martedì 29 settembre 2015

Diritti vs. desideri

2015-09-26_203423

Pubblichiamo il testo che ho preparato per il mio intervento ad Atreju di sabato 26 settembre, e che non ricordo se ho pronunciato esattamente, mi sa di no perché mi hanno detto di tagliare prima ancora che aprissi bocca, ma non sapevo che tagliare così ho fatto secondo l’antica arte giapponese dell’origami (sono andata a caso), e anche perché ero un po’ in difficoltà per la platea molto diversa da quelle davanti alle quali parlo di solito (credo che il disorientamento fosse reciproco: mi guardavano come una marziana). Ne approfitto per dire che, e non è certo per prendere le distanze dal graditissimo invito che mi ha fatto Giorgia Meloni, il mio andare lì non significa in nessun modo un mio schierarmi nella politica intesa come appartenenza partitica. Ricordo che ad Atreju è andato anche Bertinotti. E io sarei andata anche alla festa dell’Unità o di qualsiasi altro schieramento che avesse avuto voglia di ascoltarmi (la verità è che non mi ha invitata nessun altro). Avrei detto esattamente le stesse cose in qualsiasi altro contesto (una difesa dell’Humanae Vitae alla festa di SEL sarebbe stata divertente, effettivamente…), e ne approfitto per chiarire, visto che qualcuno me lo ha chiesto, che non ho nessuna intenzione di fare politica attiva a un livello più alto della riunione condominiale e del consiglio di classe né ora né mai: non ne sarei capace e non mi piacerebbe farlo.     C.M.
di Costanza Miriano
Innanzitutto vorrei dire che il linguaggio della politica proprio non mi appartiene. Mi ritrovo qui perché ho cominciato a scrivere dei libri che peraltro pensavo destinati alle mie amiche, alle cugine e alle zie, sul matrimonio, sulla differenza tra maschi e femmine, contro la retorica del vittimismo femminile e contro gli inganni del femminismo e della falsa emancipazione e della liberazione sessuale, che ci ha rese in realtà più schiave di prima. Poi mi sono ritrovata a parlare davanti a un milione di persone, e non erano tutte mie cugine, contro il disegno di legge Cirinnà. Ancora non so bene come ci sia finita. La cosa che mi ha spinto a farlo è solo che sono una mamma, non è che all’improvviso mi senta una maître à penser. Dirò solo cose di buon senso come di solito le mamme, tipo spegni quel coso, metti il golfino, anche se in realtà i miei figli sostengono che la mia frase ricorrente sia “vai a fare qualcosa che non ti piace, soffrire tempra il carattere”. Cioè, voglio dire, basta essere una mamma, non è che ci voglia una grande elaborazione di pensiero per capire alcune cose. Per esempio che in quella legge verrebbe eretto – non so se devo usare il passato, sarebbe stato eretto, ma per scaramanzia no, non lo uso – a sistema il desiderio, trasformato in diritto. Desidero una famiglia, desidero un figlio, quindi ho diritto ad averlo, se posso pagare. Una mia amica chiede una legge di iniziativa popolare sul diritto al marito: pagando si vedrebbe consegnare un marito che sia sano, controllato geneticamente, quindi senza ammaccature e non usato. Il fatto è che la realtà non funziona così: non tutto quello che desideriamo ci è consentito perché abbiamo dei limiti, dobbiamo fare i conti con la realtà, con le circostanze, con la nostra storia, anche. Alcuni sono superabili, tipo i capelli bianchi, altri no perché hanno a che fare con il bene comune (io se ho dei capelli giallo topo non faccio male a nessuno).
Nel caso specifico, tocca fare i conti con il fatto che i figli vengono, se vengono, solo da un maschio e da una femmina. Ma non vorrei fossilizzarmi su questo tema che è stato messo in agenda dalle leggi in Parlamento, ma che per me non è così al centro. Credo però che il confronto e la riflessione su quella legge siano stati molto utili a smascherare quello che secondo me è il tema di fondo della cultura contemporanea. Fino al ‘900 gli individui si sentivano costretti a reprimere il piacere, i desideri, il godimento, per rispondere ai limiti e ai divieti imposti dal sociale e anche introiettati, quindi percepiti come limiti interiori, e tutta la psicanalisi in definitiva è stata una lotta a questo, un superamento e una liberazione dal limite. L’uomo che voleva sentirsi libero di trovare se stesso.
Oggi, per l’uomo post moderno, l’inconscio è talmente sdoganato e liberato, che la condanna è diventata di segno contrario, siamo addirittura condannati all’eccesso, al dover godere per forza, a essere privi di regole e alla ricerca affannosa del piacere senza alcun senso del limite, per non parlare del peccato. Tutto il sistema di relazioni, liquide o nebulose come le vogliamo chiamare, risponde a questo, sto con te finché mi fai stare bene, ma anche il modo di consumare – il nostro sistema economico si regge sulla creazione di desideri indotti, tu entri in un centro commerciale per un paio di calzini ne esci con un imperdibile paio di ciabatte a forma di alce, un boa di marabu fuxia, un arnese per tagliare l’ananas e in fondo ne hai diritto, chi non ha diritto alle ciabatte a forma di alce?– il modo di comunicare, con la sua velocità e l’illusione di poter avere accesso a tutto e sempre, e anche lo spettacolo: per esempio i cartoni per bambini sono un continuo fuoco di artificio di trovate. Addirittura le risate registrate ci dicono che dobbiamo divertirci per forza, e anche in quale punto esatto. È la tirannia del desiderio.
Le leggi non possono assolutamente essere complici di questa visione dell’uomo come portatore solo di desideri, e non possono difendere i desideri dei più grandi, e di quelli che possono decidere e pagare, non possono avallare l’idea che i bambini siano un diritto dei grandi, ma devono ricordare che al contrario sono i deboli, i bambini ad avere diritti, perché sono i soggetti deboli e sono quelli che vanno tutelati. La legge deve essere una difesa del bene comune, e quindi prima di tutto dei più deboli, i bambini, che hanno diritto a un padre e a una madre, e hanno diritto di conoscerli, hanno diritto alla loro storia familiare, che devono poter conoscere, perché è da lì che vengono ed è quello il patrimonio che portano dentro di sé.
Ma, come dicevo, il piano politico non è quello che mi è più caro, a me interessano le persone. Per cui mi chiedo, cosa vuol dire desiderare. Viene da sidus sideris, stella, attendere sotto le stelle. Parla dei soldati accampati che aspettano i rinforzi sotto le stelle, quindi nella notte, magari al freddo, magari con la paura dell’attacco nemico. Ecco, l’attesa è esattamente il contrario del diritto: attesa di qualcosa che ci manca versus richiesta di quello che è nostro, ci spetta.
Ogni desiderio va accolto e ascoltato, perché è per noi, perché dice qualcosa di noi. Accolto ma non soddisfatto immediatamente, senza la mediazione della coscienza, cioè un giudizio della ragione rettamente formata. Perché, è vero, c’è la dittatura del desiderio, non c’è più il senso del peccato, ma ci sono sempre le conseguenze del peccato: anche se tu dici che non c’è un burrone, anche se non lo vedi o non lo vuoi vedere, il burrone c’è e non è che non ci cadi dentro, non è che poi non ti faccia male.
Il superamento del limite ci fa stare male, ci fa soffrire, e sono contenta di parlare di questo oggi nella prima memoria liturgica del Beato Paolo VI, che scrivendo l’Humanae Vitae ha fatto un capolavoro: proprio nell’anno 1968, in piena esplosione della liberazione sessuale che ci ha lasciato tanto soli, infecondi, disperati, è stato il solo a difendere la bellezza e la grandezza della sessualità umana. È stato l’unico a dire che l’obbedienza custodisce l’uomo, che lo rende più felice, e in tempi di libertà assoluta e di pornosaturazione possiamo tornare a chiederci se avesse ragione, e quanto profetica ed essenziale sia stata la sua enciclica (averla applicata avrebbe salvato la felicità di tante persone…).
Infine aggiungo che per me che sono credente alla fine la risposta vera a ogni desiderio è Cristo, come disse san Giovanni Paolo II: “In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae…”