‘70.
Ma il guadagno in flessibilità rischia di essere perso dal rischio di sprofondare nella confusione identitaria più totale. Non tenere conto delle differenze biologiche tra maschi e femmine e ritenere il genere come una realtà culturale completamente slegata dal sesso, intercambiabile e totalmente arbitraria rischia di generare non persone accoglienti e rispettose della diversità, bensì individui privi di un centro psichico, cioè di una forma definitiva e armonica che li rende capaci di accogliere l’altro e la diversità senza paura.
In maniera analoga, non si capisce quale necessità imponga di contrastare il riduttivismo sovvertendo gli orientamenti sessuali. Sì, perché in questo programma di sovversione consiste la proposta di Michela Marzano: «lottare contro le discriminazioni significa innanzitutto smetterla di pensare che esista un orientamento sessuale “buono” e un orientamento sessuale “cattivo”». Bisogna quindi equiparare effettivamente eterosessualità e omosessualità, perché non esiste un orientamento sessuale normale: «l’omosessualità, esattamente come l’eterosessualità, è solo un orientamento sessuale (...) e quindi un modo di essere e di amare». È «qualcosa che non si sceglie, non si cambia, non si cura» perché «fa parte della propria identità».
Qui si capisce che il vero obiettivo è ideologico: scardinare quello che alcuni ideologi denominano “eterosessismo”, quel sistema che prescrive la “norma eterosessuale” attraverso il linguaggio e il senso comune.
La docente di filosofia insiste e si chiede: «Come si fa a educare all’uguaglianza e a lottare contro le discriminazioni – cosa su cui tutti sembrano d’accordo se non si promuove anche l’equiparazione di ogni orientamento sessuale smettendola di dire e insegnare che l’omosessualità è una deviazione rispetto all’eterosessualità? Come si possono combattere i cattivi stereotipi se non si fa lo sforzo di analizzare le modalità attraverso cui certi ruoli di genere stereotipati sono stati storicamente e culturalmente costruiti?».
Affermazioni che mirano ad accreditare la falsa tesi secondo la quale per combattere le discriminazioni e il bullismo occorre «decostruire gli stereotipi di genere, spiegare che l’orientamento sessuale non dipende dal sesso e insegnare che ci sono tanti modi diversi per diventare uomini e donne». Perseguire un simile scopo è come voler combattere la rigidità immettendo dosi massicce di confusione. Simili affermazioni appaiono anche di una superficialità unica, perché prendono sul serio quel simulacro di risolutezza che nel classico “bullo” nasconde profonda insicurezza e disistima di sé. Aggressività e violenza nel “bulletto” diventano maschera e scudo con le quali si difende dal mondo prima che il mondo possa deludere e fare del male. Il bullo è un insicuro, nient’affatto un “integrato”. È un orfano del nomos, della legge. Ha un bisogno disperato di qualcuno che metta dei limiti a un mondo che gli appare caotico, oscuro e pericoloso. L’unico modo che ha per dare coerenza a una personalità sconnessa è convogliare l’aggressività contro un bersaglio facile. Perciò è vile e aggredisce i più deboli appoggiandosi al gruppetto. Ignora il vero coraggio, quello della forza che sa sacrificarsi per proteggere l’inerme e che Simone Weil chiamava «attenzione creatrice».
In breve, questo piccolo prevaricatore ha bisogno di un’autorità paterna che, liberandolo dalla paura e dalla schiavitù delle pulsioni aggressive, gli permetta di differenziarsi dalla massa indistinta della gang, consentendogli di acquisire spessore e individualità. Solo così l’autorità, che non a caso viene da augere, crescere, assolve una funzione liberatoria e benefica. La gang in cui il bulletto tiranneggia evoca la fratellanza dei pari uniti dalla legge orizzontale in contrapposizione a quella verticale del padre. Sintetizzando, è un brulicare di pulsioni antipaterne.
Una pedagogia decostruzionista, volta a disfare anziché edificare, quali disastri potrebbe causare in un’età di per sé connotata da fragilità psichica, che avrebbe piuttosto bisogno di riferimenti stabili? Nell’età della vita in cui occorre cominciare a consolidare le fondamenta si tempestano invece gli allievi di dubbi sulla propria identità. Moltiplicando le zone d’ombra in chi comincia appena ad affacciarsi ai lumi della ragione non si rischia di precipitarlo ancora di più nel caos?
Si potrebbe anche smetterla col riduttivismo. Invece che decostruire ruoli e stereotipi si potrebbe evitare di ridurre la persona umana al suo orientamento sessuale, quale che sia, e impostare un’educazione basata sulla dignità di ogni singolo individuo.
Allo stesso modo, si potrebbe pure ricordare che lo stereotipo deve essere preso cum grano salis, e che più si scende nel particolare e nel concreto, più le cornici generali devono farsi flessibili per accogliere l’individualità unica e irripetibile di ciascuno. Se il riduttivismo criticato dalla Marzano consiste nello schiacciare l’identità della persona sul suo orientamento sessuale, allora non sarebbe più opportuno insistere sul fatto che la persona non può coincidere con le sue inclinazioni sessuali, per cui chi ha un orientamento omosessuale non è meno uomo o meno donna di altri? No, per la Marzano la lotta contro la discriminazione e il bullismo omofobico passa attraverso il livellamento degli orientamenti sessuali, oltre che per la decostruzione dei ruoli di genere. Ciò, evidentemente, comporta di ricadere di nuovo nel riduttivismo. Non a caso l’autrice di «Sii bella e stai zitta» non nasconde la sua predilezione per il comunitarismo, quella filosofia che Pierre-André Taguieff ha accusato di coltivare un nuovo dogmatismo: l’utopia dell’abolizione totale e definitiva di ogni differenza tra i gruppi umani dalla quale, magicamente, dovrebbe sorgere la fratellanza universale.
Per la filosofa-parlamentare avere una inclinazione omosessuale o eterosessuale è perfettamente indifferente: «non è colpa di nessuno», sentenzia la deputata del PD che conclude all’insegna del più classico fatalismo: «È la vita. E, in fondo, va bene così». Anche diventare o non diventare madre è semplicemente «qualcosa che accade, oppure no». Ci si incontra tra persone, ci si ama. Ci sono le «opportunità» e il «caso». Avere figli o non avere figli è solo «uno dei tanti elementi della vita». Niente vergogna né orgoglio. Una vena qualunquistica che rasenta la banalità e affiora sovente nel libro: non ci sono scelte migliori o peggiori, buone o cattive. Tutto capita un po’ così, per qualche strano gioco del destino. Insomma, una vera apologia del caso, per dirla con Odo Marquard.
Inutile dire che la Marzano, anche se afferma di non pensare che «tutto si equivalga», plaude al relativismo familiare affermando la necessità di «trovare una soluzione alle molteplicità di famiglie esistenti». Ma non si comprende in base a quale parametro si possa sostenere che “non tutto si equivale”, visto che la sua unica preoccupazione appare quella di insistere sull’impossibilità di stabilire una gerarchia tra “famiglie”. Non è nemmeno possibile compararle, afferma lei stessa.
In realtà il criterio c’è e si chiama differenza sessuale, ma la Marzano lo ignora perché accogliere un simile principio contrasterebbe col presupposto implicito di tutto il suo discorso, cioè che essere famiglia è sinonimo di sentirsi famiglia. Non è più la differenza sessuale la condizione della famiglia, bensì l’orientamento sessuale. Di conseguenza la base della famiglia non è più una logica binaria, dicotomica o qualitativa (maschile-femminile), ma una logica plurale, quantitativa e numerica. Gli orientamenti sessuali infatti sono molteplici: eterosessuale, omosessuale, bisessuale, a-sessuale, per non parlare delle inclinazioni più oscure e abnormi (sadismo, feticismo, masochismo, anche la pedofilia). L’inclinazione sessuale è tendenzialmente cieca e perciò plurale: designa in sostanza l’oggetto verso il quale il soggetto si sente sessualmente attratto. Ma senza una natura delle cose, senza un ordine in base al quale gerarchizzare le inclinazioni, gli orientamenti sessuali diventano equivalenti. Si capisce subito perché sia impossibile fondare la famiglia sul solo orientamento sessuale. Senza una “forma” propria anche la sessualità non resta che materia indeterminata, pura potenza che può essere plasmata assoggettandola alle forme che intendiamo darle, come se fosse «materiale» inanimato.
Assieme al fatalismo e alle dubbie speculazioni sulla differenza sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale, la Marzano mostra anche di condividere un innatismo totalmente postulatorio, cioè senza prove. Come quando, nell’accennare al transessualismo, parla di un «brutto scherzo della natura» per cui i transessuali «sentono fin dall’inizio di essere prigionieri di un corpo sbagliato» e sono condannati a «ritrovarsi fin dalla nascita all’interno di un corpo che non corrisponde a quello che provano dentro».
Non si capisce su che basi scientifiche poggino affermazioni come queste. L’American Psychological Association, che Michela Marzano cita spesso e volentieri ma non sempre a proposito, ha pubblicato sul suo sito un documento intitolato «Answers to Your Questions About Transgender People, Gender, Identity, and Gender Expression»Il documento, quando passa alle possibile cause del transgenderismo, attesta quanto segue: «Non c’è un’unica spiegazione del motivo per cui alcune persone sono transgender. La diversità delle espressioni e delle esperienze transgender contrasta con qualunque spiegazione semplicistica e unitaria. Molti esperti credono che fattori biologici come le influenze genetiche e i livelli degli ormoni prenatali, le prime esperienze, e le successive esperienze nell’adolescenza o nell’età adulta possano tutti contribuire allo sviluppo di identità transgender». Come si vede l’APA non parla affatto di una origine innata, bensì di una interazione più complessa di diversi fattori (ambientali, cognitivi e biologici). Quindi allo stato attuale delle conoscenze non si può affermare che “trans si nasce”.
Stupisce riscontrare un atteggiamento così anti-scientifico in un libro che si prefigge, non senza una nota di pedanteria, di apportare il lume della ragione in un mondo dove proliferano l’oscurantismo (cattolico, il va de soi) e la barbarie argomentativa (degli anti-gender, che poi sono sempre i soliti oscurantisti cattolici). Come vedremo più avanti, questa mistura di fatalismo e di atteggiamento anti-scientifico ha una sua spiegazione.
Prima però conviene rivolgere l’attenzione al capitolo intitolato «In principio era il gender», che contiene una serie di considerazioni sui limiti della tolleranza e della libertà d’espressione. Speculazioni che lasciano una certa inquietudine, in considerazione della loro provenienza dalla stessa parte politica che ha appoggiato una proposta di legge liberticida come il ddl Scalfarotto. La filosofa si chiede perché mai una legge contro l’omofobia e la transfobia dovrebbe restringere la libertà d’opinione e d’espressione. In fondo lo scopo è solo estendere la legge Mancino di modo che punisca anche le discriminazioni e gli incitamenti alla violenza o all’odio contro omosessuali e transessuali. «Nessuno sarebbe punito nel momento in cui esprime liberamente le proprie opinioni», chiosa rassicurante, «ma solo quando, confondendo l’opinione con l’insulto, considererebbe legittimo trattare omosessuali e trans come “perversi”, “anormali”, “contro natura” ecc.».
Peccato che da qualche tempo sia invalsa la poco rassicurante abitudine di usare l’epiteto di “omofobi” per designare tutti coloro che esprimono liberamente - magari nelle piazze, come fanno le Sentinelle in Piedi - la loro opinione contraria al ddl Scalfarotto e al Cirinnà. È una tipica tattica per demonizzare il dissenso politico: evocare un concetto vago come quello di “omofobia” e usarlo come clava verbale per criminalizzare gli oppositori della propria agenda politica. Inutile ricordare poi come una delle critiche mosse al ddl Scalfarotto facesse leva proprio sulla vaghezza della definizione di “omofobia”, che di fatto viene demandata all’interpretazione giudiziale col forte rischio di esporsi a una giurisprudenza “creativa”. Per un giudice, perché no?, potrebbe essere “discriminatorio” anche solo affermare in pubblico che la famiglia nucleare (quella composta dall’unione stabile di un uomo e di una donna e dall’eventuale prole) non soltanto è una, sola e universale, ma che sia anche quella più conveniente alla natura dell’uomo in quanto uomo.
E a rassicurare gli animi non giova certo il discorso di Michela Marzano, che prosegue interrogandosi sui limiti della libertà d’espressione. Una delle caratteristiche del linguaggio, scrive, è la performatività: parlare non è solo esprimere un’idea, è anche dare avvio a un’azione che ha dei riflessi psicologici sull’interlocutore. La parola che uccide dell’hate speech(“discorso dell’odio”) può ferire intimamente l’altro. E allora, si domanda la filosofa-parlamentare, non è assurdo, in casi come questi, richiamarsi alla libertà d’espressione?
Verrebbe da chiedersi perché questo non possa valere anche per le Sentinelle in piedi, letteralmente tempestate da gragnuole di insulti durante le loro veglie e sui social network (per non parlare delle aggressioni fisiche). Ma evidentemente, in casi come questi, vale di più il motto orwelliano: “alcuni sono più uguali degli altri”.
Proseguendo nella lettura si arriva finalmente a capire che la libertà d’espressione per Michela Marzano ha un solo limite: l’intolleranza. «Tolleranza e intolleranza (...) si elidono reciprocamente». La tolleranza non può tollerare l’intolleranza, cioè il suo contraddittorio, la non-tolleranza, perché così facendo si voterebbe alla distruzione.
Il problema sorge nel momento in cui per la Marzano anche parlare a qualsiasi titolo di “natura” a riguardo dell’omosessualità può essere oltraggioso, dunque intollerante, dunque sanzionabile. E se qualcuno avesse dei dubbi residui sull’identità di questi “intolleranti” difensori dell’omofobia non deve fare altro che prendere visione dell’intervista rilasciata dalla filosofa al blog “La ventisettesima ora”. «Cosa c’è davvero dietro alle polemiche contro l’ideologia gender, allora?», le chiede la giornalista. La risposta è chiara: «Il rifiuto dell’omosessualità. L’omosessualità per queste persone resta comunque il grande tabù, la grande paura, la grande devianza». In altre parole, il vero motore del movimento anti-gender è l’omofobia.
Viene alla mente il commento ironico di Edmund Burke: «Non vorrei, per eccesso di tolleranza, ritrovarmi ad essere il più intollerante degli uomini». Giova ricordare che l’apologia dell’intolleranza in nome della tolleranza è un classico del giacobinismo e di ogni “partito di puri”. Non serve che richiamare il «dispotismo della libertà» invocato da Marat o l’aforisma del sanguinario giustizialista Saint-Just – conosciuto anche come l’«Arcangelo del Terrore» – che più di ogni altro simboleggia il terrore di marca giacobina: «pas de liberté pour les ennemis de la liberté» («nessuna libertà per i nemici della libertà»).
In questo caso come in altri l’influenza francese si fa sentire. «Il riconoscimento delle omosessualità deve necessariamente essere accompagnata dalla penalizzazione del discorso omofobo. Ora, la repressione non è efficace se non è accompagnata da misure pedagogiche che permettano di rovesciare l’attuale situazione di banalizzazione dell’omofobia o addirittura del suo incoraggiamento». È su questo edificante programma che si apre un opuscolo della rivista ProChoix consacrato all’omofobia («L’homophobie. Comment la définir, comment la combattre?»). Tra gli autori e i curatori spiccano il giurista Daniel Borrillo e il filosofo Didier Eribon, estensori e firmatari del Manifesto per l’eguaglianza dei diritti del 2004 che chiedeva l’introduzione del matrimonio omosessuale in Francia. Ci sono anche Pierre Lascoumes del CNRS e il sociologo Eric Fassin, attivi sostenitori del medesimo progetto.
Nonostante l’indole giacobina e la sua aspra critica alla Chiesa-istituzione, Michela Marzano non perde però occasione di esternare la propria cattolicità. A un certo punto nel libro confessa che Dio è il suo «orizzonte di speranza». Ma di che Dio si tratta? La filosofa dice che bisogna scegliere tra la «carità» e la «logica aristotelica» (che rappresentano la prima l’«inclusione», la seconda l’«esclusione»). Poco alla volta, il Dio di Michela Marzano comincia a svelarsi: è un Dio depauperato del Logos, che viene così assimilato al sacro precristiano, un sacro irrazionale che si manifesta in maniera radicalmente incomprensibile.
Contrapponendo Gerusalemme e Atene, in lei si palesa una fautrice della deellenizzazione del cristianesimo. Ma Benedetto XVI nella sua celebre lezione di Ratisbona aveva messo in guardia contro un simile dualismo: un Dio a-logico, un Dio senza logos è contrario alla natura del Dio cristiano. Il Dio-Logos è sempre lo stesso Dio-Agape: «il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore».
Dal rifiuto del Dio-Logos discende la dottrina del volontarismo o arbitrarismo divino. Secondo questa dottrina la volontà (dunque la carità) ha il primato sull’essere (dunque sul logos). Per Guglielmo di Ockham (1285-1347), forse il più noto volontarista del Medioevo, il valore delle cose in genere, e delle azioni umane in particolare, non dipende dalla loro “natura”. Non dipende da come esse sono, ma unicamente dall’arbitrio di Dio, il quale stabilisce che cosa vada considerato vero, giusto, buono, bello, ecc., e che cosa no. Sarebbe limitare la divina libertà credere che Dio debba riconoscere il valore intrinseco di una cosa. E perciò anche il premio o i castighi eterni non sono assegnati da Dio in considerazione della bontà intrinseca delle azioni, bensì secondo una regola da lui stesso stabilita, che l’uomo può conoscere solo per il tramite della rivelazione. Dio avrebbe potuto benissimo decidere di premiare le azioni che, secondo il decalogo, punisce, e viceversa. In tal caso i comandamenti sarebbero stati diversi. Tutte le leggi morali, secondo il volontarismo, sono sottomesse alla pura e semplice volontà divina: l’odio di Dio, l’omicidio, il furto, l’adulterio, sono cattivi solo in ragione del precetto divino che li proibisce. Ma sarebbero stati atti meritori se la legge di Dio li avesse comandati.
Non ci sono peccati da punire né meriti da ricompensare (come sostiene Michela Marzano, seppure in termini più “secolari”: non c’è nulla di cui vergognarsi ma neanche qualcosa di cui andare fieri). Se lo vuole, Dio può benissimo dannare gli innocenti e salvare i colpevoli: tutto questo dipende soltanto dalla sua volontà. Questa posizione sarà ripresa in epoca moderna da Cartesio, che giunge a dire che se Dio avesse voluto avrebbe potuto rendere meritorio perfino l’odio nei suoi confronti.
Per san Tommaso d’Aquino esiste al contrario un legame inscindibile tra l’essere e il bene. E questa posizione è quella accolta da Benedetto XVI, che sempre a Ratisbona rigetta l’«impostazione volontaristica» e l’immagine di «un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene».
Rifiutando come fa la Marzano il logos e ogni idea di natura umana, intesa come progetto dinamico e finalistico che presiede alla realizzazione della persona, l’unico significato che può assumere il termine “natura” è quello di “ciò che esiste”. A questa conclusione giunsero i commentatori islamici di Aristotele che per non conferire alla natura umana una qualche autonomia nei confronti dell’onnipotenza di Allah finirono per negare ogni causalità ed ogni capacità di agire agli enti creati: le cose accadono solo perché Dio ha voluto così (“Inshallah”). Allah, come il Dio-Arbitrio di Ockham, “ha fatto il fuoco caldo ma poteva farlo freddo”.
Questo atteggiamento filosofico ha almeno due pratiche conseguenze: il fatalismo (“se le cose vanno così, vuol dire che è giusto che vadano così”) e la negazione della scienza, vale a dire del tentativo di scoprire le leggi dell’universo, perché l’unica legge ammissibile è la volontà divina, che in un orizzonte secolarizzato come quello delle ideologie viene sostituita dalla volontà umana divinizzata. La volontà umana assume così l’essenza che il filosofo russo Vladimir Solov’ëv aveva identificato come la natura propria del Dio-Arbitrio della teologia islamica: una libertà infinita senza alcuna forma.
Queste conseguenze, risultanti dal rifiuto volontaristico del concetto di natura-progetto, ricorrono anche nel discorso di Michela Marzano: fatalismo e atteggiamento anti-scientifico. Due momenti che però, unendosi alla divinizzazione dell’arbitrio umano, assumono le vesti di una contraddizione irrisolta e insolubile nel suo pensiero, oscillante tra fatalismo e volontarismo prometeico.
Di marca volontaristica è anche il pensiero di Cartesio, che arriva a concepire un «homo duplex» nel quale «soma» (corpo, ridotto alla sua dimensione biologica) e «pneuma» (spirito, ridotto alla sua dimensione razionale-cognitiva) sono sostanze non soltanto distinte ma separate, del tutto eterogenee l’una dall’altra. Ciò pose un grave problema ai successori di Cartesio: come spiegare e giustificare il rapporto tra questi due mondi?
Una possibile soluzione al dilemma fu quella avanzata dagli occasionalisti, che cercarono di risolvere il dualismo tenendo ferma, anzi accentuando la distinzione cartesiana delle sostanze. Secondo l’occasionalismo soltanto Dio è la causa di tutte le cose e che le cause seconde o finite sono soltanto occasioni di cui Dio si avvale per realizzare la propria volontà. La dottrina dell’occasionalismo negava così all’uomo qualsiasi autonomia attribuendola a Dio.
L’occasionalismo si manifesta in maniera evidente quando la Marzano afferma che «in realtà non esiste alcun legame tra orientamento sessuale e sesso. E il fatto che si continui a credere che esista è la conseguenza della rigida codificazione dei ruoli di genere». O ancora quando scrive che «l’amore non ha né sesso né genere e che non si dovrebbe quindi gerarchizzarlo in base all’orientamento sessuale».
Marzano vede il corpo sessuato come semplice occasione di manifestazione dell’«amore», che appare più una specie di ibrido tra la Trinità cristiana e la Volontà Generale di Rousseau. Il corpo c’è, è un dato reale, dice la filosofa. Ma non si capisce come comunichino soma e psiche. Il corpo c’è, esiste, ma può assumere orientamenti sessuali e identità di genere variabili. E una tale variabilità dipende da fattori indeterminati: forse da fattori ambientali, culturali, da convenzioni sociali; o forse da fattori innati. Ma questo per Michela Marzano non sembra avere una importanza decisiva: per lei semplicemente “capita”, “accade” di ritrovarsi con una tendenza omosessuale o eterosessuale. Ed è indifferente avere l’una come l’altra tendenza. Non c’è nulla di cui vergognarsi ma neanche qualcosa di cui essere fieri. Di nuovo, siamo nel pieno dell’alternanza tra volontarismo e fatalismo.
Secondo l’antropologia cristiana, per contro, l’uomo è un’anima vivente, uno spirito incarnato («la carne è una fioritura dello spirito», scrive Jean Bastaire). E il corpo non è un accidente e nemmeno una sostanza separata dall’anima. L’uomo è creato corporeo, per natura, e il corpo è sessuato. Anima e corpo, seppure distinti, costituiscono una unità. Siamo agli antipodi di ogni ostilità contro il corporeo e il biologico (sarà la gnosi, in particolare quella catara, a considerare il corpo come una prigione dell’anima).
La Relatio finalis del Sinodo sulla famiglia, nell’affrontare il tema del gender, compendia in maniera mirabile la visione cristiana: «Secondo il principio cristiano, anima e corpo, come anche sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare» (n. 84).
All’opposto, il pensiero di Michela Marzano appare come una tipica espressione del dualismo post-cartesiano, nel quale il corporeo diventa una sorta di funzione in grado di assumere una serie di valori come nelle funzioni astratte della matematica. Ma cosa distingue il corpo così funzionalizzato da un mero contenitore se non c’è alcuna norma, se non c’è alcuna natura umana? Non siamo lontani da quanto teorizza Mario Perniola nel suo «Il sex appeal dell’inorganico», dove annuncia una sessualità «neutra» in cui il corpo è «veste, cosa» e l’essere umano diventa un «vestito senziente». Anche la parentela allora può diventare una funzione astratta (“genitorialità”) senza più alcun nesso con la biologia.
L’occasionalismo trionferà non a caso nell’epoca romantica, segnata dall’incapacità di stabilire un nesso efficace tra la realtà oggettiva e le proprie fantasie interiori. Senza logos, senza un ordine razionale della realtà il pensiero finisce per diventare suggestione sentimentale e mero emotivismo. E difatti in «Papà, mamma e gender» pullulano gli appelli al sentimento e alla commozione, si incorre spesso e volentieri in pensieri zuccherosi che fanno leva sulla stucchevole retorica del “caso pietoso”. Ogni vissuto, soprattutto se sofferto, è indubbiamente da rispettare e da accogliere senza giudizi, ma non può costituire la base di un discorso oggettivo-razionale, e tanto meno di un ordine giuridico-legislativo.
Occasionalista è stato anche il “decisionismo” di Carl Schmitt, per il quale parametro della vita politica è lo «stato d’eccezione». È l’eccezione l’unità di misura della realtà, non il caso normale, la media, la forma più tipica e regolare. Sovrana è dunque la decisione dei detentori del potere politico, una decisione arbitraria e puramente volontaristica che de-cide (cioè “taglia via”, secondo l’etimo). Non esiste un ordine delle cose in base al quale l’autorità decide per il bene o per il male: “auctoritas, non veritas facit legem”. L’origine di ciò che è “normale”, cioè della norma, è nell’eccezione.
La norma, cioè l’eccezione per Schmitt, proviene da una decisione – di per sé non ragionevole – di un’autorità sovrana concreta e personale. La decisione autoritaria non ha nulla del calcolo razionale: è un atto creativo che fa sorgere l’ordine dal nulla. Il mondo è caos, è irrazionalità intrinseca. La politica è una specie di confronto titanico con questo nichilismo essenziale. Schmitt lo ripete più volte: «sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione» e «la decisione è nata da un nulla». L’ordine sociale e politico, in assenza di ogni ordine dell’essere, nasce dunque da una decisione irrazionale. L’ordine è creato in maniera del tutto arbitraria dal disordine.
Non è molto diverso anche il pensiero di Michela Marzano: non esiste alcun ordine naturale (che non è sinonimo di naturalistico o biologistico), tanto meno nel campo della sessualità umana. Tutto è caos, anche in interiore homine: dentro di noi c’è un vuoto che talora si spalanca, una mancanza che può alimentare una sfrenata sete di assoluto, tale da «spingere a volere “tutto” e a possedere “tutto”». «C’è “qualcosa di assente” che ci perseguita», scrive citando Camille Claudel. Sovrana è solo la decisione irrazionale di chi ha il potere di farlo.
Michela Marzano si professa cattolica, ma il suo cattolicesimo non sembra andare al di là di un afflato poetico. C’è scissione tra la vita del pensiero e la vita emotiva. Il suo pensiero è venato di un nichilismo inconciliabile coi princìpi fondamentali della filosofia cristiana e con l’insegnamento della Chiesa. Che differenza abissale rispetto a Simone Weil, che non avendo accettato una simile scissione tra il suo pensiero e quello della Chiesa si fermò sulle soglie del battesimo pur aderendo col cuore a Cristo. Ma a Simone Weil non bastavano le ragioni del cuore. Rifiutò una conversione per la quale non si sentiva interiormente pronta perché le “raisons de sa raison” non coincidevano con le ragioni della fede cattolica. Di fronte all’onestà cristallina di Simone Weil (che comunque in punto di morte volle ricevere il battesimo) ci inchiniamo con devota commozione, come sempre si deve fare davanti al mistero sacro e insondabile della coscienza. Non possiamo fare altrettanto di fronte alle torbide ragioni di Michela Marzano, che ostenta una cattolicità del cuore che ignora però le ragioni della sua fede.
Su un punto concordiamo con lei: la fragilità delle persone deve essere sempre protetta, la sofferenza del corpo che svela la precarietà dell’esistenza necessita di cura e riparo, perché chinarsi con pietà sulla vulnerabilità è riconoscere l’umanità del nostro prossimo. Nessuno sofferenza umana pertanto va irrisa e dileggiata. Ma appellarsi alla fragilità non può diventare il pretesto per santificare l’arbitrio più o meno dolente, né la lotta alla discriminazione e alla violenza può costituire la base per creare altre ingiustizie, altre violenze, altre discriminazioni.
Istanze legittime ma risposte sbagliate. Questa ci sembra una buona sintesi del suo argomentare. Come quando nel contestare il cardinale Parolin, che aveva evocato lo spettro di una «sconfitta dell’umanità» al tempo del referendum irlandese sul matrimonio gay, la vediamo scrivere: «L’umanità la si sconfigge quando la si nega, quando si immagina di poter trattare un essere umano come una semplice cosa».
E su questo principio, sul rigetto della cosificazione dell’uomo siamo perfettamente d’accordo. Molto meno concordiamo sulle conseguenze pratiche. La filosofa-parlamentare infatti va oltre e scrive ancora: «Come si fa anche solo ad evocare la “sconfitta dell’umanità” quando in nome dell’uguaglianza di tutte e di tutti indipendentemente dalle differenze specifiche di ognuno, si prende sul serio la domanda di riconoscimento che ci viene rivolta ormai da troppo tempo da parte delle persone omosessuali? Comprenda chi può. E lo si spieghi poi anche a chi, nel Vangelo, legge solo messaggi d’amore». Ancora una volta si manifesta la cifra di un pensiero che contrappone amore e ordine, come se la caritascristiana negasse ogni cosmos.
Marzano, che non parla mai del diritto dei bambini ad avere un papà e una mamma, non sembra rendersi conto che riconoscere unioni basate sull’orientamento sessuale e non più sulla differenza sessuale equivale non solo a discriminare già in partenza i bambini privandoli di un padre o di una madre, ma vuol dire anche trasformare la procreazione inproduzione: gli esseri umani non saranno più generati secondo la carne, saranno prodotti secondo la ragione strumentale. Saranno progettati. Come cose, appunto. Non si accorge che questa dinamica “produttiva” è all’opera in pratiche come quelle dell’utero in affitto, che cosificano tanto la madre gestante, ridotta a mero contenitore biologico, quanto il bambino, che diventa una specie di individuo-patchwork, assemblato come in una catena di montaggio?
31/10/2015 La Croce quotidiano