giovedì 28 maggio 2015

Perché il Papa dirà sempre no alle nozze gay



di Andrea Tornielli
Il voto irlandese che ha visto trionfare la maggioranza di «sì» in favore del matrimonio omosessuale interroga la Chiesa. Il cardinale Pietro Parolin, «primo ministro» di Papa Francesco, definisce l’esito del risultato referendario irlandese sul matrimonio gay «una sconfitta dell’umanità». 

L’arcivescovo di Dublino, nell’intervista con «La Stampa», aveva commentato a caldo il risultato parlando di «rivoluzione culturale» e spiegando che «la Chiesa deve chiedersi quando è cominciato questa rivoluzione culturale e perché alcuni al suo interno si sono rifiutati di vedere questo cambiamento».  

Mentre il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, intervistato da «Repubblica», parla della necessità di un dialogo «sereno, senza ideologie» su questi temi e aggiunge che l’esito del voto irlandese «pone interrogativi sulla nostra capacità di trasmettere alle nuove generazioni i valori in cui crediamo, capaci di un dialogo che tenga conto della concreta situazione delle persone». Toni e accenti che presentano sfumature diverse e si aggiungono alle interpretazioni sul pensiero di Francesco a questo proposito: il Papa che ha detto «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?», come si pone di fronte alle legislazioni che introducono le nozze tra persone dello stesso sesso?  

Le letture ideologiche, dall’una e dall’altra parte, dimenticano che l’accoglienza verso le persone omosessuali manifestata da Francesco in linea con quanto affermato dal Catechismo della Chiesa cattolica è una cosa, l’approvazione del matrimonio gay è un’altra. 

Da cardinale a Buenos Aires, nel 2010, Jorge Mario Bergoglio aveva preso posizione evitando dichiarazioni pubbliche, ma con due lettere. Nella prima, inviata alle suore di clausura di quattro monasteri, affermava che la questione non era «una semplice lotta politica», ma le nozze gay rappresentavano «una pretesa distruttiva del piano di Dio». Nella seconda, inviata al presidente del consiglio dei laici della diocesi, incoraggiava i laici a battersi per i valori cristiani. Quest’ultima venne resa pubblica con il consenso dell’autore, ma anche la prima fu fatta filtrare e fece scalpore. Da Papa, con un riferimento alla teoria del gender applicabile anche alle legislazioni che equiparano il matrimonio tra un uomo e una donna alle unioni omosessuali, ha parlato più volte di «colonizzazioni ideologiche». Appare dunque difficile presentare Francesco come uno sponsor delle nozze gay, magari contrapponendolo alle gerarchie ecclesiastiche. 

È invece evidente come il Papa - ad esempio attraverso la catechesi all’udienza del mercoledì dedicate alla famiglia - voglia presentare in modo positivo la bellezza della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna e la necessità di sostenerla e proteggerla. Puntando a evangelizzare con esempi che attraggono, piuttosto che limitarsi a ripetere condanne, come vorrebbero invece quei circoli cattolici che si sentono vivi soltanto quando hanno un nemico a cui contrapporsi. Certo, la «rivoluzione culturale» del referendum irlandese attesta la difficoltà che la Chiesa ha di trasmettere il suo insegnamento anche in Paesi un tempo «cattolicissimi». Ma la risposta alla secolarizzazione difficilmente potrà passare attraverso battaglie e sterili contrapposizioni. 


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Il teologo su Civiltà Cattolica: sì a deroghe per i divorziati risposati


Lo afferma il domenicano Jean-Miguel Garrigues, intervistato dal direttore della rivista dei gesuiti, spiegando che la Chiesa non è soltanto per i «puri». Una forte critica a padre Fessio per aver scritto che la contraccezione può essere più grave dell'aborto

ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO

«La visione di Francesco è quella di una Chiesa per tutti, perché Cristo è morto davvero per tutti gli uomini, senza eccezioni, non per alcuni», la «legge di gradualità» non significa «gradualità della legge» o relativismo. E senza mutamenti dottrinali è possibile prevedere delle deroghe caso per caso ammettendo i divorziati risposati ai sacramenti. Lo afferma il teologo domenicano Jean-Miguel Garrigues, docente di patristica e dogmatica all’Institut Supérieur Thomas d’Aquin, allo Studio domenicano di Tolosa e al Seminario di Ars, collaboratore del confratello Cristoph Schönborn, oggi cardinale arcivescovo di Vienna, nella redazione del Catechismo della Chiesa cattolica preparato sotto la direzione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger. Padre Garrigues ha dialogato sui temi del Sinodo con padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e la trascrizione del colloquio viene pubblicata sul nuovo numero della rivista. Pur senza nominarlo direttamente, in un passaggio il teologo domenicano stronca le tesi del gesuita statunitense Joseph Fessio, il quale ha scritto che la contraccezione può essere più grave dell'aborto.

«La visione di Francesco - spiega Garrigues - è quella di una Chiesa per tutti, perché Cristo è morto davvero per tutti gli uomini, senza eccezioni, non per alcuni. La Chiesa non è quindi un club selettivo e chiuso: né quello di un ambiente sociale cattolico per tradizione, e nemmeno quello di persone capaci di virtuoso eroismo».
L’obiettivo è «aiutare le anime nella situazione concreta in cui il Signore le chiama».

Il teologo domenicano non indulge ad alcuna forma di relativismo o lassismo: «Penso che perdere la comprensione dei fondamenti della coppia e della famiglia significherebbe voler procedere senza bussola, governati soltanto da una compassione affettiva condannata a cadere in un sentimentalismo irrealista. Per esempio, è una verità insuperabile che tutti i cristiani vivono sotto la legge del Cristo e che a tutti vada applicata l’indissolubilità del matrimonio. Non c’è dunque "gradualità della legge", una finalità morale che varierebbe a seconda delle situazioni del soggetto». Ma, aggiunge, «non significa negare o relativizzare questa verità il fatto di chiedere a coloro che non riescono a seguire questo comandamento del Cristo di non aggiungere al peccato di infedeltà quello di ingiustizia, per esempio non pagando l’assegno di mantenimento in seguito a un divorzio civile. Come diceva re Luigi XV a un cortigiano che si faceva beffe di lui perché continuava a mangiare di magro il venerdì mentre aveva un’amante: "Il fatto di compiere un peccato mortale non autorizza a farne due". Ecco dove si colloca la "legge di gradualità", che invita le persone che, di fatto, non sono capaci di rompere di colpo con un peccato e uscire progressivamente dal male cominciando a fare la parte di bene, ancora insufficiente ma reale, di cui sono capaci. C’è una casistica che verte su quello che definirei come "l’esercizio progressivo del bene". Essa non contraddice in nulla il principio secondo il quale specificamente la legge naturale e la legge di Cristo si applicano in uguale misura a tutti i cristiani».

Garrigues chiede di evitare la pastorale del «tutto o niente», perché «sembra più sicura» ma «porta inevitabilmente a una "Chiesa di puri". Valorizzando prima di tutto la perfezione formale come un fine in sé, si rischia disgraziatamente di coprire di fatto molti comportamenti ipocriti e farisaici».

«Il discernimento penetrante del Papa sulla dinamica personale dei nostri atti umani - spiega ancora il teologo domenicano - non si può confondere banalmente con il relativismo. Sarebbe insensato confondere la "legge di gradualità" — che ha come scopo un esercizio progressivo e sempre finalizzato dell’atto libero verso la virtù — con il relativismo soggettivista di una "gradualità della legge". L’enciclica Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II ha chiuso la porta a questo vicolo cieco. Ma ha lasciato aperto il cantiere dell’esercizio prudenziale dell’atto libero di un uomo peccatore che, salvo una grazia eccezionale, non si moralizza in un solo colpo».

Garrigues propone la metafora del Gps, del navigatore. Quando sbagliamo strada o ci distraiamo, l'apparecchio ricalcola il percorso adattandolo alle nostre esigenze e tenendo conto dei nostri errori, al fine di raggiungere la meta che rimane la stessa. «Ecco: analogamente, ogni volta che deviamo a causa del nostro peccato, Dio non ci chiede di tornare al nostro punto di partenza, perché la conversione biblica del cuore, la metanoia, non è un ritorno platonico all’inizio. Dio ci ri-orienta verso Lui stesso tracciando un nuovo percorso verso di Lui. Notiamo che, come gli indirizzi non cambiano nel Gps, così i fini morali non cambiano nel governo divino. Quello che cambia — e quanto! — è il percorso di ogni persona nel suo libero cammino verso la moralizzazione teologale, e infine verso Dio. Pensiamo al numero di itinerari alternativi che il Gps divino ha dovuto indicare al buon ladrone prima della scorciatoia ultima e supremamente drammatica della croce».

Garrigues, a proposito del documento finale del Sinodo, osserva: «È significativo che uno dei punti che ha suscitato più inquietudine sia l’affermazione secondo cui ci può essere del bene umano in persone che si trovano in unioni di fatto, che o non sono assimilabili al matrimonio, come le unioni omosessuali, o realizzano solo imperfettamente i suoi requisiti, come le unioni civili o le unioni tra uno o due divorziati che si sono risposati. Si misura qui come un certo giansenismo rischi di scivolare nei sostenitori di una "Chiesa di puri"».

«San Tommaso - spiega - fondandosi sul caso del centurione Cornelio in At 10,31 osserva: "Le azioni degli infedeli non sono tutte peccato, ma alcune sono buone". E precisa dicendo che, poiché il peccato mortale non guasta totalmente il bene della natura, l’infedele può fare anche una buona azione in ciò che non comporta l’infedeltà come un fine. Per san Tommaso, anche se senza la grazia non possiamo fare "tutto" il bene che è nella nostra natura, perché essa è ferita non essendo più ordinata al suo fine ultimo, tuttavia possiamo porre degli atti moralmente buoni in questo o quell’ambito della nostra vita, senza che questa diventi moralmente buona nella sua finalità personale».

«Gli uomini possono camminare verso la salvezza del Cristo - aggiunge Garrigues -compiendo una parte non trascurabile di bene morale in una unione imperfettamente matrimoniale. Se le persone non si santificano mediante queste unioni di fatto, possono comunque farlo in queste unioni per tutto ciò che in esse dispone alla carità attraverso l’aiuto reciproco e l’amicizia. Tutti coloro che hanno frequentato divorziati che si sono risposati civilmente e coppie omosessuali hanno potuto spesso constatare questa disposizione talvolta eroica, per esempio in caso di prove fisiche o morali. In che cosa il negare tutto questo renderà più forti le nostre certezze e la nostra testimonianza alla verità?».

Il teologo si chiede inoltre come «una pastorale più misericordiosa verso i "deboli" possa far sì che le coppie "forti" e talvolta eroiche possano sentirsi disprezzate», come molti, anche vescovi, hanno osservato durante e dopo il lavoro sinodale. «Se questo avviene - commenta Garrigues - vuol dire che la loro virtù è troppo basata sul compiacimento di sé e, di conseguenza, è un’"opera morta", perché priva di carità. La carità si esprime invece nella misericordia, ed è capace di unirsi fraternamente a colui che avanza a tentoni sul percorso della sua vita, di riconoscere la parte di bontà che rimane in lui e di portare con lui un po’ del suo fardello».

Il teologo domenicano critica quindi la tesi di padre Fessio, pur senza nominarlo: «La rigidità dottrinale e il rigorismo morale possono portare anche i teologi a posizioni estremiste, che sfidano il sensus fidei dei fedeli e perfino il semplice buon senso. Una recente cronaca giornalistica cita, elogiandola, la lettera di un teologo americano che fa queste affermazioni insensate: "Qual è, in questo caso, il male più grave? È quello di prevenire la concezione — e l’esistenza — di un essere umano dotato di un’anima immortale, voluto da Dio e destinato alla felicità eterna? Oppure interrompere lo sviluppo di un bambino nel ventre di sua madre? Un tale aborto è certamente un male grave ed è qualificato dalla Gaudium et spes come “crimine abominevole”. Ma esiste comunque un bambino che vivrà eternamente. Mentre, nel primo caso, un bambino che Dio volesse vedere venire al mondo non esisterà mai". Con questo ragionamento si ritiene, dunque, più accettabile l’aborto che la contraccezione. Incredibile!»

Questa stessa corrente, secondo Garrigues ha voluto che dalla dichiarazione finale del Sinodo sulla famiglia dell’ottobre 2014 «si ritirasse il riferimento alla "legge di gradualità" che, come le dicevo prima, deve certamente essere spiegata come gradualità dell’esercizio del soggetto e distinta da una "gradualità della legge" nella sua specificazione. Ma questo era già presente in modo significativo nell’Esortazione apostolica post-sinodale di san Giovanni Paolo II Familiaris consortio (1981) ed è applicato nella pratica dalla maggior parte dei confessori e dei padri spirituali che vogliono accompagnare pastoralmente coloro che san Giovanni Paolo II chiamava "i feriti dalla vita"».

Infine, il teologo domenicano propone due esempi significativi avanzando l'ipotesi di una deroga alla disciplina sacramentale che impedisce ai divorziati risposati di accedere ai sacramenti. «Penso ad una coppia della quale un componente è stato precedentemente sposato, coppia che ha bambini e ha una vita cristiana effettiva e riconosciuta. Immaginiamo che la persona già sposata abbia sottoposto il precedente matrimonio a un tribunale ecclesiastico che ha deciso per l’impossibilità di pronunciare la nullità in mancanza di prove sufficienti, mentre loro stessi sono convinti del contrario senza avere i mezzi per provarlo. Sulla base delle testimonianze della loro buona fede, della loro vita cristiana e del loro attaccamento sincero alla Chiesa e al sacramento del matrimonio, in particolare da parte di un padre spirituale esperto, il vescovo diocesano potrebbe ammetterli con discrezione alla Penitenza e all’Eucaristia senza pronunciare una nullità di matrimonio. Egli estenderebbe così a questi casi una deroga puntuale a titolo della buona fede che la Chiesa già dà alle coppie di divorziati che si impegnano a vivere nella continenza». È da notare che in quest’ultima situazione si tratta già di un atto di clemenza circa l’applicazione della legge a un caso concreto, perché, osserva Garrigues, «se la continenza elimina il peccato di adulterio, non sopprime tuttavia la contraddizione tra rottura coniugale con formazione di nuova coppia — che vive comunque legami di carattere affettivo e di convivenza — e l’Eucaristia».


L’altro tipo di situazione proposta «è indubbiamente più delicato», osserva il teologo. «È quello in cui, dopo il divorzio e il matrimonio civile, i congiunti divorziati hanno vissuto una conversione a una vita cristiana effettiva, di cui può essere testimone tra gli altri il padre spirituale. Essi credono comunque che il loro matrimonio sacramentale sia stato veramente tale e, se potessero, cercherebbero di riparare la loro rottura perché vivono un pentimento sincero: ma hanno dei bambini, e d’altronde non hanno la forza di vivere nella continenza. Che cosa fare in questo caso? Si deve esigere da loro una continenza che sarebbe temeraria senza un carisma particolare dello Spirito? Si tratta di domande su cui si dovrà riflettere».

«Per la Chiesa - conclude Garrigues - si tratterebbe di una deroga puntuale a una disciplina tradizionale, fondata certo sull’altissima convenienza sacramentale tra Eucaristia e matrimonio, a motivo sia di un dubbio verosimile sulla validità del matrimonio sacramentale, sia di un impossibile ritorno, de facto ma non di desiderio, allo statu quo matrimoniale anteriore al divorzio. Nei due casi questa deroga interverrebbe a favore di una vita cristiana solidamente costituita».

Il teologo si dice invece contrario a leggi per tutti i divorziati risposati: «Molti sono invece i casi di coppie molto marginali rispetto alla vita cristiana e alla pratica religiosa che reclamano con grande scalpore mediatico un cambiamento della disciplina della Chiesa nei confronti dei divorziati che si sono risposati, prima di tutto perché essa dia un riconoscimento sociale della loro nuova unione, accettando in un modo o in un altro il principio di un nuovo matrimonio dopo il divorzio. Legiferare per loro rischiando di compromettere il significato del matrimonio fedele e indissolubile, che molte coppie cristiane vivono non senza sforzo, significherebbe incoraggiare un’altra forma di questa "mondanità spirituale" che il Santo Padre giustamente individua. La definirei una "mondanità religiosa"».

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Dopo l'Irlanda la Chiesa torni a educare
di Robi Ronza

“Se la maggioranza della popolazione esprime un parere contrario a ciò che la Chiesa suggerisce e pensa ciò significa che maggiore deve essere lo sforzo educativo da parte della stessa Chiesa, che deve essere capace di motivare sempre le proprie convinzioni”: non si può che essere confortati da queste chiare parole dell’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi, intervistato da la Repubblica nella sua veste di segretario della Cei per l’Educazione. Non senza aggiungere un plauso a la Repubblica che una volta tanto ha fatto del buon giornalismo applicando il principio audietur et altera pars (si ascolti anche l’altra campana).
Alle parole di mons. Pennisi hanno poi fatto seguito quelle del segretario di Stato, mons. Pietro Parolin, che ha efficacemente definito “una sconfitta per l’umanità” l’esito del referendum irlandese: un giudizio divenuto titolo in diversi quotidiani sia italiani che di altri Paesi tra cui ovviamente l’Irlanda. Finalmente insomma si comincia a contrastare la campagna avviata dell’“internazionale” dei circoli neo-illuministi dell’Occidente che stanno pretendendo di imporre ipso facto come evento atteso e sperato in tutto il mondo qualcosa che invece tra l’altro ha sin qui trovato eco quasi soltanto nei Paesi nord-atlantici, ossia nell’Europa occidentale (Portogallo, Spagna, Francia, Benelux, Paesi scandinavi) e in parte del Nordamerica (Canada e 34 stati membri degli Usa). Al di là dell’area nord-atlantica si contano ancora il Brasile, l’Argentina, il Sudafrica e la Nuova Zelanda. In un altro Paese nordatlantico, appunto l’Irlanda, la sua introduzione è a questo punto imminente. Infine in Slovenia, Colombia e Australia se ne sta discutendo. Viceversa nell’Europa orientale, nell’intera Asia e in quasi tutta l’Africa non se ne parla. Non siamo affatto insomma a quella specie di “marcia dell’Aida” che ogni giorno ci viene raccontata.
Fermo restando che finora la democrazia continua a essere il migliore dei sistemi politici possibili, resta altrettanto fermo che il consenso dei più in ogni momento dato non è di grande aiuto per quanto concerne la definizione dei valori o più precisamente la ricerca della verità. Nel mondo antico la schiavitù godeva di un consenso generale anche nei paesi più avanzati dell’epoca. Seppur arrampicandosi sui vetri, perfino un genio come Aristotele la giustificava. Se dunque allora ci fosse stato il suffragio universale, la schiavitù sarebbe uscita vincitrice da qualsiasi referendum. 
Tanto più considerando che la Chiesa è l’ultima grande organizzazione internazionale ancora schierata a tutela della ragione e della natura, nel mondo in cui siamo la strada è quella indicata da mons. Pennisi: la Chiesa deve tornare ad educare, i cristiani devono dire le ragioni della loro fede, esprimere senza complessi la loro cultura e dare testimonianza dell’intensità di vita che caratterizza un’esperienza di fede autentica.
Dal momento che la cultura laica dominante è spesso settaria, da ciò consegue che l’esperienza cristiana finisce per essere oggetto di continua disinformazione. In qualche caso sarà magari anche in buona fede, per ignoranza, ma disinformazione resta. Facciamo ad esempio il caso dell’edizione di ieri del quotidiano torineseLa Stampa. Sulla sua prima pagina iniziava un commento di Ferdinando Camon, dal titolo “Era una colpa, diventa un diritto”. Il commento si apriva con queste parole: “La vittoria del sì al referendum irlandese sulle nozze gay significa che nella cultura cattolica l’omosessualità non è più la colpa mostruosa che era fino a un papa fa”. Leggendo questa frase uno si domanda: come può uno scrittore, che si presuppone sia una persona colta, scrivere una stupidaggine del genere? Quando mai, “fino a un papa fa”, essere omosessuali era una “colpa mostruosa”? Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato da Giovanni Paolo II nel 1992, dove all’omosessualità sono dedicati i punti 2357-2359, mentre se ne dà un chiaro giudizio si legge tuttavia che gli omosessuali “devono essere accolti con rispetto, compassione e delicatezza”. Non ci soffermiamo qui in dettaglio sui contenuti di tali punti, peraltro oggi accessibili a chiunque grazie a Internet, ma non possiamo non domandarci con quale faccia un intellettuale, un professionista della comunicazione come Camon possa rendersi responsabile di una disinformazione del genere. Lo scrittore prosegue poi con una valanga di luoghi comuni di sapore volteriano fino a dire che finora nella Chiesa gli omosessuali non venivano “mai assolti, nemmeno se pentiti”. Per fortuna dunque l’Irlanda ci ha adesso liberato da tanto abominio. Forse per una presunta solidarietà di categoria, Camon si sofferma quindi sui “grandi intellettuali” che hanno vissuto questo dramma. In proposito cita tra l’altro Giovanni Testori che “è passato di là, ha abbracciato la Chiesa e ha maledetto se stesso”. In questo caso, avendo conosciuto di persona Giovanni Testori, sono testimone diretto del fatto che affermare una cosa del genere significa non sapere nulla e non aver capito nulla di lui.
Sulla prima pagina de La Stampa di ieri non c’era però soltanto la testimonianza di ignoranza colpevole di cui sopra. C’era anche un “Buongiorno” di Massimo Gramellini a modo suo esemplare come documento della natura autoritaria del pensiero illuminato. Oggetto del commento era il giudizio del cardinale Parolin di cui si diceva più sopra. Secondo Gramellini, la Chiesa “a rigor di logica dovrebbe limitarsi a parlare di sconfitta dei propri valori. Non deplorare una sconfitta dell’umanità. A meno di far coincidere i precetti stilati nel corso dei secoli da una comunità religiosa (…) con la natura profonda e insondabile dell’animo umano”. In altre parole Massimo Gramellini ha diritto di dire che cosa è umano e che cosa non lo è; la Chiesa invece no. 
Come allora non dare ragione e sostegno all’appello di mons. Pennisi? Già solo per rendere impensabili disinformazioni e irragionevoli presunzioni del genere ci attende un lavoro ciclopico.

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Il primo schema sulla famiglia

Il primo schema sul Matrimonio del Concilio Vaticano II


(di Cristina Siccardi) Lunedì 25 maggio si è svolta, a porte chiuse, una riunione ristretta fra cardinali e vescovi europei per discutere l’accoglienza dei divorziati risposati e degli omosessuali nella Chiesa; infatti, per alcuni pastori, i peccati mortali hanno oggi diritto di asilo (per i peccatori, ai quali è richiesta consapevolezza e pentimento della propria colpa, la Chiesa ha sempre avuto misericordia). Tedeschi, svizzeri e francesi, dunque, hanno unito le forze per organizzare, in segreto, presso la sede universitaria dei Gesuiti dell’Università Gregoriana di Roma, una giornata di studio sui temi scottanti del prossimo Sinodo sulla famiglia.
L’assedio è massiccio, tuttavia è massiccia la fede di chi, a tutti i costi, resiste per difendere gli insegnamenti di Dio, l’unico ad avere autorità insindacabile, prima e ultima, in materia di matrimonio e di famiglia: Dio ha creato l’uomo e la donna, Dio ha creato l’istituzione familiare. Non altri.
Il 1968 fu l’anno della Rivoluzione della Sorbona a Parigi. Una rivoluzione culturale che avviò, a catena, uno sconvolgimento morale e di costumi nella società occidentale, ancora cristiana. Il delicato ed intimo tema della sessualità veniva sbandierato in piazza, rendendo la questione infima e volgare, snaturandola dei suoi connotati più profondi e più nobili: alla verginità e alla castità, alla continenza e alla temperanza, all’autocontrollo e al dominio di sé, venivano opposti e inneggiati l’impudicizia, la fornicazione, la dissolutezza, la lascivia, la libidine, la lussuria. I vizi capitali venivano portati in auge, irridendo alle virtù, amiche della felicità umana e cristiana.
Il 1968 fu anticipato da un capovolgimento di vedute pastorali, il quale prese le mosse dal Concilio Vaticano II. «La Rivoluzione del 1968 ebbe certo forte impatto nella Chiesa, oltre che nella società, ma la “svolta conciliare” favorì a sua volta l’esplosione del Sessantotto e ne moltiplicò la forza propulsiva», scrive nell’introduzione il professor Roberto de Mattei al libro eccezionale e propizio, uscito in Italia in questi giorni: Il primo schema sulla famiglia e sul matrimonio del Concilio Vaticano II (Edizioni Fiducia, pp. 118, € 10.00).
Ci auguriamo che il contenuto di questo testo, presentato integralmente, possa essere diffuso il più possibile e trovi riscontri anche all’estero, perché è in grado di riproporre in maniera ineccepibile gli insegnamenti autenticamente cattolici, gli unici a liberare le persone da confusioni, errori e peccati schiavizzanti. Fra gli schemi preparatori del Vaticano II, approvati da Giovanni XXIII nel luglio del 1962 e inviati a tutti i Padri conciliari, c’era anche uno Schema di costituzione dogmatica sulla castità, il matrimonio, la famiglia, la verginità.
Ma questo Schema venne bocciato e riscritto secondo le tesi della teologia progressista, la cosiddetta Nouvelle théologie, ossia quella teologia mondana che oggi impera e tenta, a porte chiuse, di escogitare sofisticati sistemi speculativi per offendere la teologia rispettosa delle leggi divine. La costituzione pastorale Gaudium et Spes, documento equivoco, trattò il tema della famiglia solo ai paragrafi 47-52, che negli anni postconciliari furono letti ed interpretati in maniera soggettiva e relativista, contraria alla morale tradizionale. Molti temi allora discussi sono tornati alla luce.
Chi parteciperà al Sinodo del prossimo ottobre non potrà tenere conto di questo Schema, all’epoca “improvvidamente abbandonato”, in quanto «un Sinodo che parlando della famiglia taccia sulla legge naturale, ignori il fine primario del matrimonio, stenda un velo di silenzio sul peccato e non metta in risalto il valore della castità dentro e fuori il matrimonio, è destinato al fallimento pastorale e alla distruzione della fede e della morale cattolica» (p. 31).
Il 30 luglio 1968 il “New York Times” pubblicò, con il titolo Contro l’enciclica di Papa Paolo, un appello, firmato da oltre duecento teologi, che invitava tutti i cattolici a disubbidire all’Humanae vitae di Paolo VI, che venne rigettata con acrimonia da interi episcopati. Un gruppo di protagonisti del Concilio contrari all’enciclica, fra i quali i cardinali Suenens, Alfrink, Heenan, Döpfner, Köning, si riunì, a porte chiuse, nella città di Essen per stabilire una strategia di opposizione al documento pontificio.
Risultato di quell’incontro? La dottrina dell’Humanae vitae non venne seguita, ma furono concretizzate le indicazioni del Cardinale Suenens e dei suoi sostenitori. Nelle università e nei seminari i testi di studio divennero quelli di padre Häring, considerato il padre della moderna teologia morale. I novelli moralisti sostituivano alla oggettività della legge naturale la «persona», svincolata da ogni impegno normativo, imbevuta di immanentismo e dipendente dalle circostanze storiche, sociali e culturali; insomma, dall’ «etica della situazione» (p. 27).
Appagare gli appetiti istintuali e licenziosi, renderli benemeriti e leciti è il disegno architettato da governi privi di senso religioso, favorevoli al sesso libero e sfrenato, capace di rendere le persone più fragili, più vulnerabili e, dunque, più manipolabili. Disciplinare e regolare quegli appetiti è il compito che la Chiesa è tenuta ad ottemperare per dare ragione della sua esistenza e per raggiungere il suo primario obiettivo, la salus animarum.
Lo Schema di costituzione dogmatica sulla castità, il matrimonio, la famiglia, la verginità è un vero e proprio capolavoro ed è specchio dell’obiettivo, la salus animarum, ma anche di un vivere sociale ed etico rispettoso di tutti perché regolato con giudizio, esperienza millenaria e con carità (sinonimo di amore).
Lo Schema è altresì specchio delle Sacre Scritture. Perché esistono l’uomo e la donna? Perché esiste un solo concetto di famiglia? Perché è necessaria la castità? Qual è il valore del sacramento matrimoniale e quale quello della verginità? Dalla prima parte alla terza dello Schema in questione troviamo esaustivamente le risposte per ritornare alle fonti, non quelle sessantottine, ma quelle divine. Infatti Dio disse: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”» (Gn 1, 26-28).
Il Paradiso terrestre ebbe fine con l’assenso alla prima tentazione di Satana alla donna e all’uomo. Da allora non ha più cessato di adescare e sedurre. «Et Verbum caro factum est. Et habitavit in nobis» («E il Verbo si fece carne. E venne ad abitare in mezzo a noi»), nonostante ciò gli uomini, compresi i teologi, continuano a cedere al grande tentatore, seminando la pula, invece del chicco di grano. (Cristina Siccardi)

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Irlanda – la responsabilità di un’apostasia

matrimonio omosessuale

(di Roberto de Mattei) Nel suo capolavoroL’anima di ogni apostolato, dom Jean-Baptiste Chautard (1858-1935), abate trappista di Sept-Fons, enuncia questa massima: «A sacerdote santo corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio» (L’anima di ogni apostolato, Edizioni Paoline, Roma 1967, p. 64) . Se è vero che c’è sempre un grado di vita spirituale in meno tra il clero e il popolo cattolico, dopo il voto di Dublino dello scorso del 22 maggio, si dovrebbe aggiungere: «A sacerdote empiocorrisponde popolo apostata».
L’Irlanda è infatti il primo paese in cui il riconoscimento legale dell’unione omosessuale è stato introdotto non dall’alto, ma dal basso, per via di referendum popolare; ma l’Irlanda è anche uno dei Paesi di più antica e radicata tradizione cattolica, dove è ancora relativamente forte l’influenza del clero su una parte della popolazione.
Non è una novità che il “sì” alle nozze gay fosse appoggiato da tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra; non stupisce che tutti i media abbiano sostenuto la campagna LGTB, né che vi sia stato un massiccio intervento finanziario straniero a favore di questa campagna; è scontato il fatto che, avendo votato il 60 % della popolazione, solo il 37,5 % dei cittadini abbiano espresso il loro sì e che il governo abbia mischiato abilmente le carte, introducendo nel gennaio 2015 una legge che consente l’adozione omosessuale, prima del riconoscimento dello pseudo-matrimonio gay. Ciò che desta il maggiore scandalo sono i silenzi, le omissioni e le complicità dei sacerdoti e vescovi irlandesi nel corso della campagna elettorale.
Un esempio basti per tutti. Prima delle elezioni, l’arcivescovo di Dublino Diamund Martin ha dichiarato che egli avrebbe votato contro il matrimonio omosessuale ma non avrebbe detto ai cattolici come votare (LifeSiteNews.com, 21 maggio). Dopo il voto ha dichiarato alla televisione nazionale irlandese che «non si può negare l’evidenza» e che la Chiesa in Irlanda «deve fare i conti con la realtà». Quanto è accaduto ha aggiunto mons. Martin, «non è soltanto l’esito di una campagna per il sì o per il no, ma attesta un fenomeno molto più profondo», per cui «è necessario anche rivedere la pastorale giovanile: il referendum è stato vinto con il voto dei giovani e il 90 per cento dei giovani che hanno votato sì ha frequentato scuole cattoliche» (www.corriere.it/esteri/. 15_maggio).
Questa posizione riflette, in generale e tranne poche eccezioni, quella del clero irlandese, che ha adottato la linea che in Italia auspica il segretario generale della CEI mons. Nunzio Galantino: evitare ad ogni costo polemiche e scontri: «non si tratta di fare a chi grida di più, i “pasdaran” delle due parti si escludono da sé» (“Corriere della Sera”, 24 maggio). Il che significa, accantoniamo la predicazione del Vangelo e dei valori della fede e della Tradizione cattolica, per cercare un punto di incontro e di compromesso con gli avversari.
Eppure il 19 marzo 2010, nella sua Lettera ai cattolici di Irlanda, Benedetto XVI aveva invitato il clero e il popolo irlandese a ritornare «agli ideali di santità, di carità e di sapienza trascendente», «che nel passato resero grande l’Europa e che ancora oggi possono rifondarla» (n. 3) e a «trarre ispirazione dalle ricchezze di una grande tradizione religiosa e culturale» (n. 12), che non è tramontata, anche se ad essa si è opposto «un rapidissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici» (n.4).
Nella Lettera ai cattolici di Irlanda, Benedetto XVI afferma che negli anni Sessanta, fu «determinante» «la tendenza da parte di sacerdoti e di religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo». Questa tendenza è la medesima che riscontriamo oggi. Essa è stata la causa di un processo di degradazione morale che dagli anni del Concilio Vaticano II ha travolto come una valanga costumi e istituzioni cattoliche. Se oggi gli irlandesi, pur restando in maggioranza cattolici, abbandonano la fede, la ragione non è solo la perdita di prestigio e di consensi della Chiesa in seguito agli scandali sugli abusi sessuali.
La vera causa è la resa culturale e morale al mondo da parte dei loro pastori, che accettano questa degradazione come un’evidenza sociologica, senza porsi il problema delle proprie responsabilità. In questo senso il loro comportamento è stato empio, privo di pietà, offensivo nei confronti della religione, anche se non formalmente eretico. Ma ogni cattolico che ha votato sì, e dunque la maggioranza dei cattolici irlandesi che si sono recati alle urne, si è macchiata di apostasia. L’apostasia di un popolo la cui costituzione si apre ancora con un’invocazione alla Santissima Trinità.
L’apostasia è un peccato più grave dell’empietà, perché comporta un esplicito rinnegamento della fede e della morale cattolica, ma la responsabilità più pesante per questo peccato pubblico risiede nei pastori che con il loro comportamento l’hanno incoraggiato o tollerato. Le conseguenze del referendum irlandese saranno ora devastanti. Quarantotto ore dopo il voto si sono riuniti a Roma, sotto la guida del cardinale Reinhard Marx, i principali esponenti delle conferenze episcopali tedesca, svizzera e francese per pianificare la loro azione in vista del prossimo Sinodo. Secondo il giornalista presente ai lavori, «matrimonio e divorzio», «sessualità come espressione dell’amore» sono i temi di cui si è discusso (“La Repubblica”, 26 maggio 2015).
La linea è quella tracciata dal cardinale Kasper: la secolarizzazione è un processo irreversibile al quale bisogna adattare la realtà pastorale. E per l’arcivescovo Bruno Forte, lo stesso che nello scorso Sinodo chiedeva «la codificazione dei diritti omosessuali», e che è stato confermato dal Papa segretario speciale del Sinodo sulla famiglia, «si tratta di un processo culturale di secolarizzazione spinta nel quale l’Europa è pienamente coinvolta» (“Corriere della sera”, 25 maggio 2015).
C’è una questione finale che non si può eludere: il silenzio sepolcrale sull’Irlanda di papa Francesco. Durante la messa per l’apertura dell’Assemblea Caritas, il 12 maggio scorso, il Papa ha tuonato contro «i potenti della terra», ricordando loro che «Dio li chiamerà a giudizio un giorno, e si manifesterà se davvero hanno cercato di provvedere il cibo per Lui in ogni persona e se hanno operato perché l’ambiente non sia distrutto, ma possa produrre questo cibo».
Il 21 novembre 2014, commentando il brano del Vangelo in cui Gesù caccia i mercanti dal Tempio, il Papa lanciò il suo anatema, contro una Chiesa che pensa solo a fare affari e che fa «peccato di scandalo». Francesco inveisce spesso contro la corruzione, il traffico di armi e di schiavi, la vanità del potere e del denaro. Riferendosi l’11 giugno 2014 ai politici corrotti, a coloro che sfruttano il «lavoro schiavo», e ai «mercanti di morte», il Papa ammonì «che il timore di Dio faccia loro comprendere che un giorno tutto finisce e che dovranno rendere conto a Dio». Il «timore di Dio» apre il cuore degli uomini «alla bontà, alla misericordia, alle carezza» di Dio, ma «è anche un allarme di fronte alla pertinacia nel peccato».
Ma l’iscrizione nelle leggi del vizio contro natura, non è incomparabilmente più grave dei peccati che così frequentemente ricorda il Papa? Perché nei giorni precedenti al voto il Santo Padre non ha lanciato un appello vigoroso e accorato agli irlandesi ricordando loro che la violazione della legge divina e naturale è un peccato sociale di cui il popolo e i suoi pastori dovranno un giorno rendere conto a Dio? Con questo silenzio, non si è fatto anch’egli complice di questo scandalo? (Roberto de Mattei)