lunedì 25 maggio 2015

Prete, non burocrate



Due anni fa la beatificazione di padre Pino Puglisi. 

(Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace) «Venti, sessanta, cento anni la vita. A che serve, se sbagliamo direzione?». Don Pino Puglisi è morto ormai da più di venti anni. Ma il parroco di Brancaccio, beatificato il 25 maggio 2013, non ha smesso di parlare al mondo con il linguaggio dell’attualità, della coerenza, della concretezza, nella direzione giusta.
Nei giorni scorsi, al Festival delle religioni, a Firenze, la sua figura è stata al centro di un incontro al quale hanno preso parte Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, e Paola Severino, già ministro della Giustizia. «Andare oltre», il tema della manifestazione. E uno che è andato “oltre” è stato certamente il presbitero palermitano. Non solo per aver interpretato la pluralità come un valore. Non tanto per aver ribadito, sul piano culturale, la contrarietà a ogni forma di guerra nel nome di Dio. Non certo per essere stato un “professionista dell’antimafia”, nel significato che tale accezione ha nelle cronache e, per molti versi, nell’uso che va di moda. Nulla di ciò, molto di più. Soprattutto, molto di diverso. 
Puglisi, utilizzando le categorie proprie di un pastore, ha posto la Chiesa di fronte al bivio della scelta: da che parte stare, di fronte alla mafia e ai mafiosi che, spesso, scimmiottano linguaggi e gesti devozionali e religiosi? Che rapporto avere con un’organizzazione spietata e immorale che, attraverso i suoi adepti, si professa — ma solo a parole — credente, almeno esteriormente, frequentando le chiese, vestendo i panni dei padrini, sponsorizzando le devozioni popolari, guidando le processioni, abbondando di immaginette sacre e testi biblici e persino usando nei propri rituali forme marcatamente religiose? 
La risposta di Puglisi è stata chiara, netta. Troppo, per le donne e gli uomini delle cosche, e perciò pagata al prezzo della vita: con la mafia non si può convivere, facendo finta che si tratti soltanto di zizzania. Con la mafia la Chiesa non può mostrarsi tollerante, sebbene distinta e distante. Ma neppure basta solo combatterla, verbalmente, civilmente, fino a far diventare questo impegno quasi una professione. La mafia si batte, ha testimoniato Puglisi, andando oltre questi modi d’essere e di pensare. Del resto, la decisione e lo stile cristiani che condussero al martirio “tre p” (come lo chiamavano gli amici: Padre Pino Puglisi) non possono essere confinati schematicamente nell’essere contro qualcuno o qualcosa. Il sacrificio cruento di quel prete, piuttosto, insegna il vero stile della militanza cristiana, che non eleva barricate o frontiere, ma parla il linguaggio dell’amore di Dio verso la Chiesa e il mondo, anche il mondo infettato dal male, la sua lotta al quale non è mai stata violenta, ma intesa come missione volta a educare tutti ad una rinascita, una strategia che si difende contrattaccando in maniera atipica: con la forza della fede e promuovendo la dignità delle donne e degli uomini. 
Pino Puglisi camminava armato solo della fede: grazie a essa s’impegnava ad accorciare distanze, a smorzare veleni, a far prevalere con coraggio giustizia e libertà. Incurante delle angherie e delle prepotenze degli “uomini d’onore” e dei lori sicari, egli continuava a vivere con la forza della grazia di Dio il suo ministero: ed era voce, volto e presenza dell’amore di Dio. E con l’intensità e la costanza di un martello pneumatico martellò i boss proponendo loro l’esempio di una vita coerente, la predicazione e il costante, pressante invito all’educazione, alla formazione dei giovani e dei fedeli, così svuotando dall’interno il prestigio e il potere dei boss, che invece costruiscono il proprio potere sull’ignoranza e sulla marginalizzazione, anche culturale, di ceti più deboli. Andò oltre la denuncia, per formare coscienze libere: quando parlava di onestà, legalità, giustizia, fede, veniva creduto da chi gli stava attorno solo perché egli stesso, con le sue opere e la sua vita, era esempio quotidiano e coerente di quanto affermava e predicava, fino a diventare contagioso per le famiglie, i giovani e i ragazzi della sua parrocchia, mostrando che si poteva vivere diversamente, senza coperture, comparaggi, prepotenze, affari loschi.
Questo era lo sguardo di don Puglisi, un gigante sulle cui spalle salire per vedere meglio che fare e dove andare, da vero profeta che sa annunciare la possibilità di un mondo diverso. Credente ideale, capace di leggere i segni dei tempi, ha lottato contro gli scettici e i rassegnati, smentendo — anche certi membri del clero — i predicatori del formalismo, per i quali la parrocchia è solo registri, certificati, svolgimento di pratiche, come se il sacerdozio fosse un impiego da burocrati e i preti fossero dei “funzionari del culto”. 
Un prete così, un martire della fede, è quel che serve, oggi come ieri, per mostrare che si crede nei fatti: sdegno per la realtà delle cose che non vanno e coraggio di cambiarle, guardando a quel tipo di uomo e di società che Dio stesso sogna e Gesù ci consegna nei Vangeli perché, come diceva spesso, «ciò che importa è incontrare Cristo, vivere con lui, annunciare il suo amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo».
L'Osservatore Romano