sabato 26 settembre 2015

La metafisica aristotelico-tomista

CERCANDO L'ANIMA

 (Prima parte) Il principio di non contraddizione

di Maurizio Moscone*


Aristotele e San Tommaso d’Aquino intendono la metafisica nello stesso modo: essa è “la scienza dell’ente in quanto ente e di tutto ciò che le appartiene”.
Ente significa “ciò che è”, quindi ogni cosa è ente: un uomo, un animale, un sasso ecc.
Appartiene all’ente una legge fondamentale, che è il principio assoluto della sua intellegibilità: il principio di non contraddizione.
Il primo a formularlo è stato Parmenide, considerato il padre della metafisica, avendo inaugurato, nella storia della filosofia, la riflessione sull’essere in quanto tale.
Il filosofo, con una prosa poetica, narra che una dea gli rivela la “Verità armoniosa” e formula con queste lapidarie parole il principio di non contraddizione: “l’essere è, come non è il non essere”.
Parmenide da questo principio deduce tutti gli attributi dell’essere, infatti se l’essere esclude assolutamente il non-essere, allora esso è uno perché il molteplice implica il non-essere (es.: la penna non-è il libro), quindi in esso non sono presenti distinzioni: “né pure è distinto perché tutto quanto esso è uguale”. Inoltre, l’essere è immutabile perché il divenire comporta il non-essere (es.: un uomo che nasce e poi muore, prima non-era, poi è e doponon-è più).
L’essere, essendo immutabile, “immobile stretto in ineluttabili ceppi”, è sempre identico a se stesso, quindi eterno, “senza principio né fine”.
L’essere parmenideo presenta caratteri evidentemente divini: è uno, immutabile e eterno.
Nicoletti scrive giustamente in proposito:
“Per Parmenide, l’essere in quanto essere esclude ogni negatività sia assoluta che relativa; ne consegue una determinazione della verità dell’essere in modo essenzialmente teologico, se è vero che, per una larga e autorevole tradizione, Dio è pensato come l’essere necessario, immutabile, eterno.
Questa interpretazione ontologica dello sfondo si riversa sulle cose che appaiono e non consente di salvare i fenomeni, sui quali viene a cadere l’ipoteca dell’illusorietà e della parvenza”.
L’affermazione di Parmenide secondo cui “né in vero può dirsi o pensarsi che quanto non è sia”, analizzata criticamente, riguarda il concetto di non-essere assoluto o nulla, ma non quello di non-essere relativo.
Il nulla è nulla nell’ambito della realtà, del pensiero, del linguaggio.
Ogni realtà è qualcosa che è, quindi è un non-nulla.
Ogni pensiero è qualcosa di pensato; anche il concetto di nulla (non essere assoluto) è qualcosa.
Ogni parola è qualcosa di detto; anche la parola nulla è qualcosa.
Il concetto di nulla è un “ente di ragione” e non deve essere confuso con quello di non-essere relativo, che riguarda la negatività che è presente nella realtà del mondo, che è intrinsecamente molteplice e diveniente.
Tutta la filosofia greca successiva a Parmenide ha dovuto confrontarsi con la sua sentenza “l’essere è, il non-essere non è”, perché i fenomeni del mondo manifestano essere e non-essere ed è necessario “salvare i fenomeni” dall’illusorietà, come sosteneva Aristotele.
La soluzione dell’apparente contraddittorietà del molteplice e del divenire è fornita dalla speculazione di Platone e Aristotele.
Platone nel dialogo Sofista esprime il suo pensiero tramite un personaggio, chiamato Straniero di Elea, discepolo critico di Parmenide e figura chiave dell’intero dialogo.
Afferma lo Straniero:
“Risulta […] di necessità che ci sia un essere del non essere così per il moto, come per tutti i generi; giacché per tutti la natura del diverso , rendendo ciascuno d’essi diverso dall’essere, lo fa non essere. Così tutte insieme le cose sotto questo rispetto le diremo correttamente non essere; e viceversa poi, perché partecipano dell’essere, le diremo essere e enti”.
Ogni ente è diverso da ogni altro ente, cioè non è un altro ente. Non c’è alcun contraddizione nell’affermare che un fiore non è un limone, perché significa affermare la diversità tra l’uno e l’altro.
Il fiore non è il limone e il limone non è il fiore. Il non essere limone e il non essere fiore equivale non al nulla, ma all’essere diverso. E’ la stessa cosa dire: il fiore è diverso dal limone o il fiore non è il limone.
Platone, pur riconoscendo a Parmenide il ruolo di padre della metafisica, si rende conto di aver commesso un “parricidio” filosofico, avendo messo in discussione la sua formulazione del principio di non contraddizione.
Nel Sofista Platone si identifica con lo Straniero che dialoga con un altro personaggio, Teeteto:
“Straniero. Che tu non creda che io divenga quasi un parricida.
Teeteto. E perché?
Straniero. «Perché» per difenderci sarà necessario sottoporre ad esame la sentenza di Parmenide, nostro padre, e costringere il non essere ad essere in qualche modo, e viceversa l’essere, a sua volta, a non essere sotto un certo riguardo”.
Platone ha “salvato” la molteplicità dei fenomeni, ma non il loro divenire. Questo salvataggio è opera del suo discepolo, Aristotele.
Apparentemente nel divenire gli enti oscillano tra l’essere e il nulla, vengono dal nulla e vi ritornano.
Aristotele, come Platone, e in continuità con Parmenide, sostiene che il nulla non èsimpliciter, e quindi è necessario spiegare come il divenire sia possibile.
Nel divenire si assiste sempre al passaggio da un ente a un altro ente (es.: un essere umano che muore e diventa cadavere) o da un modo di essere ad un altro modo di essere (es.: l’acqua fredda che a contatto con il fuoco diventa calda), e mai si constata il nulla.
Ogni cambiamento presuppone sempre qualcosa che cambi (es.: un bambino che cresce), non esiste il divenire puro senza qualcosa che diviene, ma il problema è: come è possibile questo cambiamento?
Aristotele risolve speculativamente questo problema, affermando la realtà di un modo di essere denominato “potenza”.
Esistono quindi enti in atto, cioè attualmente presenti, e enti in potenza, che, in quanto tali, sono poter essere.
Ente in potenza non equivale quindi a nulla, ma neanche all’ente in senso pieno, che è l’ente in atto. E’ un quid intermedio tra i due.
In se stesso l’ente in potenza è inconcepibile perché è una pura possibilità o capacità di essere e quando penso sempre qualcosa in atto.
Gli enti divengono perché non sono totalmente in atto altrimenti non potrebbero divenire, si deve allora affermare che negli enti del mondo è presente un modo di essere in potenza e un modo di essere in atto. Il divenire è spiegabile come il passaggio degli enti dal modo di essere in potenza al modo di essere in atto (es.: il legno in potenza cenere, che, a contatto del fuoco, diventa cenere in atto).Vedremo in seguito quali sono le cause di questo passaggio.
Aristotele affermava che la potenza è “principio di mutamento” e criticava i Megarici perché sostenevano, ispirandosi al pensiero di Parmenide, che l’ente è sempre in atto e quindi non esiste l’essere in potenza.
Scrive infatti:
“Ci sono alcuni pensatori, come ad esempio i Megarici, i quali sostengono che c’è la potenza solamente quando c’è l’atto, e che quando non c’è l’atto non c’è neppure la potenza. Per esempio colui che non sta costruendo – secondo costoro – non ha la potenza di costruire, ma solo colui che costruisce e nel momento in cui costruisce; e cosi dicasi per tutti gli altri casi. Le assurdità che derivano da queste asserzioni sono facilmente comprensibili. Infatti, è chiaro che uno non potrebbe essere costruttore se non nell’atto di costruire, mentre, in realtà, l’essere costruttore consiste nell’aver la capacità di costruire”.

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La metafisica aristotelico-tomista (Seconda parte)

Il principio di non contraddizione secondo Severino

Emanuele Severino condivide la tesi dei Megarici, discepoli di Parmenide, secondo cui esistono soltanto enti in atto. Infatti il filosofo accetta totalmente la formulazione parmenidea del principio di non contraddizione: “l’essere è e il non essere non è”; tertium non datur. Una cosa o è o non è, e quindi non può essere o non essere; l’ente in potenza non esiste.
L’essere è sempre in atto, è atto puro, quindi non diviene: è immutabile ed eterno, come affermava Parmenide, ed è “limitato” soltanto dal nulla, che, in quanto tale, non è assolutamente.
Severino ha avuto il grande merito di avere affermato la necessità di fondare metafisicamente il discorso filosofico, tornando alle origini della metafisica, cioè al pensiero di Parmenide, del quale però non condivide che l’essere, oltre ad essere immutabile ed eterno, sia uno, implicando il molteplice il non-essere (es.: il libro non è la penna).
Il filosofo concorda con Platone nel sostenere che il non-essere presente nel molteplice equivale al concetto di “diverso”: ogni ente è diverso dall’altro, cioè non è un altro ente. Tutto ciò non implica contraddizione perché significa affermare non l’esistenza del nulla, ma semplicemente la diversità che si riscontra tra gli enti del mondo.
Il problema è costituito non dal molteplice, ma dal divenire e, specificamente, dal modo in cui è stato interpretato dalla filosofia occidentale, la quale, secondo Severino, intende il divenire “come passaggio dal non-essere all’essere e dall’essere al non-essere, da parte delle cose o di certi aspetti”.
Secondo Severino è stata la filosofia greca che ha affermato, nella storia dell’umanità, l’esistenza del nulla, per cui gli enti, divenendo, provengono dal nulla e vi ritornano.
Il filosofo scrive in proposito:
“Il pensiero greco ha inteso il divenire come l’ondeggiare delle cose tra l’essere e il nulla, il loro non essere definitivamente legate né all’essere né al nulla, il loro sporgere sull’essere, provenendo dal nulla e il loro dissolversi nuovamente nel nulla”.
La filosofia greca avrebbe inaugurato una visione inedita del divenire nella storia della civiltà occidentale, in base alla quale la nascita e la morte sono interpretate come uscire dal nulla e ritornarvi.
Scrive Severino:
“La filosofia greca attribuisce alla nascita e alla morte un senso radicalmente nuovo, inaudito, appunto, perché per la prima volta il pensiero dell’uomo si rivolge alla contrapposizione infinita tra l’essere e il niente - cioè alla negatività infinita del niente – e per la prima volta la nascita appare come lo sporgere dal niente sull’essere e la morte come il cadere dall’essere nel niente. Nascita e morte, poi, non coinvolgono soltanto la vita nel suo insieme, ma anche ogni istante della vita. Ogni istante nasce e muore, emerge dal niente e vi ritorna”.
L’intera civiltà occidentale interpreta il divenire come l’emergere delle cose dal niente e ritornarvi, “anche quando essa crede di non avere più nulla a che fare con la filosofia […] greca”.
La morte, di conseguenza, è considerata un evento tragico, poiché viene intesa come il dissolvimento totale dell’essere umano e il dolore provoca angoscia non soltanto perché è dolore, “ma anche e soprattutto perché esso è il battistrada della morte. Il volto e la natura del dolore sono dunque determinati anche, e fondamentalmente, da ciò che l’uomo pensa della morte. Dal modo in cui si configura questo pensiero è quindi determinata anche l’angoscia per il dolore”.
Il divenire, inteso come l’uscire dal niente e ritornarvi, è “la forma estrema del terrore e del dolore”. Il divenire è imprevedibile e l’imprevedibilità genera “terrore”, al quale la filosofia cerca di porre un “rimedio”, collocando gli eventi del mondo “prima ancora che essi abbiano ad accadere, all’interno della loro Origine e della loro causa, rendendoli così, appunto, prevedibili”.
La conoscenza filosofica del Fondamento e dell’Origine di tutte le cose che dava senso all’imprevedibilità del divenire entra in crisi con la filosofia contemporanea, affermatasi dopo l’idealismo hegeliano, perché la filosofia cessa di essere metafisica e viene quindi “distrutta l’epistéme”, cioè la forma di conoscenza di carattere assoluto e incontrovertibile che l’aveva connotata fino dal suo sorgere.
Il termine greco epistéme è tradotto con la parola “scienza”, trascurando, scrive il filosofo, “che essa significa, alla lettera, lo «stare» (stéme) che si impone «su» (epi’) tutto ciò che pretende negare ciò che sta: lo «stare» che è proprio del sapere innegabile e indubitabile e che per questa sua innegabilità e indubitabilità si impone «su» ogni avversario che pretenda negarlo o metterlo in dubbio”.
L’epistéme filosofica è stata un “rimedio” al pensiero della morte perché essa, “conoscendo le «cause» del divenire, […] rende prevedibile l’imprevedibile, lo inserisce nella spiegazione stabile del senso del mondo, e quindi appronta il rimedio contro il terrore della vita”.
L’essere umano ha cercato di liberarsi da questo terrore anche tramite il Cristianesimo, il quale condivide l’interpretazione del divenire, come oscillazione tra l’essere e il nulla, presente in tutta la civiltà occidentale.
Scrive in proposito:
“Anche il cristianesimo si presenta come il rimedio contro l’infelicità e il dolore (rimedio ultramondano). E anzi, il cristianesimo ha un rapporto con le masse che la filosofia non possiede. D’altra parte, anche il cristianesimo - come l’intera civiltà occidentale - cresce all’interno della dimensione che la filosofia greca ha aperto una volta per tutte e che qui deve essere ancora una volta richiamata”.
Nell’epoca attuale caratterizzata dalla scienza e dalla tecnica sono queste ultime il rimedio nel quale trovare la salvezza.
Scrive infatti:
“L’uomo contemporaneo è l’uomo che appartiene al tempo della scienza e della tecnica. La tecnica, in quanto guidata dalla scienza moderna, è per l’uomo contemporaneo il rimedio del dolore. E’ il tipo di mezzi al quale egli si affida per ottenere la salvezza”.
La scienza e la tecnica possono esercitare un vero e proprio dominio sul mondo perché esso diviene, cioè non è stabile, ma è modificabile dall’intervento dell’uomo.
Scrive in proposito:
“Il mondo è dominabile perché è un divenire. E il pensiero greco ha inteso il divenire come l’ondeggiare delle cose tra l’essere e il nulla, il loro non essere definitivamente legate né all’essere né al nulla, il loro sporgere sull’essere, provenendo dal nulla e il loro dissolversi nuovamente nel nulla. Soltanto perché le cose, forme, aspetti, situazioni del mondo sono nel divenire, sciolte da ogni legame definitivo, ci si può proporre di impadronirsi di essi, controllarli, modificarli, produrli, distruggerli - cioè dominarli”.
Il “paradiso” offerto all’umanità odierna dalla scienza e dalla tecnica è soltanto apparente, perché “le forze produttive e distruttive fanno passare le cose dal niente all’essere e dall’essere al niente. Questo passaggio sta ormai davanti agli occhi delle masse”.
La scienza e la tecnica, come il Cristianesimo e la filosofia occidentale, non possono affrancare l’umanità dal “nichilismo” che è intrinseco all’interpretazione del divenire inaugurata dal pensiero greco, perché se il divenire presuppone il nulla allora l’intera esistenza umana è connotata dal terrore della morte, perché essa consisterebbe nell’annientamento totale dell’essere umano.
Questo annientamento secondo Severino non esiste perché “l’essere è e il non essere non è”, quindi il nulla non è simpliciter, soltanto l’essere è, quindi ogni ente è eterno, e “il divenire è il comparire e lo scomparire dell’eterno, ossia di ciò che è impossibile che non sia”.
Il divenire è il comparire e lo scomparire degli enti, i quali eternamente sono, quindi  non possono uscire dal nulla e ritornarvi perché il nulla è nulla.
La filosofia futura rivelerà “la dimensione del destino. In questa dimensione appare che, poiché è impossibile (autocontraddittorio) che l’essente in quanto tale, e quindi ogni essente, non sia (cioè sia niente, nihil absolutum […]) -  poiché è necessario che l’essente in quanto tale sia eterno -, è allora necessario che il divenire dell’essente (cioè la variazione del mondo che pure appare) non sia il suo uscire dal niente (cioè dal suo essere stato niente) e il suo ritornarvi (il ritornare ad essere niente), ma sia l’entrare e l’uscire delle eterne costellazioni dell’essere dall’orizzonte trascendentale dell’apparire”.
La morte non esiste perché ogni ente è eterno: ogni uomo, ogni animale, ogni albero e anche ogni computer, ogni penna, ogni sputo; perché ogni uomo è, ogni animale è, ogni albero è e anche ogni computer è, ogni penna è, ogni sputo è.

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La metafisica aristotelico-tomista (Terza parte)

Il principio di non contraddizione secondo Severino e San Tommaso d’Aquino

Secondo Severino ogni ente è immutabile ed eterno, allora come è possibile interpretare il divenire, il quale attesta una successione continua di enti che appaiono nel tempo?
Nel mondo della natura assistiamo alla generazione di enti che prima non apparivano poiappaiono e dopo, con la loro corruzione, non appaiono più; ad esempio alla generazione e alla successiva corruzione del corpo di un cane o di un gatto.
Secondo il filosofo il divenire, come è stato detto prima[1], è “è il comparire e lo scomparire dell’eterno, ossia di ciò che è impossibile che non sia”[2].
Si deve quindi affermare che il tempo è un’illusione, per cui nel divenire, che è innegabile, compaiono e scompaiono gli enti, la cui durata è simultanea e non successiva.
Il divenire sarebbe così costituito da una molteplicità di istanti, per cui un istante non è un altro istante, cioè è diverso dall’altro.
Il divenire non è quindi il passaggio, contraddittorio, tra l’essere il nulla, perché il non-essere presente nel molteplice, come aveva insegnato Platone, è la diversità che si riscontra negli enti.
Come si dovrebbe allora interpretare il volo di un uccello?
Non esisterebbe un ente-uccello che prima sta su un albero e poi si sposta su un altro albero, ma esisterebbero molteplici enti-uccelli eterni che appaiono istantaneamente.
Il tempo non esiste quindi sono eterni sia gli enti che il loro apparire.
Scrive infatti Severino:
“Anche l’apparire, come ogni ente, è destinato all’essere e quindi è eterno”[3].
Oltre all’ente c’è soltanto il ni-ente, quindi l’apparire in quanto è, è ente; ma qual è il rapporto che lega la totalità degli enti al loro apparire?
Il filosofo scrive in proposito:
“La verità del Tutto, eterno, appare. Abita eternamente nel cerchio eterno dell’apparire. […] E la verità del Tutto, in quanto essa è ciò che di necessità è detto di ogni ente, è lo sfondo senza cui non può apparire alcun ente. Essa è lo spettacolo eterno, che non sorge e non tramonta. Il destino della verità sta da sempre e per sempre alla luce”[4].
Il verità del Tutto di cui parla Severino deve essere intesa come la verità della Totalità degli enti. Il Tutto non è Dio perché gli enti, in quanto immutabili e eterni, sono Dei e non necessitano dell’Essere sussistente per esistere, essendo assolutamente sussistenti.
La totalità degli enti, che costituisce il Tutto, “non appare tutto insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltra nella luce dell’apparire. Vi si inoltra, rimanendo ciò che è, inalterabile e immutabile”[5]. Si comprende, quindi, come il divenire debba essere interpretato come il comparire e lo scomparire non della totalità degli enti, ma soltanto di alcuni, perché gli enti sono eternamente, indipendentemente dal loro apparire, infatti “l’inoltrarsi [degli enti] nell’apparire non è l’inoltrarsi nell’essere”[6].
Se si accetta la metafisica di Severino, secondo cui sono eterni sia gli enti che il loro apparire, a Chi appaiono eternamente gli enti? La domanda è legittima perché l’apparire presuppone sempre qualcuno a cui qualcosa appare.
Ad esempio, l’ente-penna non si identifica con il suo apparire, poiché è sempre ente-penna sia che sia posto su un tavolo e appare a colui che la guarda, sia che sia posto in un cassetto e quindi non appaia più a un soggetto.
L’apparire eterno degli enti presuppone una Coscienza eterna, che eternamente intenziona l’apparire degli enti. Questa coscienza eterna nella tradizione filosofica occidentale si chiama Dio.
Queste conclusioni non si ritrovano nel pensiero di Severino, il quale, di fatto, ha divinizzato gli enti mutevoli e contingenti del mondo, tradendo forse l’intuizione teologica di Parmenide, il quale, formulando il principio di non contraddizione, affermava l’esistenza dell’Archè, del Principio di tutte le cose, cioè dell’Essere assoluto, che esclude da sé ogni negatività sia assoluta che relativa, “ingenerato, - scrive Parmenide - immortale, intero, […] immobile […] né mai fu né sarà, da poi che egli or è tutto un insieme uno continuo: ove mai vorresti cercargli una stirpe? d’onde mai un incremento? Da quel che non esiste, giammai consento si dica o si pensi, né in vero può dirsi o pensarsi che quanto non è sia”[7].
I filosofi che, nella filosofia greco-medioevale, hanno maggiormente studiato il principio di non contraddizione sono stati Aristotele e San Tommaso d’Aquino. Entrambi i filosofi riconoscono, come Parmenide, che esso è il principio assoluto di intellegibilità dell’essere, ma lo formulano diversamente dal filosofo eleate.
Il punto di partenza per la formulazione del principio di non contraddizione è l’analisi concreta dei fenomeni molteplici e divenienti che appaiono nel mondo. Essi, infatti, hanno inscritta una legge assoluta, che non può essere smentita da nessuno, perché chi la smentisce cade in contraddizione.
Secondo questa legge, afferma Aristotele, “è impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto”[8]. Ad esempio: un fiore non può essere non-fiore (cioè non può essere arancio, armadio, leone e, in generale, tutto ciò che non è fiore), oppure il colore giallo non può essere non-giallo.
Questo principio è riconosciuto, anche se implicitamente e non tematicamente, da tutta l’umanità di ogni tempo e di ogni luogo, indipendentemente dalla cultura di appartenenza. Esso, scrive Aristotele, è “il principio più saldo di tutti, è quello intorno al quale è impossibile trovarsi in errore […]”[9].
Il filosofo greco precisa che “la conoscenza di esso è indispensabile a chiunque voglia conoscere una cosa qualsiasi, ed è necessario che ne sia provvisto già chi viene per imparare”[10].
San Tommaso integra quanto afferma Aristotele, rilevando la dimensione di temporalità che è presente nei fenomeni del mondo, infatti, secondo la sua formulazione del principio di non contraddizione: “è impossibile per una stessa cosa essere e non esserecontemporaneamente[11].
Barzaghi, scrive giustamente che il principio di non contraddizione, secondo la filosofia di Aristotele e di San Tommaso, afferma che “una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto”[12].
Il filosofo sostiene però che “se una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo, significa dire che può essere e non essere in tempi diversi, cioè che non si dà contraddizione nell’ammettere un tempo in cui quella cosa non sia”[13].
La presunta contraddizione rilevata dall’Autore in realtà non esiste: un legno non può essere nello stesso tempo legno e non-legno (es. cenere), ma in tempi diversi il legno può incenerirsi, quindi non essere più legno e diventare cenere. Questa trasformazione (sostanziale) non significa che c’è stato un tempo in cui il legno era cenere e quindi era legno e contemporaneamente non era legno.
L’intero edificio del pensiero metafisico si fonda sul principio di non contraddizione formulato da San Tommaso. Esso è la legge di intellegibilità dell’ente in quanto ente, il cui valore è non soltanto ontologico, ma anche logico: è sufficiente, infatti, pronunciare la parola “piove” per negare assolutamente che “non piove”.
Il non riconoscimento del valore ontologico e logico di questo principio compromette la veridicità di qualsiasi discorso filosofico.
Un filosofo che nega il valore ontologico del principio di non contraddizione è Heidegger, secondo il quale esso non è la legge fondamentale del reale, ma è il principio utilizzato dalla ragione umana per dare ordine al caos che esiste nella realtà e il cui uso ha una motivazione “biologica”.
Scrive infatti:
“Il principio di non contraddizione, la regola che impone di evitare la contraddizione, è la legge fondamentale della ragione e in tale legge, quindi, si esprime l’essenza della ragione. Il principio di non contraddizione non dice tuttavia che «in verità», cioè in realtà, cose contraddittorie non possono mai essere contemporaneamente reali; dice soltanto che l’uomo, per ragioni «biologiche», è costretto a pensare così; in termini sommari, l’uomo deve evitare la contraddizione per sfuggire alla confusione e al caos, ovvero per padroneggiarli imponendo loro la forma dell’incontraddittorio, cioè dell’unitario e del sempre identico. Come determinati animali marini, per esempio le meduse, formano e allungano i loro tentacoli, così l’animale «uomo» usa la ragione e il suo apparato tentacolare, il principio di non contraddizione, per orientarsi e ritrovarsi nel proprio ambiente e per assicurare la propria esistenza”.[14]
Il principio di non contraddizione non è affatto un “apparato tentacolare”, ma è la legge insita nelle cose; esso dice, contrariamente a quanto sostenuto da Heidegger, che in verità “cose contraddittorie non possono mai essere contemporaneamente reali”. È impossibile, ad esempio, che esista nella realtà un corpo che sia, contemporaneamente, vivente e non vivente o un uomo che sia contemporaneamente bianco e nero: contra factum non valet argumentum.
Il mondo non è caos, ma è cosmo, cioè ordine e bellezza, proprio perché è regolato da questo principio che come rilevava Aristotele ha valore logico e ontologico[15]
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NOTE
[1] Vedi precedente articolo.
[2] E. Severino, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, cit., p. 329.
[3] Idem, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 126.
[4] Ibidem, pp. 126-127.
[5] Ibidem, p. 127.
[6] Ibidem.
[7] Parmenide, Sulla natura. Frammenti.
[8] Ibidem.
[9] Aristotele, Metafisica, IV, 3.
[10] Ibidem.
[11] San Tommaso d’Aquino, Commento al IV libro della Metafisica, lect. 6. Il corsivo è mio.
[12] G. Barzaghi, Compendio di storia della filosofia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, p. 205.
[13] Ibidem
L’Autore concorda con Severino che “non si può consentire che la cosa sia nel tempo, perché non si può consentire che l’essere sia nel tempo. L’essere in quanto essere è dunque eterno” (ibidem, p. 206).
“Il divenire va inteso come «processo della rivelazione dell’immutabile»; non è il venire dal nulla e i tornare nel nulla delle cose, ma l’apparire e scomparire, nell’orizzonte della nostra esperienza, di ciò che è eterno” (ibidem, p. 207).
[14] M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi Edizioni, Milano 1994, pp. 487-488.
[15]Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 3.


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La metafisica aristotelico-tomista (Quarta parte)

1. L’ente

Aristotele e San Tommaso d’Aquino intendono la metafisica nello stesso modo: essa è la scienza dell’ente in quanto ente e di tutto ciò che gli appartiene.
Il concetto di ente è però diverso nei due filosofi, infatti per il primo ciò che è costitutivo dell’ente è la sostanza, mentre per il secondo è l’essere.
Scrive in proposito Mondin:
“San Tommaso apparentemente della metafisica dà la stessa definizione di Aristotele: ‘Metaphisica considerat ens et ea quae consequuntur ipsum’ (In Metaph. Proem.). Ma l’accordo è semplicemente apparente. Infatti se è pur vero che sia Aristotele sia san Tommaso concepiscono la metafisica come studio dell’ente in quanto tale il loro modo di intendere la reduplicativa in quanto ente è profondamente diversa. Infatti ciò che per Aristotele costituisce l’ente in quanto ente è la sostanza perché essa sola possiede l’entità in modo completo e autonomo. Così tutta l’indagine metafisica di Aristotele cammina in direzione della sostanza. Invece per san Tommaso ciò che costituisce l’ente in quanto ente è l’essere, poiché per definizione l’ente non è altro che ciò che possiede l’essere (id quod habet esse), ciò che partecipa all’essere (id quod partecipat esse)”.
In effetti, l’oggetto formale della metafisica di Aristotele è l’ente-sostanza, il quale sub-stat, sta sotto, quindi è il fondamento di tutti gli enti-accidenti, i quali ad-cidunt, cadono sopra la sostanza. Invece, l’oggetto formale della metafisica di San Tommaso è l’essere dell’ente, cioè il suo atto di essere, la sua esistenza.
Ambedue i filosofi concepiscono la metafisica come una scienza, nel significato che questo termine aveva nella filosofia greca, cioè come un’epistéme, un sapere incontrovertibile che implica uno “stare” (stéme) “su” (epi): una conoscenza stabile e indubitabile, assoluta, capace di resistere ad ogni forma di confutazione, a differenza della doxa, cioè dell’opinione, che può anche essere vera, ma non è capace di esibire le ragioni delle sue affermazioni.
Il punto di partenza dell’analisi metafisica è la realtà mondana, infatti gli enti indagati sono i fenomeni molteplici e divenienti che costituiscono il mondo.
Apparentemente la metafisica non differisce da qualunque altra scienza, perché ogni scienza è scienza dell’ente, perché una scienza del non-ente, cioè del niente è un assurdo. Ogni scienza studia l’ente secondo uno specifico punto di vista: la fisica studia l’ente in quanto naturale, la botanica in quanto vegetale, la zoologia in quanto animale, ecc., ma la metafisica studia l’ente in quanto ente, cioè analizza la realtà al livello più radicale poiché si chiede semplicemente “cos’è l’ente?” e cerca una risposta che sia la più esauriente possibile.
La metafisica, essendo lo studio dell’ente in quanto ente, è il fondamento di tutte le scienze perché i principi da essa evidenziati sono validi per tutte le forme di sapere,  essendo i principi che riguardano ogni ente, indipendentemente dai diversi campi di indagine studiati; in questo senso essa è la “filosofia prima” come sosteneva Aristotele, infatti il termine “metafisica”, come è noto, è stato usato per motivi redazionali.
Ogni scienza definisce il suo oggetto di indagine, ma ciò è impossibile per la metafisica perché il proprio oggetto, cioè l’ente, è indefinibile perché ogni definizione implica un genere prossimo e una differenza specifica; ad esempio, l’essere umano è definito dal genere prossimo “animale” e dalla differenza specifica “razionale”. L’ente, però, non può essere compreso né da un genere né da una specie, perché i concetti di genere e di specie presuppongono il concetto di ente, poiché il genere è ente e la specie è ente. Non c’è nulla che non sia ente, anche il concetto di nulla è un ente, infatti è qualcosa, anche se è un ente non reale ma logico, poiché significa negazione dell’essere.
L’ente non essendo inquadrabile in nessun genere e in nessuna specie è quindi indefinibile. Esso è, però, descrivibile, infatti esso significa semplicemente “ciò che è”.
Il concetto di ente è quindi composto da due significati distinti e connessi tra loro: “ciò che” e “è”.
Ciò che denota la cosa e l’essenza di questa, mentre l’è si riferisce all’esistenza o all’atto di essere della cosa.
Il concetto di ente è indefinibile perché è il più universale di tutti; anche il concetto di “definizione” è ente. Al di fuori dell’ente c’è solo il ni-ente o nulla.

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La metafisica aristotelico-tomistica (Quinta parte)

Ente come trascendentale


E’ ente un fiore, è ente un colore, è ente un raffreddore, ma fiore, colore e raffreddore sono cose diverse e se viene utilizzato lo stesso termine per denotarle sembra che vengano cancellate le loro diversità essendo tutte identicamente ente e avrebbe quindi ragione Parmenide nel negare l’esperienza sensibile che attesta la molteplicità e la diversità delle cose e affermare semplicemente che l’ente è e il diverso dall’ente è il nulla.
L’esperienza sensibile è innegabile ed è il punto di partenza dell’analisi metafisica, insieme al principio di non contraddizione, ed è quindi necessario riflettere sul significato del termine ente. Esso infatti può riferirsi a realtà diverse come un fiore, un colore, un raffreddore perché questo termine nomina realtà che hanno significati diversi, ma sempre in relazione a un unico significato (il concetto di ente).
Il termine ente, come afferma Aristotele, è predicato “in molti modi”, cioè è predicatoanalogicamente, con un significato che implica identità e diversità.
L’analogia, come insegna il filosofo greco, si distingue dall’univocità e dall’equivocità. Un termine è univoco quando si riferisce a delle realtà con lo stesso significato: per esempio il termine computer utilizzato per denominare ogni computer esistente. Il termine è equivoco quando denota delle realtà con significati diversi: per esempio il termine arancio per denominare l’albero e il colore.
L’ente, dunque, come scrive Dezza, “non è univoco perché, se tutte le cose realmente sono, non sono allo stesso modo; neppure è equivoco perché se tutte le cose sono diverse tra loro, non sono totalmente diverse, ma hanno qualche somiglianza o convenienza; [l’ente] è dunque analogo cioè né tutto eguale né del tutto diverso, ma in qualche modo simile; somiglianza che non è estrinseca, ma è intrinseca alle cose stesse e tocca la loro intima natura […]”[1].
San Tommaso, per esplicitare il concetto di analogia aristotelico, fa due esempi in cui due termini “militare” e “salute” vengono usati in modo analogico.
Il filosofo afferma che l’analogia è presente “in alcuni casi […] che si riferiscono a un unico principio: per es., una cosa viene detta ‘militare’ o perché è lo strumento del soldato, come la spada, o perché è la sua copertura, come la corazza, oppure perché è il suo mezzo di trasporto come il cavallo.
In altri casi, invece, […] che si riferiscono a un unico fine: per es., una medicina viene detta ‘sana’ per il fatto che produce la salute mentre la dieta, per il fatto che conserva la sanità: l’urina, poi, in quanto è segno di salute”[2].
Questo tipo di analogia è detta “analogia di attribuzione” perché uno stesso termine (militare o sano) è “detto in molti modi” a seconda che venga attribuito a una realtà (la spada, la corazza, il cavallo) o ad un’altra (la medicina, la dieta, l’urina).
L’analogia, come vedremo quando parleremo dei “nomi divini”, si distingue in analogia di “attribuzione estrinseca”, “intrinseca”, di “proporzionalità propria o metaforica”.
L’ente si dice “in molti modi” e alcuni di essi trascendono tutte le differenze reali che si trovano negli enti e, per questo motivo, sono chiamati “trascendentali”.
I trascendentali sono gli attributi universali che sono propri dell’ente in quanto ente. Essi sono dedotti logicamente dal concetto di ente e, trattandosi di una deduzione logica, la loro distinzione è operata dalla ragione e non riguarda la realtà. Detto in altri termini, le distinzioni riguardano il modo di considerare la realtà e non la realtà in se stessa.
La teoria dei trascendentali è stata elaborata da San Tommaso nella prima questione del De veritate, in essa infatti l’ente è considerato in 2 modi:
1. in se stesso, a) positivamente e b) negativamente,
2. in riferimento ad altro, a) negativamente e b) positivamente.
L’argomento è complesso e la comprensione può essere facilitata analizzando cosa scrive in proposito il filosofo.
Il modo 1 “esprime nell’ente qualcosa o [a] positivamente o [b] negativamente”.
1a)      Riguardo all’espressione positiva dell’ente, scrive:
“E non si trova nulla che sia detto affermativamente in modo assoluto, che possa essere inteso in ogni ente, se non la sua essenza, secondo la quale si dice che esso è; e così viene assegnato il nome ‘cosa’, che differisce da ‘ente’ […] perché ‘ente’ viene tratto dall’atto di essere, ma il nome ‘cosa’ esprime la quiddità o essenza dell’ente”[3].
Ogni ente è una ‘cosa’, infatti di qualsiasi ente posso dire che è una cosa: una sedia è una cosa, così come un albero o un uomo, intendendo con questo termine l’essenza di un ente. L’essenza dell’ente-uomo è diversa dall’essenza ente-sedia, ma nella considerazione metafisica devo dire che uomo e sedia sono espresse col termine “cosa”.
La parola cosa significa “essenza” e differisce dal termine ente che significa “ciò che è”.
1b)     Relativamente all’espressione negativa dell’ente scrive:
“E la negazione che consegue a ogni ente in maniera assoluta è la non divisione, che viene espressa con il nome ‘uno’: infatti l’uno non è nient’altro che l’ente indiviso”[4].
Ogni ente è “uno” e ciò significa che ogni ente è “indiviso” o perché è semplice o perché è composto, ma le parti di cui è composto sono unite tra di loro, come nel caso dell’essere umano che è l’unione sostanziale di anima corpo.
Il modo 2 “esprime nell’ente qualcosa o [a] negativamente positivamente o [b] positivamente”.
2a)     Relativamente all’espressione negativa dell’ente scrive:
“Nel secondo modo, cioè secondo il rapporto di una cosa all’altra, ciò può avvenire in due maniere. Nella prima secondo la divisione di un ente dall’altro, che viene espressa dal nome ‘qualcosa’: infatti si dice ‘qualcosa’ come se si dicesse ‘un’altra cosa’; dunque ogni ente viene detto ‘uno’ in quanto è in sé non diviso, così viene ‘qualcosa’ in quanto è diviso dagli altri”[5].
L’ente è uno in sé, cioè indiviso in sé, e diviso da altro da sé. L’altro da sé in assoluto è il nulla, per cui si può dire che ogni ente è un non-nulla, ma altro da sé è anche ogni determinazione che non è un determinato ente. Per esempio: il fiore non è il non-fiore, quindi non è il tavolo, non è il computer, non è la giraffa e tutti gli altri enti che non sono fiore.
2b)      Riguardo all’espressione positiva dell’ente, scrive:
“Nella seconda maniera secondo l’accordo di un ente con un altro; e ciò però non può avvenire se non si prende qualcosa che possa per natura accordarsi con ogni ente: e ciò è l’anima, che è in un certo senso tutte le cose, come viene detto nel terzo libro Sull’anima. Ma nell’anima c’è una facoltà conoscitiva e desiderativa. Dunque l’accordo dell’ente con il desiderio viene espresso da nome ‘buono’, così come all’inizio dell’Etica [Nicomachea] si dice che buono è ciò che tutti desiderano. E l’accordo dell’ente con l’intelletto viene espresso dal nome ‘vero’ ”[6].
L’ente può essere considerato positivamente in riferimento ad altro da sé, cioè in riferimento all’anima.
L’anima è qui intesa metafisicamente come trasparenza dell’essere: “l’anima è in qualche modo tutte le cose”. Essa ha due facoltà, quella desiderativa o volitiva e quella conoscitiva o intellettiva, i cui oggetti formali sono rispettivamente il “buono”, cioè l’appetibile e il “vero”, cioè l’intellegibile.
In conclusione si deve quindi affermare che ogni “ente” (ens) è “uno” (unum) perché è indiviso in sé, è “cosa” (res), poiché ha un’essenza, è “qualcosa” (aliquid) perché è diverso da ogni altro ente, è “buono” (bonum) perché desiderabile o appetibile, è “vero” (verum) perché intellegibile o conoscibile.
I trascendentali descritti nel De Veritate sono sei: ente (ens), uno (unum), cosa (res), qualcosa (aliquid), “buono” (bonum), “vero” (verum). E’ controversa, secondo i filosofi tomisti, l’affermazione di un settimo trascendentale: il “bello” (pulchrum), inteso come sintesi di tutti i trascendentali, di cui San Tommaso, parla in altre opere[7].
In conclusione, è opportuno riaffermare che i trascendentali sono modi razionali diconsiderare, di interpretare, gli enti e non sono quindi le categorie con le quali la realtà deve essere catalogata.
Vedremo nel prossimo articolo che le categorie (sostanze e accidenti), a differenza dei trascendentali, hanno un valore ontologico, cioè descrivono come è strutturata la realtà.
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NOTE
[1] P. Dezza, Filosofia. Sintesi scolastica, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, IX ed., p. 68. 
[2] San Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, I, 7.
[3] Idem, De veritate, I, 1.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Scrive in proposito Mondin: “In San Tommaso la bellezza è quasi un ‘trascendentale dimenticato’ (Gilson). Tutto quello che ha detto l’Angelico sulla bellezza si può raccogliere in un paio di pagine, ma sono pagine importanti perché esse contengono gli elementi essenziali di una metafisica della bellezza.
La trattazione più esauriente si trova […] nel suo commento a I nomi divini di Dionigi” (B. Mondin, Introduzione, in S. Tommaso d’Aquino, Commento ai nomi divini di Dionigi, vol. I, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004, p. 48).

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Ente come sostanza e come accidente
I trascendentali, come abbiamo visto[1], sono modi di considerare, cioè di concepire e dire la realtà: uno (unum), cosa (res), qualcosa (aliquid), “buono” (bonum), “vero” (verum), “bello” (pulchrum) sono dedotti logicamente dal concetto di “ente” (ens), e hanno la stessa estensione di quest’ultimo. Di ogni realtà si può infatti affermare che è ente, cosa , qualcosa, buono, vero, bello e queste distinzioni sono soltanto concettuali e non reali.
I trascendentali sono così denominati perché trascendono le categorie, le quali sono determinazioni della realtà, e sono quindi realmente distinte le une dalle altre[2]. Aristotele presenta una sorta di “catalogo” della realtà, classificandola secondo dieci modi di essere: sostanzaquantità, qualità, relazione, azione (produrre), passione(subire), quando o tempo, dove o luogo, sito (le circostanze del luogo), abito (l’essere rivestito).
La categoria ontologica fondamentale, secondo Aristotele e San Tommaso, è la sostanza, perché tutte le altre sono ad essa subordinate, in quanto esistono soltanto in riferimento a lei[3].
Van Steenberghen, esemplifica questo concetto riferendosi a un individuo umano.
Scrive:
“Socrate è uomo, cioè un ente sussistente appartenente alla specie umana, una sostanza (substantia). E’ corporale o esteso, di piccola taglia ma largo di spalle: aspetti quantitativi (quantum). E’ bianco di pelle, nero di capelli, intelligente, onesto: aspetti qualitativi (quale). E’ orefice, lavora metalli preziosi: azione (actio). Ma è sensibile al freddo e ha subito il morso di un serpente: passione (passio). E’ figlio di Zenone e fratello di Calliade, che sono più grandi di lui: egli ha dunque delle relazioni con altri (relatio, esse ad). Ha 60 anni ed è vissuto nel IV secolo a. C.: la sua vita è misurata dal tempo (quando). Si trova a Tebe: occupa un luogo (ubi). E’ vestito di una tunica e porta un’arma: è il suo avere (habitus). Infine è seduto, sdraiato o in piedi (situs)”[4]
I filosofi scolastici definivano la sostanza “primum ens” e tutte le altre categorie “ens entis”, ente dell’ente, in quanto tutte ineriscono a lei, cioè si appoggiano a lei, ad-cidunt, “cadono” su di lei, cioè sono “accidenti”.
La sostanza ha l’essere in sé stessa, a differenza dell’accidente che ha l’essere nella sostanza. La sostanza ha l’essere in sé, e l’accidente ha l’essere in altro.
L’accidente è un modo di essere della sostanza.
Nel mondo esistono propriamente delle sostanze, ad esempio degli alberi, degli uomini e non degli accidenti. Non esiste in se stesso il colore verde o l’allegria. Il colore verde e l’allegria esistono, reciprocamente, soltanto negli alberi e in ogni sostanza colorata di verde o negli esseri umani.
Scrive in proposito Aristotele:
“Dicendo, ad esempio, che «il giusto è musico», esprimiamo un essere accidentale, in quanto «giusto» e «musico» sono solamente in quanto si riferiscono ad altro, il quale è in senso vero e proprio. E, così, esprimiamo un essere accidentale dicendo: «l’uomo è musico» in quanto «musico» è, appunto in quanto è accidente di «uomo», il quale costituisce ciò che propriamente è[5].
La sostanza è ciò che sub-stat, sta sotto agli accidenti e li sostiene. La sostanza è sempre “sostanza individua”, infatti esiste non l’umanità, ma questo o quell’uomo. Esistono gli individui: Pietro, Paolo ecc.
L’esistenza della sostanza è assolutamente innegabile. Scrive infatti giustamente Lucas Lucas:
“[…] L’esistenza della sostanza individuale si mostra evidenziando la contraddizione in cui cade colui che la nega e richiamando la stessa esperienza ordinaria. Chiunque afferma che certe qualità e certe determinazioni sono «di» qualcosa o «di» qualcuno, indica implicitamente una sostanza determinata: più proprietà e atti sono riferibili a uno stesso uomo. L’esperienza ci attesta e ci mostra che i corpi mutano e si trasformano, rimanendo gli stessi; è la stessa pianta, o lo stesso animale o lo stesso uomo, che nasce, cresce e muore”[6].
La sostanza sub-stat, sta sotto, agli accidenti, ma anche sub-sistit, sussiste[7].
Il cosmo è costituito da una totalità di sostanze esistenti, le quali permangono identiche, immutabili, fino a quando esistono: ad esempio Pietro rimane sempre lo stesso Pietro, la sua sostanza non può mutare, mentre ci saranno cambiamenti accidentali, perché con il tempo invecchierà, perderà la memoria ecc. ma rimarrà sempre lo stesso Pietro fino al momento della morte, quando avverrà, come vedremo in seguito, un cambiamento sostanziale.
La sostanza, come afferma Aristotele, è il “primo ente”[8]. Essa è l’ente in senso forte, infatti ogni accidente esiste soltanto in rapporto alla sostanza, è cioè ente dell’ente (ens entis). Gli accidenti sono i fenomeni sensibili che manifestano la sostanza; ad esempio, conosciamo la sostanza-sedia tramite la sua forma esteriore, visibile ai nostri occhi.
La sostanza è il fondamento degli accidenti, ma ciò non significa che questi ultimi siano influenti per la costituzione ontologica degli enti.
Nel caso dell’essere umano, come per ogni ente, le dimensione sostanziale, pur essendo fondamentale, determina in minima parte la realtà dell’ente.
E’ interessante notare che bambini cresciuti senza il contatto umano, ma allevati da animali in seguito al loro smarrimento o abbandono, sono privi degli accidenti che sono presenti normalmente in tutti bambini. Essi, infatti, non hanno sviluppato le più elementari operazioni vitali, come, ad esempio, parlare o camminare in posizione eretta, cioè sono privi di alcuni modi di essere accidentali che sono presenti nella sostanza umana, la quale permane sostanza umana anche se priva dell’accidente parlare e camminare.
Durante l’Illuminismo alcuni studiosi, come Condillac, Lamettrie e Rousseau, dissentivano tra loro circa l’essenza dell’uomo, definendolo o un “animale naturale” o un “animale culturale”. Per tentare di dirimere questo problema tali studiosi hanno esaminato alcuni casi di bambini allevati da animali, con l’intento di trovare conferme o smentite alle loro tesi[9].
Altri studi sui cosiddetti “ragazzi selvaggi” sono stati svolti, con intenti analoghi, anche in anni recenti[10] e tutti mostrano quanto sia necessaria un’opera di educazione che, dalla nascita in poi, aiuti l’essere umano a svilupparsi.
Ludovico nel suo saggio, intitolato La scimmia vestita. Bambini lupo, orso, leopardo, gazzella…47 casi di ragazzi selvaggi, riporta 47 casi di bambini e ragazzi allevati da lupi, orsi, capre, pecore, maiali, leopardi e gazzelle.
Nel caso dei bambini allevati dai lupi il linguaggio verbale è assente. Infatti “tutti [i bambini-lupo] condividono una caratteristica comune, che è importante per lo studioso della lingua più ancora che per lo studioso della mitologia, cioè la mancanza di linguaggio ”[11].
Le ricerche condotte sui bambini-lupo documentano che è frutto dell’educazione non soltanto l’acquisizione del linguaggio verbale ma anche l’assunzione della posizione eretta, la socializzazione con i propri simili e le abitudini alimentari. Viene riportato il caso di un bambino di circa 9-10 anni vissuto in isolamento, che, trovato in una tana insieme ad un lupo e a due cuccioli, viene catturato.
Inserito in un normale contesto sociale “il fanciullo cammina a quattro zampe; non parla ed emette solo ringhi. Ha paura degli adulti e scappa, al contrario, ringhia contro i bambini e cerca di graffiarli. E’ disgustato dai cibi cotti e invece divora con avidità la carne cruda. Mentre mangia non permette a nessuno di avvicinarsi, ma divide, senza opporsi, il suo cibo con un cane. In seguito impara a mangiare qualsiasi cosa, sebbene il cibo preferito rimanga la carne cruda; rosicchia ossi, specialmente se sono crudi, e mangia terra e sassolini. Non lo si può costringere ad indossare nessun indumento, neanche nella stagione più fredda. Continua a preferire cani, sciacalli e tutti gli altri quadrupedi, e non disdegna di dividere il cibo con essi. Non mostra attaccamento per nessuno e non gioca mai con i bambini. Sembra capire poco di quanto gli si dice e non curarsi di quanto gli accade intorno. Solo raramente adopera dei segni quando vuole qualcosa e soprattutto quando ha fame, allora si indica la bocca […]”[12].
E’ un fatto culturale il camminare in posizione eretta, esprimersi con una lingua, vestirsi, cibarsi di carne cotta, ecc. e tutto l’ambito della cultura delle acquisizioni culturali e religiose. Ogni uomo, da Adamo fino all’ultimo uomo, rimane sostanzialmente sempre lo stesso, mentre si diversifica accidentalmente da ogni altro per la cultura e la religione di appartenenza?
“La natura dell’accidente - scrive San Tommaso - è inerire”[13] nelle sostanze, e alcuni vi ineriscono in modocontingente, cioè possono esserci o non esserci, come nel caso del linguaggio verbale o del camminare in posizione eretta, e altri vi ineriscono in modo necessario, come nel caso delle facoltà fondamentali dell’anima, cioè l’intelletto e la volontà.
Scrive in proposito Maritain:
“Ci sono accidenti contingenti (cioè che possono mancare al soggetto) reali e realmente distinti dalla sostanza. […] Ci sono accidenti necessari (cioè che non possono mancare al soggetto) reali e realmente distinti dalla sostanza”[14].
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NOTE
[1] Vedi precedente articolo.
[2] Cfr. Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a 22-27.
[3] Ibidem, IX, 1, 1045 b.
[4] F. Van Steenberghen, Le Thomisme, Presses Universitaires de France, Paris 1983, II ed., pp.54-55.
[5] Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a 7. Il corsivo è mio.
[6] R. Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, pp. 92-93.
[7] Il termine sostanza può avere altri significati oltre a quelli qui espressi (cfr. San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, 29, 2 ). E’ all’interno del contesto di un discorso che si può comprendere il significato con cui viene usato il termine sostanza, come anche delle parole essenza e essere.
[8] Aristotele, Metafisica, citato in J. Maritain, Elements de philosophie, vol. I, Pierre Tequi, Paris 1994, XXXI ed., p. 222.
[9] Cfr. in proposito: E. de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines,  Armand Colin, Parigi 1924; J.O. de Lamettrie, L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1973; J.J. Rousseau, Discours sur origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, March Michel Rey, Amsterdam 1755.
[10] Cfr. A. Ludovico, La scimmia vestita. Bambini lupo, orso, leopardo, gazzella…47 casi di ragazzi selvaggi, Armando, Roma 1979.
[11] Ibidem, p. 31.
[12] Ibidem, p. 35.
[13] San Tommaso d’Aquino, De natura accidentis, n. 466.
[14] J. Maritain, Elements de philosophie, cit., pp. 163-164.

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Ente come essenza
Il mondo è un insieme di sostanze, le quali sono gli individui che esistono concretamente: questi alberi, questi gatti, questi ciclamini ecc. Aristotele usava l’espressione tode ti “questo qui” come sinonimo di sostanza, per significare che le sostanze sono individuali e si possono indicare con un dito: esiste non l’umanità, ma questo o quell’uomo, Andrea o Giovanni, che vive in un dato tempo e in dato spazio.
L’esistenza è sempre e soltanto l’esistenza di sostanze, cioè di individui concreti.
Tutto ciò che è collettivo, come lo stato, il partito, il sindacato, non esiste.
Popper afferma giustamente che la società non esiste, anche se “la gente […] crede alla sua esistenza e di conseguenza dà la colpa di tutto alla società o all’ordine sociale”[1].
Il filosofo afferma l’esistenza soltanto degli individui e nega la realtà di tutto ciò che è collettivo, inoltre sottolinea che “uno dei peggiori sbagli è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggiore ideologia”[2].
Secondo Popper esistono i singoli poliziotti e i singoli uomini politici, ma non esistono né la polizia né i partiti, e lo stesso discorso vale per tutte le istituzioni sociali. Esse sono tutte “cose astratte”.
Il più autorevole discepolo di Popper, Dario Antiseri, sostiene che il suo maestro si ispira alla scuola austriaca di economia, la quale ha messo in crisi l’atteggiamento collettivistico che è specifico delle scienze sociali. Esse, infatti, considerano l’individuo umano come un membro di un tutto sociale, cioè di una struttura, e nella sociologia “è addirittura impossibile immaginare l’esistenza di un uomo separato dal resto dell’umanità e non connesso con la società”[3].
Il caposcuola degli economisti viennesi, von Mises, ha rivoluzionato i tradizionali modelli interpretativi delle scienze sociali, affermando che il loro vero oggetto di indagine sono le azioni degli individui umani e non le strutture e il loro funzionamento.
La vita umana, secondo questo autore, “è una sequenza incessante di azioni singole”[4], le quali, comportano una infinità di conseguenze sociali, indipendentemente dagli scopi che si prefiggono gli individui che agiscono.
Questo modo di pensare, che pone al centro della riflessione l’individuo, è stato aspramente criticato dalle scuole di ispirazione hegelo-marxista e strutturalista che fagocitano gli individui all’interno di strutture onnivore come la classe, il partito, lo stato[5].
Von Mises non nega che totalità collettive come “le nazioni, gli stati, le municipalità, i partiti, le comunità religiose” possano addirittura determinare la vita umana[6], ma sottolinea che “una collettività funziona sempre per l’intermediazione di uno o parecchi individui[7].
Esemplificando la sua tesi, l’autore aggiunge: “Il boia, non lo stato, giustizia il criminale. E’ la riflessione degli interessati che discerne nell’azione del boia un’azione dello stato”[8].
L’esistenza di nazioni, stati e chiese “diventa discernibile soltanto nelle azioni di certi individui[9], i quali, soltanto, propriamente esistono, mentre “è illusorio credere che sia possibile visualizzare dei tutti collettivi”[10].
Esistono soltanto sostanze individuali, ma come si distinguono l’una dall’altra? Come si distingue un’anatra da un pesce, un fiore da un albero, ecc. ?
Irwin scrive in proposito:
“L’individuo è tale […] perché è un che di determinato, e la determinazione è dovuta alla forma, all’essenza, sicché,senza la forma non esisterebbe alcun tode ti [questo qui] e quindi nessun individuo[11].
L’essenza di una sostanza, cioè la “forma sostanziale”, è il principio di intellegibilità dell’ente-sostanza, ciò che rende possibile la sua conoscenza. Gli individui esistenti non sono identici, ma si differenziano l’un l’altro in riferimento alle diverse essenze: ad esempio, l’essenza di un cavolo è diversa da quella di una sedia e viceversa.
Maritain afferma giustamente che l’essenza è “ciò che […] è presente immediatamente e prima di tutto all’intelligenza, id quod in aliqua re per se primo intelligitur[12].
“Quiddità” è un sinonimo del termine essenza ed esprime in modo esauriente cosa significa l’essenza di una cosa. Essa, infatti, è id quod est, ciò che è, una determinata sostanza e risponde alla domanda quid est hoc? Cos’è questo?
Questa domanda, da Socrate in poi, è presente in tutta la storia della metafisica, il cui tipo di conoscenza, come è stato precedentemente evidenziato, è di carattere non opinativo, ma epistemico, cioè ricerca l’essenza della realtà indagata in vista dell’edificazione di un sapere di carattere assoluto e incontrovertibile.
“Le essenze delle cose - scrive Aristotele - sono come i numeri e non vi sono due numeri uguali”[13]: Ad esempio, l’essenza dell’uomo non è l’essenza dell’animale, e come ogni numero rimane sempre identico a se stesso e non cambia mai (il numero 3 è sempre 3), così le essenze non mutano: l’essenza dell’uomo, così come dell’animale, è sempre la stessa.
Maritain afferma in proposito che l’essenza è “l’ente che la cosa posta davanti all’intelligenza è necessariamente e immutabilmente. […] Così, per esempio, Pietro, finché è, non può non essere uomo. (Al contrario può non essere «seduto»)”[14].
Gli accidenti, come le sostanze in cui ineriscono, possiedono la loro essenza, che consente di distinguerli tra loro, come ad esempio l’essenza della gioia, da quella della tristezza, l’essenza del colore, da quella del suono, ecc.
Maritain, nella sua ontologia di stampo tomistico, ha analizzato l’ente da tre punti di vista (tre oggetti formali), da quello dell’esistenza, dell’intellegibiltà e dell’azione[15]. Dal primo punto di vista ha preso in considerazione la sostanza e l’accidente, dal secondo l’essenza, dal terzo l’atto e la potenza.
Nel prossimo articolo verrà affrontato quest’ultimo tema, seguendo l’impostazione di Maritain, la cui chiarezza espositiva favorisce la comprensione di problemi complessi.
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NOTE​
[1] K.R. Popper, La scienza e la storia sul filo dei ricordi, Intervista di G. Ferrari, Jaca Book – Edizioni Casagrande, Bellinzona 1990, p. 25.
[2] Ibidem.
[3] L. von Mises, L’azione umana. Trattato di economia, a cura di T. Biagiotti, Unione Tipografica – Editrice Torinese, Torino 1959, p. 40.
[4] Ibidem, p. 44.
[5] Althusser ha afferma: “Gli individui sono soltanto gli effetti della struttura” (L. Althusser, Leggere il capitale, citato in D. Antiseri, Liberi perché fallibili, Rubbettino, Messina 1995, p. 78. Il corsivo è mio).
[6] Cfr. ibidem, p. 41.
[9] Ibidem. Il corsivo è mio.
[10] Ibidem, p. 42.
Riflessioni analoghe a quelle svolte da von Mises riguardo allo stato e alla nazione, possono riguardare anche la Chiesa? Si può affermare che non esiste la Chiesa, ma esiste soltanto questo o quel vescovo, questo o quel presbitero, questo o quel fedele?
Ad una prima analisi sembrerebbe di sì.
Sartre, entrando in una chiesa durante il momento della consacrazione, vede soltanto un prete che beve del vino e alcune donne inginocchiate. Scrive infatti nella Nausea: “Nelle chiese, al chiarore dei ceri, un uomo beve del vino davanti a donne inginocchiate” (J.P. Sartre, La nausea, Einaudi, Torino 1962, p. 61).
Sartre “vede” nella celebrazione eucaristica solo degli individui che compiono un rito, mentre de Lubac “vede” la presenza reale di Gesù Cristo in un sacramento, il quale rende possibile l’unità ecclesiale. Scrive il teologo, commentando la Didaché: “Come il pane e il vino formati da una miriade di chicchi di grano e di gocce di spremute da grappoli di uva, così questa comunità si forma dall’unificarsi di tutte queste persone che partecipano alla stessa eucaristia e diventano pertanto membra dell’unico corpo di Cristo” (H. de Lubac, citato in P.J. Cordes, Partecipazione attiva all’Eucaristia, la “actuosa partecipatio”nelle piccole comunità, Edizioni San Paolo, Roma 1996, p. 80).
Le singole persone che partecipano al banchetto eucaristico sono membra del corpo mistico di Cristo, il quale vive in esse e fonda e alimenta, nel contempo, la Sua Chiesa.
La Chiesa, in quanto Corpo di Cristo, trascende sempre gli individui che la compongono; essi infatti sono le membra di Cristo, il quale è il capo del Corpo, colui che guida la Chiesa tramite i suoi Pastori, cum Petro et sub Petro.
La Chiesa è quindi soprattutto Gesù Cristo vivo oggi in una comunità ecclesiale, la quale costituisce il Suo popolo.
La Chiesa in quanto Corpo di Cristo esiste, a differenza delle altre istituzioni. Essa infatti, come afferma Benedetto XVI, “non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa” (Benedetto XVI, Incontro con i parroci e il clero di Roma, Aula Paolo VI, Roma 14 febbraio 2013).
Un corpo che è chiamato a dare la vita, che ha ricevuto da colui che è la Vita, per annunciare il Vangelo a tutte le genti, fino ai confini del mondo.
[11] T. Irwin, I principi primi di Aristotele, Presentazione di G. Reale, Introduzione di R. Davies, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 513.
[12] J. Maritain, Elements de philosophie, cit., p. 140.
[13] Aristotele, Metafisica, VIII, 3, 1043b32-1044a2.
[14] J. Maritain, Elements de philosophie, cit., p. 143.
[15] Cfr. ibidem, pp. 136-183.

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Ente come atto e potenza. Il divenire degli enti


Il problema centrale della speculazione greca riguarda il divenire degli enti, che sembrano oscillare tra l’essere e il nulla, venire dal nulla e ritornarvi: uomini, animali, piante si generano e si corrompono.
Contrariamente a quanto affermato da Severino[1], non è vero che “il pensiero greco ha inteso il divenire come l’ondeggiare delle cose tra l’essere e il nulla”[2], perché, come abbiamo visto[3], Aristotele afferma che il divenire è il passaggio da un modo di essere in potenza a un modo di essere in atto e tutta la filosofia greca è concorde nel sottoscrivere la sentenza di Melisso secondo cui: ex nihilo nihil (dal nulla nulla).
Nel mondo assistiamo a mutazioni di carattere accidentale (es.: l’acqua prima calda, poi fredda) e sostanziale (es.: il legno, bruciato, diventa carbone), e queste ultime pongono alla riflessione problemi di difficile soluzione. 
Infatti se si analizza, ad esempio, il fenomeno della combustione di un albero che diventa carbone assistiamo alla comparsa dell’albero, prima di essere bruciato, e alla sua scomparsa, dopo essere stato bruciato, e alla contemporanea apparizione del carbone. Come è stato possibile questo processo?
Secondo il pensiero di Severino il problema è facilmente risolvibile, perché il divenire è il comparire e lo scomparire degli enti, i quali sono eterni, quindi nel caso sopra riportato si dovrebbe affermare che è scomparso un albero che eternamente è ed è apparso un carbone che eternamente è.
Gli enti indagati dalla metafisica sono situati nel mondo, quindi nello spazio e nel tempo, e non si constata né è dimostrabile la loro eternità, quindi la soluzione suddetta non è accettabile.
Aristotele, filosofo realista, ha risolto genialmente il problema sul piano speculativo.
La conoscenza speculativa è una conoscenza di “riflesso”, è un vedere la realtà non in maniera diretta, ma indiretta; è come guardare un’immagine allo specchio. E’ vera conoscenza come quando riconosco la realtà degli oggetti percepiti non direttamente, ma indirettamente tramite uno specchio.
Il filosofo ha affermato la realtà di enti che non sono immediatamente presenti, cioè che non sono in atto, ma soltanto in potenza.
Gli enti immediatamente presenti sono sempre enti in atto; ad esempio: questo computer, questo libro, ecc. Non si constata, né si può constatare un ente in potenza.
Non constato cosa potrà essere in futuro questo computer o questo libro, presenti qui e ora.
Per spiegare il divenire, rispettando il principio di non contraddizione, necessariamente si deve affermare la realtà di una dimensione puramente potenziale, conosciuta in modo non diretto,  ma indiretto e speculativo.
L’idea di potenza, come afferma Maritain, “non è assolutamente rappresentabile in se stessa, essa non è né un organo dissimulato nella cosa, né una determinazione prefigurata in essa come una statua che sarebbe disegnata in anticipo tramite le vene del marmo all’interno del blocco. […] Essa non è assolutamente nulla in atto, non può essere concepita in se stessa (perché allora essa sarebbe concepita come qualcosa di determinato)” [4].
L’ente in potenza “è il determinabile, il realizzabile o il perfettibile come tale, esso non è un ente, ma una reale capacità d’essere”[5]; a differenza dell’ente in atto, “che è l’ente stesso nel senso proprio del termine quanto alla pienezza così significata, o ancora il compiuto, il determinato, o il perfetto come tale”[6].
Aristotele delucida i concetti di atto e potenza con esempi chiarificanti.
Scrive:
“L’atto è l’esistere della cosa, non però nel senso in cui diciamo che è in potenza: e diciamo in potenza, per esempio, un Ermete nel legno, la semiretta nell’intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore anche colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare; diciamo invece in atto l’altro modo di essere della cosa. […] E l’atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha la vista […]. Al primo membro di queste differenti relazioni si attribuisce la qualifica di atto e al secondo quella di potenza[7].
L’ente in potenza, non è nulla, ma non è neanche pienamente ente, ed è ciò che rende intellegibile, e quindi non contraddittorio, il divenire.
L’albero menzionato prima è diventato carbone perché poteva diventare carbone, cioè aveva in se stesso lacapacità di essere carbone, capacità che non è presente in altri enti come ad esempio nei metalli, perché, come afferma Aristotele, “una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta avere potenza non implica alcuna impossibilità”[8].
Il divenire è quindi il passaggio dall’ente in potenza all’ente in atto.
E’ necessario evidenziare che il divenire è sempre il divenire di qualcosa che muta, quindi non esiste il puro divenire come sostiene Bergson.
Qualcosa (l’albero) diviene un’altra cosa (carbone).
Il divenire è propriamente il passaggio da un ente in potenza a un ente in atto. Il divenire, afferma Aristotele, “è l’atto di ciò che è esistente in potenza in quanto tale”[9].
San Tommaso, concordando con Aristotele, così scrive:
“Va […] osservato che qualche cosa è solo in atto, oppure solo in potenza, oppure qualche cosa che si trova a mezza via tra l’atto e la potenza. Ora, ciò che è solo in potenza non si muove; ciò che si trova già nella condizione di atto perfetto non si muove ma è già stato mosso; mentre si muove ciò che si trova a mezza via tra la pura potenza e l’atto, e che quindi è in parte potenza e in parte atto. […]  Dunque il moto non è né una potenza di qualche cosa esistente in atto, ma è l’atto di un qualche cosa di esistente in potenza. […] Pertanto il Filosofo [Aristotele] definisce il movimento in modo convenientissimo «è l’atto di ciò che è esistente in potenza in quanto tale»”[10].
Il divenire (il moto) è propriamente il bruciarsi di un albero, il quale da albero diventa cenere; il moto non è quindi né l’albero in atto né la cenere in potenza. Il divenire è quindi una via di mezzo tra la potenza e l’atto, e, in quanto tale, una via di mezzo tra l’imperfezione (la potenza) e la perfezione (l’atto).
E’ necessario riflettere sulla descrizione del divenire data da Aristotele: “l’atto di ciò che è esistente in potenza in quanto tale”.
Il divenire è atto così come è atto l’ente compiuto; ad esempio: è atto sia l’albero presente qui e ora sia il suo incendiarsi, ma il primo tipo di atto è statico, mentre il secondo è dinamico[11].

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NOTE
[1] Vedi articolo La metafisica aristotelico-tomista. Il principio di non contraddizione secondo Severino.

[2] E. Severino,  La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, cit., p. 118.
[3] Vedi articolo La metafisica aristotelico-tomista. Il principio di non contraddizione.
[4] J. Maritain, Elements de philosophie, cit., pp. 174-175.
Severino nelle brano seguente sembra tentare questa rappresentazione impossibile.
Scrive:
“Abbiamo continuamente sottolineato che la filosofia greca porta alla luce un senso del divenire che non era mai reso visibile lungo la storia dell’uomo: il divenire, inteso come passaggio dal non-essere all’essere e dall’essere al non-essere, da parte delle cose o di certi aspetti. Anche quando, con Aristotele, si intende il divenire come passaggio dalla potenza all’atto, l’essere in atto non preesiste totalmente nell’essere in potenza, ma vi preesiste, appunto, solo potenzialmente. Il grande albero che sta ora dinanzi agli occhi, ricco di forme, di sfumature, suoni, odori preesiste in potenza nel seme; e questo significa appunto che la sua attuale ricchezza di aspetti non preesiste, nell’essere in potenza, così come essa è attualmente, sì che l’attualità di questa ricchezza è anche esso qualcosa di divenuto, nel senso che è passato dal non-essere all’essere, cioè dal suo essere niente al suo non essere un niente” (E. Severino, La filosofia greca, cit., pp. 215-216) .
Per affermare che la ricchezza di aspetti presente nell’albero in atto non preesiste in potenza nel seme non è necessario rappresentarsi l’albero in potenza? 
[5] Ibidem, p. 174.
[6] Ibidem.
[7] Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048a-1048b.
[8] Ibidem, IX, 3, 1047a 25.
[9] Aristotele, Fisica, III, 201 a 10.
[10] San Tommaso d’Aquino, Commento alla Fisica di Aristotele, Libro 3, Lez. 2, n. 285.
[11] Aristotele usa il termine enérgheia per denotare il divenire e il termine enteléchia per l’ente compiuto.

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Materia e forma: la composizione dei corpi
Il divenire riguarda non soltanto le sostanze ma anche gli accidenti, ad esempio: l’acqua da fredda diventa calda o viceversa.
San Tommaso, commentando la Fisica di Aristotele, distingue vari tipi di divenire (moto) accidentale: l’alterazione, la crescita e la diminuzione, il moto locale o locomozione.
“[…] Il movimento [divenire] nella qualità si chiama alterazione, riguardo al movimento nella quantità presenta due nomi. E dice che l’atto di ciò che si accresce e di ciò che al contrario diminuisce, non esiste infatti un nome comune per entrambi, è crescita e diminuzione; […] e l’atto di ciò che si muove localmente, locomozione”[1].
L’”alterazione” è di carattere qualitativo, come l’esempio suddetto dell’acqua calda che diviene fredda; “la crescita e la diminuzione” è di carattere quantitativo, come ad esempio l’aumento o la diminuzione del livello di un fiume; la locomozione è il passaggio di un individuo da un luogo ad un altro, come ad esempio una scimmia che si sposta da un ramo ad un altro.
Gli accidenti di carattere qualitativo e quantitativo comportano delle modificazioni intrinseche delle sostanze, a differenza del moto locale, che è di carattere estrinseco, lasciando inalterate le sostanze che si muovono.
Come si vede il divenire accidentale è reso possibile dalle sostanze che permangono e fanno da supporto all’alternarsi degli accidenti, ma come è possibile il divenire sostanziale, cioè il passaggio da una sostanza ad un’altra, dalla sostanza-albero alla sostanza-carbone? Qual è l’elemento di permanenza, il supporto, che rende possibile questo passaggio?
Il divenire sostanziale è descritto da San Tommaso come “l’atto di ciò che si genera e di ciò che si corrompe, generazione e corruzione”[2]. Come è possibile che si corrompa un albero e si generi della cenere? Qual è l’elemento di continuità che collega l’albero prima di essere bruciato e la cenere dopo l’incenerimento?
Sul piano speculativo Aristotele afferma che il fondamento dei cambiamenti sostanziali deve essere necessariamente un ente puramente potenziale definito “materia prima”. Essa, afferma il filosofo greco, è “assolutamente priva di attualità o di forma, è indeterminabile e inconoscibile e non è sostanza”[3].
L’albero, dopo il processo di combustione, non si dissolve nel nulla, perché il nulla non è simpliciter, ma “si risolve” nella materia prima, la quale, afferma Aristotele, è “il primo soggetto o sostrato da cui ogni realtà fisica è sostanzialmente costituita, e in cui si risolve se viene distrutta”.
La materia prima è un elemento puramente potenziale e indeterminato che necessita di essere attuato e determinato da un altro elemento che lo attui e lo determini, chiamato “forma sostanziale”.
Materia prima e forma sostanziale sono i principi costitutivi di ogni corpo fisico, cioè di ogni sostanza corporea.
Ogni sostanza presente nel mondo è un composto di materia prima e di forma sostanziale. Ad esempio: un pezzo di legno è il composto della materia prima e della forma sostanziale del legno, la quale fa sì che esista quel determinato pezzo di legno con determinate caratteristiche qualitative e quantitative (ruvidezza, dimensioni ecc.), cioè con determinate “forme accidentali”. 
La forma sostanziale è un elemento immateriale e attivo che informa totalmente i corpi fisici, mentre la materia è un elemento puramente passivo, totalmente subordinato alla forma sostanziale, la quale è propriamente l’essenza dei corpi fisici e quindi li specifica e li rende distinguibili l’uno dall’altro.
La forma sostanziale è il principio determinante e attuante, e, in quanto attuante, è chiamata “atto primo”, mentre la materia prima, come è stato evidenziato, è pura potenza.
La forma sostanziale, scrive Maritain, “è un principio attivo, che è come l’idea vivente della cosa, o come la sua anima, e che determina questa materia prima puramente passiva un po’ come la forma impressa dallo scultore determina il marmo, costituisce con esso una sola e unica cosa fatta e esistente, una sola e unica sostanza corporea, alla quale dà di essere questa o quella (di avere tale natura specifica), e di esistere, un po’ come la forma impressa dallo scultore dà alla statua di essere ciò che essa è”[4].
Al contrario della forma sostanziale, la materia prima “è pura potenza […] che può essere ogni corpo e che solamente in sé non ne è alcuno. E’ un principio puramente potenziale che tramite la sua unione con un principio attuale (forma sostanziale) costituisce tale o tale sostanza corporea”[5].
La materia prima non può esistere in se stessa, essendo un ente totalmente in potenza, ma esiste tramite la forma sostanziale, la quale la attualizza e la determina.
Il concetto di materia prima è misterioso, come è misterioso, come vedremo, il concetto di Dio, ma mentre quest’ultimo è misterioso per eccesso di intellegibilità, il primo lo è per difetto di intellegibilità.
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NOTE

[1] San Tommaso d’Aquino, Commento alla Fisica di Aristotele, Libro 3, Lez. 2, n. 286.
[2] Ibidem.
[3] Aristotele, Metafisica, VII, 10, 1036 a.
[4] J. Maritain, Elements de philosophie, cit., p. 117.
[5] Ibidem, p. 176.

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Maurizio Moscone, professore di Filosofia presso i Seminari Missionari Diocesani “Redemptoris Mater”, è autore di numerosi articoli e saggi apparsi su riviste specializzate. Scrive settimanalmente sulla rivista “Zenit”. Le sue principali pubblicazioni sono: La pedagogia greca (prefazione di E. Riverso, Ianua, 1990); Il problema educativo tra scienza e filosofia (Ianua, 1992); Filosofia ermeneutica oggi (prefazione di D. Antiseri, Studium, 1995); Antropologia e pedagogia nei programmi della scuola elementare (1888-1985) (Armando, 1999); La Riforma Moratti (Anicia, 2004); La scuola italiana tra riforme e controriforme (Anicia, 2008); I cattolici e le forze politiche dal Risorgimento a oggi (prefazione di A. Gaspari, IF Press, 2011). 

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Descrizione di "CERCANDO L'ANIMA" 
Prefazione di Ivan Fucek, Presentazione di Mons. Giampaolo Crepaldi. Il libro è un invito a riscoprire una visione integrale della persona umana. Che cos'è l'anima? Esiste veramente? Se esiste, è mortale o è immortale? Ha oggi ancora senso parlare dell'anima quando le neuroscienze spiegano le attività spirituali con l'anatomia e il funziomento del cervello. Questo libro offre una risposta a queste domande. La situazione mondiale odierna è molto confusa e il buio prevale sulla luce perchè si sta affermando una nuova snaturata eticità". L'ideologia del gender è il segno eloquente del momento che stiamo vivendo: si intende cancellare l'amore sessuale naturale affinchè ogni uomo o donna possa scegliere liberamente il proprio sesso. "

CC9 Moscone cercando l'anima:CC9 - Chirico Libri

www.chiricolibri.com/.../00290ita_presentazione_moscone_maurizio.pdf

Cercando l'anima del Prof. Maurizio Moscone, che ha il pregio indiscusso di farci ritornare alla memoria un tema – quello dell'anima – finito dimenticato, nel ...