martedì 30 giugno 2015

Le traiettorie dell’islam radicale.


Pubblichiamo in una nostra traduzione uno stralcio del saggio «Les trajectoires des jeunes jihadistes français» di Farhad Khosrokhavar, contenuto nel numero di giugno della rivista francese «Études». L’autore, sociologo e accademico iraniano, è dal 1998 direttore dell’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi. Tra le sue opere, ricordiamo L’islam des jeunes (1997), Les nouveaux martyrs d’Allah (2002), L’islam dans les prisons (2004).
(Farhad Kosrokhaver) Lo jihadismo è un fenomeno che risale all’ultimo quarto del XX secolo. Un po’ ovunque, degli individui si radicalizzano e tentano di compiere attentati al fine dii lottare contro l’eresia e l’empietà (kufr), di denunciare atti di profanazione dell’islam. Molti di loro sono cresciuti in Europa. Spesso sono di origine musulmana, ma sono sempre più numerosi i convertiti. Dall’inizio della guerra civile in Siria (2013) si sta diffondendo una nuova forma di jihadismo e i suoi nuovi protagonisti hanno caratteristiche diverse rispetto al passato. 
In Francia, e più in generale in Europa, il terrorismo nel nome di Allah è un fatto ultraminoritario tra i musulmani. La sua portata non ha alcun rapporto con il numero effettivo delle persone uccise, sconvolgendo però la società e generando una crisi profonda al livello delle assise simboliche dell’ordine sociale.
Gli attentati pongono la questione dello jihadismo e della sua ideologia estremista, ma anche, e soprattutto, dell’attore jihadista, che passa all’azione e commette i suoi crimini a sangue freddo. Da dove nasce la sua decisione? Come comprendere la sua frenesia in una carneficina che spesso si conclude con la sua stessa morte, che ha a lungo premeditato come atto di compimento del suo destino nel martirio? 
Chi sono questi attori? È possibile distinguere diverse categorie di islamisti radicali in Europa, che hanno come tratto comune quello di essere “terroristi di casa”, vale a dire giovani scolarizzati ed educati nei Paesi europei. Ci sono anzitutto i giovani dissociati (quelli delle banlieue). A questi si aggiungono, soprattutto dal 2013, giovani del ceto medio. La terza categoria è costituita da ragazze o giovani donne.
La soggettività dei giovani dissociati che abbracciano l’islam radicale è caratterizzata da un tratto fondamentale: l’odio verso una società che percepiscono come profondamente ingiusta nei loro confronti. Vivono l’esclusione come un fatto ineludibile, uno stigma che hanno sul loro volto, nel loro accento, nella loro lingua, come anche nella loro postura fisica, percepita come minacciosa dagli altri cittadini. Sono in rotta con la società e respingono ogni divisa (anche quella del vigile del fuoco) come emanazione di un ordine repressivo. La loro identità si declina nell’antagonismo rispetto alla società degli inclusi, francesi, gaulois o anche persone di origine nordafricana che sono riuscite a sollevarsi al livello dei ceti medi. Stigmatizzati agli occhi degli altri, provano un senso profondo della propria indegnità. Ciò si traduce in un’aggressività a fior di pelle, non solo verso gli altri, ma anche, e spesso, verso membri della propria famiglia, soprattutto il fratello più piccolo o la sorella più giovane che osa uscire con un ragazzo.
Il ghetto della banlieue si trasforma in una prigione interiore. Quei giovani mutano il disprezzo verso se stessi in odio verso gli altri, e lo sguardo negativo degli altri in uno sguardo sprezzante su di loro. Mirano anzitutto a caratterizzare la loro rivolta con atti negativi piuttosto che cercare di denunciare il razzismo impegnandosi socialmente. Rinchiusi nel loro quartiere o anche solo all’interno di qualche isolato, i giovani esclusi trovano la via d’uscita nella delinquenza e nella ricerca di denaro facile per vivere secondo l’agognato modello delle classi medie. Talvolta le superano, appropriandosi di somme più o meno importanti che dilapidano con i propri compagni, a costo di reiterare l’atto di delinquenza che diventa progressivamente criminale. Il male di cui più soffrono sono la vittimizzazione e la certezza che l’unica via d’accesso al livello dei ceti medi sia la delinquenza, giacché la società, secondo loro, ha chiuso tutte le altre uscite.
Come l’odio trova una via di fuga nella delinquenza, così si placa con l’accesso, per brevi periodi, all’agio materiale seguito dalla dissipazione dei beni acquisiti illegalmente. Ma per una piccolissima minoranza la devianza da sola non basta; hanno bisogno di una forma di autoaffermazione che combini diverse caratteristiche: la riscoperta della dignità perduta e la volontà di affermare la loro superiorità sugli altri mettendo fine al disprezzo di sé. La trasformazione dell’odio in jihadismo sacralizza la rabbia e fa loro superare il proprio malessere attraverso l’adesione a una visione che rende loro “cavalieri della fede” e gli altri “empi” non degni di esistere. Il cambiamento esistenziale è così compiuto, il sé diventa puro e l’altro impuro. L’islamismo radicale opera un’inversione magica, che trasforma il disprezzo di sé in disprezzo dell’altro e l’indegnità in sacralizzazione di sé a scapito dell’altro.
Nel percorso jihadista dei giovani delle banlieue, il carcere svolge un ruolo essenziale, non tanto perché lì ci si radicalizza, quanto per la ragione fondamentale che esso offre la possibilità di maturare l’odio per l’altro nei rapporti quotidiani, intessuti di tensione e di rifiuto dinanzi all’istituzione carceraria. Ogni volta che si trasgrediscono le regole interne della prigione, le sanzioni ricordano l’esistenza di un sistema del quale si contesta la legittimità a causa di questo grande sentimento d’ingiustizia che si annida nel profondo del cuore. La prigione fa rinsavire alcuni giovani, ma la maggior parte di loro vi trova un motivo in più per odiare la società.
Un ultimo fatto convince l’apprendista jihadista della legittimità della causa che difende, ovvero il viaggio iniziatico in un Paese del Medio Oriente nel quale prevale la “guerra santa”. Merah è stato in Pakistan, in Afghanistan e in altre regioni dove imperversa l’islamismo radicale. Nella maggior parte dei casi, il viaggio iniziatico conferma il giovane jihadista nella sua nuova identità, facendogli riallacciare rapporti, in modo mitico, con le società musulmane, delle quali però non parla la lingua né condivide le usanze. Questo viaggio gli fa imparare come maneggiare le armi. Allo stesso tempo gli permette di diventare estraneo alla propria società. Impara soprattutto a diventare crudele, a giustiziare in modo professionale e senza emozioni gli ostaggi e gli individui da lui incriminati (poliziotti e militari, ebrei, “cattivi musulmani”), in sintesi: a diventare un vero combattente agguerrito della jihad iperbolica, che non arretra davanti a nessun ostacolo morale nel mettere a morte i “colpevoli”.
La neo-umma è un’utopia tanto pericolosa quanto quella della società senza classi o quella del paradiso in terra e, come tutte queste utopie, il pericolo che rappresenta è di fare violenza alla realtà. Nella neo-umma viene negata l’evoluzione delle società musulmane e il ritorno puro e semplice ai Salaf (compagni del Profeta) viene esaltato in una forma che riporta a pratiche abbandonate da tempo.
Il giovane jihadista prova un bisogno irrefrenabile di fare corpo con la neo-umma contro la propria società disprezzata. Per risollevarsi ai propri occhi, l’islam jihadista gli offre lo status di eroe assoluto rivestito del prestigio del martirio che incarna in quanto mujahid (combattente della fede, stessa radice di jihad). Uccide, incute paura, si fa odiare e trae orgoglio dalla nuova statura conquistata occupando la prima pagina dei mezzi di comunicazione. Supera l’anonimato e l’insignificanza con il fascino malsano che esercita sui media, pronti a diffondere l’immagine dell’eroe negativo, che apprezza tanto più in quanto ispira una paura assoluta negli altri. È pronto a uccidere, e perfino a morire, mentre gli altri temono per la propria vita. Dunque è superiore a loro.
Prima dell’inizio della guerra civile in Siria (2013) i giovani jihadisti provenivano solo eccezionalmente dai ceti medi. Da allora essi formano, accanto ai giovani delle città, una parte importante degli jihadisti in erba che si sono precipitati in Siria per mettersi al servizio dello Stato islamico (Daech) o di altri gruppi jihadisti come il Fronte della vittoria (Jihat al Nusra), affiliato ad Al Qaida. In base alle statistiche disponibili, si ritiene che tra i 2000 e i 4000 giovani europei siano partiti per la Siria e numerosi tentativi di partenza verso quel Paese (soprattutto attraverso la Turchia) sono stati evitati dopo la promulgazione di leggi volte a impedirli.
Questi giovani, spesso adolescenti non risolti, ingrandiscono l’armata di riserva della jihad, convertendosi all’islam radicale un po’ da tutte le religioni: cristiani disincantati che sono alla ricerca di sensazioni forti che il cattolicesimo istituzionale non è in grado di far loro provare, ebrei secolarizzati nel loro giudaismo privo di ancoraggio religioso, buddisti provenienti da famiglie francesi da poco convertite al buddismo e che cercano un’identità rinvigorita al servizio della guerra santa in contrasto con la versione pacifista di questa religione in Europa. Diversamente dagli jihadisti delle banlieue, questi giovani dei ceti medi non provano odio verso la società, né hanno interiorizzato l’ostracismo con cui la società ha schiacciato i primi. Non vivono nemmeno il dramma di una vittimizzazione che rende nera la vita.
Il loro problema è quello dell’autorità e delle norme. L’autorità è stata diluita dalla famiglia allargata e il diritto del bambino ha creato un pre-adulto, che al tempo stesso può essere un adolescente che non cresce. La combinazione tra la logica dei diritti, la dispersione dell’autorità tra diverse istanze genitoriali e una società in cui le norme hanno perso il loro vigore (comprese quelle repubblicane) fa sì che vi sia un’attesa di regole. Una minoranza di questi giovani soffre per il fatto di avere diversi vaghi tutori, ma nessuna autorità distinta. Vorrebbe poter ridisegnare i confini tra ciò che è permesso e ciò che è vietato in forma esplicita. Le norme islamiste propongono loro questa visione in bianco e nero, in cui ciò che è vietato si declina con la massima chiarezza. L’islamismo radicale permette a questi giovani di unire il divertimento ludico e la serietà mortale della fede jihadista. Dà loro la sensazione di conformarsi a norme intangibili, ma anche di essere l’agente dell’imposizione di tali norme al mondo, di invertire il ruolo dell’adolescente e dell’adulto. In breve, di essere colui che instaura le norme sacre e le impone agli altri, pena la “guerra santa”.
Questa gioventù innamorata della jihad incarna gli ideali di un anti maggio 1968. I giovani di allora cercavano l’intensificazione dei piaceri nell’infinito del desiderio sessuale riconquistato. Ora si cerca di inquadrare i propri desideri e di imporsi a essi attraverso un islamismo rigorista, a restrizioni che nobilitano ai propri occhi. Allora si cercava di liberarsi delle restrizioni e delle gerarchie impossibili; ora le si reclama con ardore, si esigono norme sacre che sfuggono al libero arbitrio umano e si fanno forti della trascendenza divina. Si aspira a esse e le si sacralizza secondo la guerra santa.
All’epoca si era anarchici e si odiava il potere patriarcale. Attualmente, in una società priva di significato, l’islamismo radicale, attribuendo un posto alla donna e un posto all’uomo, riabilita una visione distorta del patriarcato sacralizzato in riferimento a un Dio inflessibile e intransigente. Fa il contrario di un repubblicanismo rammollito o di un cristianesimo troppo umanizzato. Maggio del 1968 era una festa ininterrotta che si prolungava nel viaggio esotico fino a Kathmandu o in Afghanistan. Attualmente, il viaggio iniziatico è una ricerca di purezza nell’affrontare la morte nel nome del martirio.
Accanto a questi fantasmi di regole sacralizzate si trova anche la ricerca di giustizia per un Paese, la Siria, dove un regime sanguinario ha ucciso 200 mila persone e ha costretto diversi milioni a errare nei Paesi vicini. Laddove l’Occidente mostra la propria impotenza dinanzi alle dittature, questi giovani, armati di una fede ingenua, intendono lottare contro il male nel nome di un jihadismo del quale non rilevano l’aspetto mostruoso e disumanizzante. La transizione può avvenire in maniera progressiva, come è accaduto con alcuni membri della gang di Roubaix che, sull’esempio di Christophe Case, si sono impegnati in ambito umanitario prima di trasformarsi in islamisti radicali.
Nei ceti medi, l’attrattiva del jihadismo deve essere intesa sia attraverso l’attrazione di un mondo irenistico che lo Stato islamico fa balenare davanti agli occhi dei giovani sia attraverso il sentimento di vuoto che li assale in un universo dal quale il sacro è bandito in forma quasi incosciente. La perdita del senso del religioso istituzionalizzato rende l’immaginario pronto a cercare nell’ignoto di nuovi orizzonti sacri. La de-istituzionalizzazione del cristianesimo in Francia, e più in generale in Europa, “inselvatichisce” il religioso e apre la ricerca di significato al settarismo sotto ogni sua forma. Per alcuni si tratta di una forma di emancipazione, ma per altri dall’assenza di riferimenti riguardo il sacro deriva un senso angosciante di abbandono. La ricerca di un islam jihadista unisce diversi registri, che si attengono all’esotismo di una fede che propone un senso solido del sacro, e la cui stessa intransigenza rompe con la diluizione del sacro nella società contemporanea.
Tutto avviene come se una parte dei giovani del ceto medio combinasse la ricerca dell’avventura, il romanticismo rivoluzionario, l’aspirazione a fare l’esperienza dell’alterità (il sacro) e la volontà di mettersi alla prova sottomettendosi spontaneamente a una forma repressiva di gestione del significato. Nelle società europee, dove l’iper-secolarizzazione è sinonimo della negazione di ogni trascendenza, il sacro ritorna in una configurazione oppressiva, tanto per il desiderio di mettersi alla prova nel contatto con l’altro (l’esperienza dell’alterità totale), quanto per abbracciare la felicità in rottura con il grigiore di una società, nella quale una parte della gioventù soffre del “male del livellamento”. 
Dall’inizio della guerra civile in Siria si assiste, in Europa e in particolare in Francia, alla comparsa di un nuovo tipo di jihadismo femminile. Molte di queste combattenti sono adolescenti o post-adolescenti, accanto ad altre giovani donne di una ventina o una trentina d’anni. Appartengono in maggioranza ai ceti medi. Infine sono prevalentemente convertite: dal cristianesimo, dal giudaismo (alcuni casi), ovvero dal buddismo, oppure provengono da famiglie agnostiche o atee.
Contrariamente ai nuovi jihadisti provenienti dal ceto medio, esse non hanno come motivazione principale l’odio sociale. Sono diversi i motivi che le spingono a partire. Anzitutto una ragione umanitaria: i fratelli nella religione (i sunniti) avranno bisogno d’aiuto dinanzi a un potere eretico. C’è anche l’immagine idealizzata dell’uomo da parte di una gioventù femminile disincantata riguardo al femminismo delle loro madri e delle loro nonne. C’è una sorta di idealizzazione della virilità maschile di colui che si esporrà alla morte e che, in questo confronto, si mostrerà virile, serio e sincero. Questi tre aggettivi danno un senso al marito ideale. Sarebbe, per cominciare, capace di restituire l’immagine della mascolinità, fortemente appiattita a causa proprio dell’evoluzione della società; in secondo luogo sarebbe serio, poiché combattendo contro il nemico mostrerebbe il suo impegno definitivo, a differenza di quei giovani che mostrano tratti di immaturità e di volatilità agli occhi di giovani donne che sembrano aver detronizzato l’immagine del padre. Infine, la sincerità sarebbe il terzo tratto fondamentale di questi giovani: poiché accettando di arrivare fino alla morte per il loro ideale, sarebbero sinceri con la loro donna, venendo il loro grado di affidabilità misurato con la loro capacità di mostrare la loro autenticità sul campo di battaglia.
Questo tipo di giovane, che incarna le virtù cardinali della veracità, sarebbe il tipo d’uomo ideale da sposare per sfuggire al disagio dell’instabilità e della crescente fragilità che caratterizza le coppie moderne. Spesso provenienti da famiglie allargate in Francia, avendo vissuto l’esperienza della precarietà dei legami coniugali dei loro genitori e constatato il livellamento della condizione maschile nel divorzio, esse finiscono col rifiutare l’immagine sia dell’uomo sia della donna, prevalente nella società moderna. Si mettono alla ricerca di un’utopia antropologica, in cui il sentimento di fiducia e la sincerità assoluta di coniughino con una “buona ineguaglianza”.
Lo jihadismo manifesta un intreccio di problemi sociali e di questioni antropologiche. Mostra la dimensione sempre più globalizzata dell’immaginario e della soggettività, specialmente nelle nuove generazioni. La ricerca di una nuova utopia e il senso di profonda ingiustizia si uniscono nella ricerca della felicità individuale e dell’avventura. In questa situazione, ciò che accomuna le tre categorie di giovani (i giovani delle banlieue, quelli delle classi medie e le giovani donne) è, per quanto possa sembrare paradossale, la morte, che diventa la categoria direttrice della loro psiche tormentata. In questa prospettiva, la morte è l’unico punto in cui si annoda e si snoda un destino fondato sul rifiuto subito dagli altri, che si traduce nel rifiuto degli altri, coniugando questa doppia dialettica in una volontà di morire che rovescia il vettore della vita, collegando il desiderio di morire con quello di far morire l’altro, l’avversario, il mondo che circonda il giovane ribelle che vive ormai per abbracciare la sorte dell’eroe negativo.
L'Osservatore Romano