sabato 29 agosto 2015

Il grido dei cristiani invoca solidarietà




Appello del cardinale Amato alla beatificazione in Libano.  

Come accadeva cent’anni fa, «le tenebre sono calate in molte terre di antica civiltà cristiana» e i fedeli vengono «discriminati, perseguitati, cacciati, uccisi». Anche le loro case vengono segnate «non con il sangue dell’agnello pasquale per essere salvate, ma con la “N” rossa (che significa nazareni, cristiani), a indicare la loro condanna». È la denuncia del cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, che sabato, 29 agosto, a Daroun-Harissa, in Libano, ha presieduto — in rappresentanza di Papa Francesco — la beatificazione di Flavien Mikhaiel Melki, della congregazione di Sant’Efrem, vescovo di Djezireh dei Siri.
Nel messaggio letto durante la celebrazione il porporato ha ricordato che, come ai tempi del martirio di monsignor Melki, ai cristiani oggi «viene negata ogni libertà, costretti ad abbandonare la loro patria o a convertirsi forzatamente o a morire». In realtà, ha aggiunto, è «la morte che domina sovrana nella mente e nei cuori di pietra dei persecutori, che non sopportano la civiltà cristiana della libertà, della fraternità, del rispetto del prossimo, della giustizia, della carità». Purtroppo, è la constatazione del cardinale, molti cristiani «in Medio oriente, ma anche altrove, soffrono il tramonto di una civiltà umana di convivenza pacifica. Per loro non c’è libertà, ma solo oppressione cieca e violenta». Tuttavia, questi «fratelli non vogliono arrendersi al terrore, ripetendo con coraggio e grande fede: “Il Signore è il mio pastore”». 
I cristiani orientali, ha aggiunto il porporato, hanno «una fede sincera e profonda. L’Eucaristia costituisce la loro energia divina». Nella celebrazione eucaristica «il pane è simbolo della vita, della terra ma anche del dolore e della sofferenza: il chicco di grano viene infatti macinato per diventare farina e pane eucaristico». Il vino è invece «simbolo della vittoria, della risurrezione, della gioia, dell’amore». Per questo, i cristiani, sostenuti dall’Eucaristia, «vincono l’orrore con l’amore, consapevoli che l’amore è più forte dell’odio». 
Tuttavia, ha sottolineato, di fronte «all’ingiusta oppressione che distrugge la loro vita, un grido si innalza dal loro cuore per invocare vicinanza e solidarietà dai fratelli di tutto il mondo». 
I cristiani in Medio oriente hanno bisogno «della preghiera e del sostegno morale degli altri cristiani, ma anche della loro presenza concreta». 
La beatificazione del vescovo Melki è dunque, secondo il cardinale, «un segno concreto della materna attenzione e partecipazione della Chiesa al dramma dei nostri fratelli». Ed è anche «un dono di Papa Francesco per far conoscere a tutto il mondo il valore umano e cristiano di questo eroe di Cristo» e per «infondere coraggio e speranza ai fratelli umiliati e offesi dagli odierni oppressori». 
La Chiesa, ha detto il porporato, «piange per i suoi figli uccisi o costretti a rinnegare la loro fede e si rallegra per tutti coloro che hanno conservato intatta la fede e che, esuli nel mondo, diventano portatori di Vangelo in una civiltà, come quella occidentale, bisognosa di testimoni credibili di Dio».

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Da segno di persecuzione a simbolo di fede. Quella “N” sulle tende dei rifugiati 

Una “N” sulle tende. Come “nazareno”. Il segno usato dagli estremisti islamici per segnalare le case degli “infedeli”. Ora simbolo di orgoglio, di appartenenza. Lo disegnano i rifugiati, i cristiani cacciati dalle zone dell’Iraq dove il sedicente Stato islamico ha preso il sopravvento.
Lo racconta don Georges Jahola, sacerdote siro-cattolico della diocesi di Mosul, in questi giorni in Italia, invitato dall’associazione “Angelo custode”. Nei campi profughi di Erbil — continua — «dove molti cristiani sono stati costretti a rifugiarsi in fuga da Mosul e Qaraqosh, nessuno ha avuto paura di scrivere nelle tende che li ospitano frasi come “Gesù è luce nel mondo”, o la lettera “N” in caratteri arabi che significa nazareno. Non hanno paura di essere scoperti, sono coraggiosi e fieri».
Degli oltre un milione e mezzo di cristiani che l’Iraq contava negli anni ’80, oggi ne sono rimasti trecentocinquantamila. Ora, racconta don Jahola, «siamo l’1,5 per cento della popolazione. Una popolazione che sta per essere eliminata o costretta ad abbandonare la propria terra». Nessuno bada a questo dramma, «perché i cristiani in Iraq non hanno appoggi», «non sono considerati elementi essenziali nella società».
Nonostante il pericolo della scomparsa i cristiani non hanno nessuna intenzione di abbandonare la loro fede: «Non c’è motivo per cui un cristiano debba diventare musulmano. Non lo vogliono fare».

L'Osservatore Romano