martedì 7 aprile 2015

La penombra e il punto incandescente.

tempi-tamaro


Intervista a Susanna Tamaro
di Emanuele Boffi
Questo articolo, tratto dal numero di Tempi in edicola, fa parte della serie “Ragione Verità Amicizia”, il manifesto dei nostri vent’anni e della Fondazione Tempi (una proposta che si può sottoscrivere in questa pagina).

Orvieto (TR). Dice che il suo “elogio della penombra” è per proteggere «la parte incandescente della vita» e cioè quella che «ci lega al Mistero». Esiste uno stretto legame tra ciò che Susanna Tamaro vive e ciò che scrive. Per rendersene conto basta girare lo sguardo d’intorno. Terre, prati, animali, amici. Sulle colline d’Orvieto ha costruito il suo piccolo monastero moderno, circondata da cavalli, canarini, un asino, amatissimi cani. Persino una volpe che, se animale domestico non può essere considerato, ormai è un po’ di famiglia non facendo mancare mai la sua quotidiana visita all’agriturismo di cui Tamaro è proprietaria. E poi un’esuberante e lussureggiante vegetazione di vigne, fiori, piante, incorniciata tra i monti che vanno dal Soratte al Gran Sasso ai Sibillini. E gli affetti: la cara amica Roberta, la coppia peruviana che ha assunto per badare al suo casolare, i bambini del posto cui la scrittrice, anni fa, pensò bene di regalare un parchetto dove poter giocare («ma ti pare che qui d’intorno non ci fosse nemmeno un luogo dove i più piccoli potessero ritrovarsi?»).
Anni fa Tamaro spiegò a Tempi che la sua era un’esistenza all’insegna dell’«ora et labora». E sentirla raccontare con entusiasmo di lunghe passeggiate a piedi o in bicicletta con tappe alle edicole delle Madonnine o della diversa cura che si deve avere nella semina della lavanda o della produzione del miele, rende bene l’idea di cosa sia la sua vita “monastica”. Che come tutte le vite benedettine è più ricca di “cose” che di pensieri, di meraviglia per ciò che c’è che di dilemmi per ciò che manca. «Sono una cattolica molto legata alla materia – spiega. Perché è nella concretezza che si trova il pertugio per avvertire ciò che sta Oltre».
In uno dei suoi ultimi articoli per il Corriere della Sera ha preso spunto dal caso del “Gioco del rispetto” inscenato in un asilo triestino per scrivere il più interessante commento sulla vicenda. La polemica è nota: a bambini dai tre ai sei anni è stato proposto di vestire gli indumenti del sesso opposto per liberarsi dagli «stereotipi sociali che imprigionano maschi e femmine in ruoli che nulla hanno a che vedere con la loro natura». Per Tamaro «questo prepotente insinuarsi dei metodi educativi nella parte più segreta e intima dei bambini è qualcosa di inquietante». Soprattutto, ha notato, c’è qualcosa che non torna in questa nostra «società malata di frantumazione» che, ossessionata dal mito dell’educazione sessuale, è diventata muta sulla trasmissione di tutto ciò «che sesso non è». «Non essendoci più l’educazione, non ci rimane che quella sessuale», ha scritto Tamaro, secondo cui «la nostra società sta vivendo una gravissima emergenza educativa, un’emergenza che si sottostima o che si cerca di tenere a bada inventando sempre nuovi spauracchi e sempre nuovi bersagli “oscurantistici” da abbattere».
«Siamo all’intrusione delle diapositive», dice a Tempi, riferendosi ai sempre più frequenti corsi di educazione sessuale che vengono impartiti nelle scuole. «Questo entrare dello Stato nella sfera più intima delle persone è una forma di totalitarismo. Da che mondo e mondo, i bambini hanno sempre imparato e scoperto come nascono senza alcun tipo di trauma. L’idea che sia necessario un esperto per spiegarlo è qualcosa di perverso. Che lo Stato forzi in questa maniera l’intimità delle persone è segno di una grande sfiducia nell’intelligenza altrui e non mi pare l’idea innocente che vogliono darci a bere. Io ci vedo un desiderio di demolire la natura umana, di frantumare quella segretezza necessaria e benedetta che avvolge l’eros, e per fare cosa? Togliere questa penombra, eliminare questa segretezza significa esporci a una volgarità di fondo. Ci lascia nudi, letteralmente nudi. E indifesi».
Per questo Tamaro ha riesumato una parola antica e dimenticata come «pudore», che forse non è altro che la consapevolezza che esiste un punto ultimo della natura umana che deve essere e rimanere intangibile. Squadernarlo ci lascia senza difese, cioè nudi. «Ma chi è debole – prosegue la scrittrice – è a quel punto utilizzabile, manipolabile, classificabile. È ciò che vediamo accadere oggi con le persone ridotte a “cose”. È una volontà scellerata che riduce le persone a schiavi obbedienti».
Sessualità come privazione
È un ben strano paradosso, questo. «Viviamo nell’era che ha fatto dell’educazione sessuale un mito», ragiona Tamaro, «ma è un insegnamento tutto volto non alla fecondità, ma al “non avere” figli». La sessualità non come generazione, ma come privazione. «E così cosa accade? Accade che il sesso è ridotto a escamotage meccanico. Ma se l’unica educazione che sappiamo impartire è quella che riguarda i genitali, cos’altro potrà emergere se non una scuola che insegna a comportarsi più o meno come le grandi scimmie?». «Il maschio dominante, le femmine ai suoi piedi – ha scritto sul Corriere – e gli esemplari non dominanti sottomessi alla potenza del branco».
«È una cosa di un’oscenità sguaiata», dice a Tempi. «E mi impressiona il silenzio femminile su queste vicende. Da un lato, la donna è continuamente “pompata”, dall’altro finisce con l’essere nient’altro che un “corpo in vendita”». Qui il discorso di Tamaro vira sulle pratiche di fecondazione in vitro, in particolare all’eterologa, «una cosa di cui nessuno sa niente. È pazzesco. Ma come, una parte delle tue viscere viene prelevata dal tuo corpo e surgelata in un frigorifero, e nessuno dice nulla? L’essere umano non può essere figlio di un contratto economico. E a quei bambini cosa diremo, come possiamo passare da essere figli del Mistero a essere figli di un accordo commerciale?».
E qui si arriva, appunto, al centro infiammato della questione. «Il rapporto col Mistero è fondante per l’uomo. Noi portiamo dentro il cuore qualcosa che viene dall’eterno, che ci comprende, precede e segue. Quale altro compito esiste nella vita se non quello di capire la nostra relazione con questa dimensione che è diversa dal tempo in cui siamo immersi? Per questo mi muovo nel tempo, perché sono consapevole che è una parte di un tempo più ampio. Penso che l’angoscia dell’uomo moderno sia dovuta al panico che lo assale quando tutto intorno a lui tenta di convincerlo che il tempo è solo il tempo, e che non c’è alcuna dilatazione verso l’eternità». Se tutto è solo qua, la vita è una lenta asfissia. «Se tutto finisce e basta, è come vivere con una mitragliatrice puntata alla schiena. Essere consapevoli che esiste qualcosa di più grande di noi è ciò che ci permette di respirare. Anche se non sappiamo comprenderlo totalmente, sappiamo, però, che c’è. E questo è un conforto, una pace».
Vivere come vagabondi
Per Tamaro un’educazione che si voglia tale non può esimersi dal comunicare «il punto incandescente» della questione. Ma attenzione: come la pianta ha bisogno della sapienza del giardiniere che sa quando innaffiarla, quando esporla al sole e quando trovarle riparo all’ombra, così la natura umana per crescere in armonia necessita di educatori che sappiano quando intervenire e quando sottrarsi. Fuor di metafora: che sappiano introdurre i più piccoli alla scoperta del reale secondo «un’educazione della persona nella sua totalità», senza gonfiare a dismisura un particolare (il sesso) con l’unica conseguenza di provocare delle nevrosi. «Per questo anche un po’ di “penombra” è utile allo scopo». Serve a proteggere il “punto incandescente”, non permettere che divampi senza costrutto, lasciandogli l’agio di maturare, crescere, fiorire.
«Oggi bombardiamo i nostri bambini di “opportunità”. Li bombardiamo perché vogliamo distrarli». Distrarli da cosa? «Dal fatto che non sappiamo più comunicare loro il nucleo profondo delle cose. Il sapere educativo si è polverizzato. Ma se tu, genitore, non sai dove andare, non saprai nemmeno dove indirizzare i tuoi figli. E, infatti, i bambini di oggi vagano come nomadi. Li abbiamo abituati a passare, assaggiare, proseguire oltre. Ma un bambino che s’accorge che suo padre e sua madre sono dei vagabondi, impazzisce. Nei peggiori dei casi, questa educazione che non sa più “portare verso la realtà” diventa imposizione, autoritarismo». Invece bisognerebbe iniziare a indicare la via e il percorso, «spiegando anche cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non tutto si equivale». Se tutto è uniforme, tutto è noia. Ma senza l’errore e il male, a che varrebbe la redenzione? «I bambini lo sanno e lo avvertono. È per questo che ci guardano e ci chiedono». Insegnare loro che non c’è niente da fare, niente in cui credere e nessun posto dove andare è «educarli al cinismo e alla rivendicazione». Se siamo stati gettati in questo mondo senza il nostro permesso e senza alcuna prospettiva, «come stupirci che poi questi piccoli crescono nel risentimento e nel livore?».
Il gusto del fare insieme
Quel che servirebbe, dunque, è una grande opera di alfabetizzazione dell’umano a partire proprio dagli adulti. «Sì, è così, come dice il manifesto di Tempi che parla, appunto, di amicizia». La quotidianità della Tamaro pare proprio essere un tentativo di ricostruire le basi di solide comunità. Si può fare in diversi modi. Lei, per maggio, ha promosso un ciclo di incontri intitolato “Verrà un giorno. Riflessioni sul Giudizio Universale” che si svolgerà nella gotica cornice del Duomo di Orvieto. E com’è nello spirito della curatrice saranno chiamati a parlare economisti, scienziati, agronomi, astrofisici, non per forza cattolici, che cercheranno di «restituire a un luogo sacro una voce in grado di parlare alla solitudine, allo smarrimento degli uomini di oggi». Poi c’è il suo agriturismo, che ha ristrutturato e pensato «per le famiglie con tanti figli», adibendo gli spazi perché i marmocchi possano scorazzare senza troppe costrizioni tra il verde e gli animali, in mezzo ai grandi alberi che fanno capolino nelle avventure dei suoi romanzi. E soprattutto Tamaro cerca ogni giorno di affondare le mani nella terra, nei prati, nei campi per dar sollievo al cuore. «Viviamo nell’epoca del risentimento e del livore, in un mondo rivendicativo e senza misericordia. Occorre ricostruire luoghi fisici e umani dove si approcci la vita in maniera nuova e antica. Occorre riscoprire il gusto del fare, dell’imparare a fare, insieme. Per svegliarsi al mattino ed essere grati di essere al mondo».

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