domenica 30 agosto 2015

Né carne né pesce per i primi cristiani?



Massimo Montanari
Un modello alimentare cristiano non esiste. Secondo la tradizione apostolica non importa cosa si mangia, ma come si mangia. Su questo indaga il volume dello storico Massimo Montanari, Mangiare da cristiani, edito in questi giorni da Rizzoli (pp. 270, euro 22). La storia del cristianesimo è un patrimonio straordinario di consuetudini e di contagi culturali che rimandano alla tradizione ebraica, alla filosofia greca, alla scienza dietetica: dal ruolo del pane e del vino nell’eucarestia al valore di redenzione del digiuno, dalle pratiche alimentari monastiche alle regole dell’astinenza quaresimale. Dal volume anticipiamo alcuni brani sulla disputa “alimentare” fra i Padri della Chiesa che oppose il vegetariano Girolamo, a sant’Agostino, fermo sostenitore della liceità del consumo di carni per i cristiani.

Nasce nel 2009 l’Associazione Cattolici Vegetariani. «Amiamo così tanto il Creato da rispettarlo, amiamo così tanto la vita da non toglierla a nessuno» è il motto che appare nel sito web, corredato di numerose citazioni dalla Sacra Scrittura e dalle vite dei santi «che nella bimillenaria storia della Chiesa hanno fatto della benevolenza per le creature un carisma di carità». Scopo dell’associazione è diffondere «i principi di compassione e carità verso ogni essere vivente», presentati come motivo sostanziale dell’eredità cristiana. In ambito protestante, movimenti che propugnano una dieta “cristiana” di stampo vegetariano sono attivi da oltre un secolo. Li sostiene un mix di suggestioni centrato sui vantaggi del consumatore – sul piano della salute, della “purezza” e, in fin dei conti, della salvezza – oltre che (più che) sulla “compassione” per gli animali.

Sono gli esiti di una storia che viene da lontano, dagli inizi dell’esperienza cristiana, dipanandosi lungo i secoli in modo particolarmente problematico. Perché è particolarmente problematico l’atteggiamento dei cristiani verso il consumo di carne. Il neoplatonico Porfirio, discepolo e biografo di Plotino, attorno al 270 d.C. scrive un lungo trattato sull’Astinenza dagli animali, sviluppando una serie di argomentazioni “animaliste” a cui hanno fatto riferimento anche filosofi e pensatori del nostro tempo, in particolare Peter Singer, il teorico della “liberazione animale” e dei diritti degli animali, primo fra tutti quello di non essere considerati cibo. Una durissima polemica contro Porfirio fu sostenuta da Agostino, che, nel De civitate Dei, rigettò l’idea che il comandamento «Non uccidere» si potesse «estendere anche alle bestie selvatiche e domestiche, sicché non sarebbe lecito ucciderne alcuna». Lasciamo perdere queste «teorie deliranti» (deliramenta), taglia corto Agostino: «Quando si legge "Non uccidere" non si deve intendere che sia stato detto degli alberi da frutto, che non sono senzienti, né degli animali irragionevoli che volano, nuotano, camminano, strisciano: essi non sono simili a noi nella ragione, che non è stato loro dato di avere in comune con noi. Per questo con giustissimo ordinamento del Creatore la loro vita e morte è stata subordinata alla nostra utilità. Rimane dunque che il detto "Non uccidere" s’intende riferito solamente all’uomo».

Ma ecco il paradosso. Mentre Agostino combatte Porfirio recuperando le riflessioni aristoteliche sulla differenza sostanziale fra uomini, animali e piante, un altro Padre della Chiesa, Girolamo, lo utilizza a piene mani per costruire un pamphlet a sostegno della dieta vegetariana. È il trattato contro Gioviniano (Adversus Jovinianum), un monaco romano che, richiamando la lettera del messaggio evangelico e dei testi paolini, sosteneva l’erroneità di scelte come la castità, la pratica del digiuno, l’astinenza dalla carne.

A parere di Gioviniano, fare distinzioni tra un cibo e l’altro e rinunciare alla carne significava rifiutare i doni della Provvidenza e offendere il progetto divino di un mondo organizzato in funzione dell’uomo. La requisitoria di Girolamo contro Gioviniano fu scritta nell’estate 393, quando già il monaco romano era stato condannato da papa Siricio e da un gruppo di vescovi italiani raccolti attorno ad Ambrogio. Essa colpisce per la vastità, ma anche la farraginosità delle ragioni addotte. L’obiettivo è chiaro e assiomatico: «Se vuoi essere perfetto, è bene non mangiare carne». 

La diversità di posizioni fra Girolamo, padre della spiritualità monastica, e Agostino, padre del modello vescovile, rispecchia le due facce di un cristianesimo orientato ora fuori, ora dentro il mondo. Anche sul piano delle scelte alimentari, la contrapposizione fra le due prospettive è sempre netta. Mentre per Girolamo la perfezione consiste nell’astenersi dalla carne, per Agostino è esattamente il contrario: la perfezione consiste nel non avere bisogno di astenersi dalla carne per attingere uno stato di perfezione spirituale. Il modello vincente e culturalmente trainante è quello monastico, quello di Girolamo. Il modello della penitenza, del rifiuto del corpo, dell’astinenza dalla carne. Propagandando il loro modello di vita, i sostenitori dell’astinenza non mancano di precisare che si tratta di un modello “perfetto” non alla portata di tutti. Eppure, mirano a estenderlo a tutti i cristiani.

La possibilità di spiegare in termini di “non-violenza” la rinuncia monastica alla carne potrebbe essere confortata dall’apprezzamento che quella tradizione mostra verso i cibi di derivazione animale (formaggio, uova) intesi come sostituti funzionali della carne. Più che (nonostante i proclami) un rifiuto dietetico per i “sostanziosi” prodotti animali, che noi diremmo “proteici”, ciò configura una volontà di distacco dagli alimenti che non provengono da animali vivi. «Nessuno osi assaggiare cibi animali, eccetto i latticini, o di volatili, eccetto le uova»: era questa la regola nel cenobio di Condat, ci informa un testo agiografico del primo Medioevo. Lo stesso tabù del sangue (identificato, secondo la tradizione ebraica, con la vita dell’animale) potrebbe essere letto in questo senso. «Delle creature che hanno sangue e calore di vita», leggiamo nella Storia lausiaca a proposito di una santa donna di nome Candida, «ella non volle assolutamente far cibo, ma si limitò a prendere del pesce e delle verdure condite con olio nei giorni di festa». Quasi che il pesce, frigido e (in apparenza) privo di sangue, non condividendo il «calore di vita» degli altri animali, fosse in qualche modo assimilabile ai cibi inanimati come le verdure. Lo stesso forse vale per i volatili, meno “sanguinolenti”, meno “vivi” dei mammiferi terrestri: un passaggio di Rabano Mauro propone un parallelo, quasi un transfertlinguistico fra «sangue» e «quadrupedi».

L’ideale di una dieta rispettosa della vita animale traspare anche altrove. In una poesia di Prudenzio (IV-V secolo) il regime alimentare del cristiano è descritto come tipicamente vegetariano e perciò «innocente», innocuus, opposto alla dieta “violenta” di coloro che per imbandire la tavola fanno strage di animali. È il mito del Paradiso che ritorna; lo stesso che suggerisce la connotazione ambiguamente naïf conferita dalla cultura medievale al consumo di verdure, gli olera che, scrive Isidoro di Siviglia, «sono così chiamati giacché furono per gli uomini il primo cibo [fantasioso accostamento di olera ad alere = nutrire], prima che si iniziasse a mangiare carne»: il cibo vegetale si trova così arricchito di una connotazione morale, diventa simbolo delle erbe e dei frutti di cui l’uomo si nutriva in Paradiso prima della caduta. 

Le Vite dei Padri raccontano che il vescovo di Cipro una volta invitò a pranzo l’abate Ilarione e gli fece servire un piatto di volatili. L’ospite rifiutò di mangiarli, dichiarando con orgoglio che, da quando aveva preso l’abito monacale, non aveva più toccato cibo «proveniente da esseri uccisi». Ne seguì una discussione sul valore di tale scelta, alla fine della quale entrambi convennero sul fatto che bontà e carità erano più apprezzabili dell’astinenza dell’abate. In tal modo il paradigma cristiano era salvo. Ma le parole di Ilarione, che professava rispetto per ogni genere di vita, ci fanno capire, o meglio intuire, che accettare con tranquillità l’uccisione degli animali era un imperativo ideologico con cui molti cristiani faticavano a convivere. La cosa è durata fino a oggi, ampliando progressivamente il “pubblico” di questo dibattito e ribadendo, nei secoli più vicini a noi, la diversità di prospettive (ma anche le oggettive coincidenze di obiettivi) tra pensiero cristiano, scienza e filosofia.
Avvenire