giovedì 30 aprile 2015

Il tesoro delle comuni radici



A vent’anni dalla «Orientale lumen». 

(Manuel Nin) Il 2 maggio 1995, festa di sant’Atanasio il Grande, vescovo di Alessandria nel IV secolo, Giovanni Paolo II firmava la lettera apostolica Orientale lumen per la ricorrenza centenaria di un’altra lettera apostolica, l’Orientalium dignitas di Leone XIII. A vent’anni di distanza vorrei accennare ad alcuni aspetti importanti della lettera di Giovanni Paolo II, soprattutto nella sua prima parte. Nell’introduzione il Papa accenna ai motivi della lettera: il centenario dell’Orientalium dignitas, la constatazione dei passi fatti in questi cento anni, passi verso la conoscenza e l’incontro tra oriente e occidente. Il testo mette in evidenza come a partire dalla Pentecoste avvenuta a Gerusalemme, «madre di tutte le Chiese» — un’espressione importante in bocca al vescovo di Roma — tutte le Chiese cristiane, nella loro autenticità e pluriformità, ritrovano la forza dello Spirito per la ricerca costante dell’armonia tra di loro. L’Orientale lumen insiste sulla piena comunione necessaria tra i cristiani che nasce dalla loro chiamata a predicare Cristo agli uomini: «Le Chiese di oriente e di occidente sono chiamate a concentrarsi sull’essenziale, cioè il cedere il passo al ravvicinamento e alla concordia».
Nella prima parte del testo il Papa sottolinea la necessità da parte dell’occidente di conoscere l’oriente cristiano, conoscerne l’esperienza di fede, il mistero della sua vita in Cristo. E accenna alla diversità e complementarità tra oriente e occidente, in quanto hanno indagato la stessa verità rivelata e lo stesso mistero a partire da metodi e prospettive diverse. L’occidente deve ascoltare le Chiese dell’oriente e avvicinarsi a queste Chiese, alla loro tradizione: oriente e occidente sono un mosaico opera del Creatore. Il Papa fa notare come l’oriente mette in evidenza la partecipazione del cristiano alla natura divina mediante la comunione al mistero della Santa Trinità. Questa comunione si realizza attraverso la liturgia, specialmente attraverso l’eucaristia. E in questo cammino di divinizzazione, l’Orientale lumen propone il modello dei martiri, dei santi e della Madre di Dio: «In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l’impegno nel cammino del bene ha reso “somigliatissimi” a Cristo: i martiri e i santi. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il virgulto di Jesse. La sua figura è non solo la Madre che ci attende, ma anche icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell’umanità trasfigurata dalla grazia».
L’Orientale lumen dedica poi tutto un paragrafo alla trattazione del tema della tradizione: l’importanza del rapporto tra presente, passato e futuro. L’oriente offre un forte senso di continuità, dalla tradizione all’attesa escatologica. La tradizione come patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del risorto incontrato e testimoniato dagli apostoli che hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in una linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l’imposizione delle mani, fino ai vescovi di oggi. Tradizione ancora vista dalla lettera come memoria del risorto, che mantiene la Chiesa vegliante nella memoria di Cristo sposo; la tradizione quindi è la memoria viva della sposa conservata eternamente giovane dall’amore che la abita. E l’Orientale lumen insiste sull’inserirsi nella tradizione della Chiesa in quanto memoria, e sul mostrare agli uomini la bellezza di questa memoria (e di questa tradizione), la forza che viene dallo Spirito che ci fa testimoni, figli di testimoni, cioè radicati in una schiera di martiri e di santi, che ci hanno preceduto e con cui siamo, in questa memoria, legati.
Per ben otto paragrafi il documento tratta il tema del monachesimo o, se si vuole, contempla la vita monastica come modello della vita cristiana. Sottolinea la centralità del monachesimo in oriente, sicché diventa punto di riferimento per tutti i cristiani. E qui troviamo uno dei paragrafi centrali del documento che giustifica appunto la trattazione della vita monastica: «I forti tratti comuni che uniscono l’esperienza monastica d’Oriente e d’Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l’unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese». Il testo mette in evidenza tre aspetti fondamentali del monachesimo cristiano: luogo della lode di Dio, luogo della carità, luogo della ricerca di Dio. Tre aspetti, e proprio in questa progressione. Al monaco viene chiesta dapprima la lode, il ringraziamento a Dio, poi la carità verso il fratello, quindi il terzo aspetto, forse quello più importante, che è alla base dei due primi: la ricerca di Dio. La vita del monaco viene così presentata tra due poli: l’ascolto della Parola di Dio — e qui il termine «ascolto» va al di là della semplice accezione letterale per divenire assimilazione del monaco alla Parola — e l’eucaristia. La Parola è nutrimento della vita del monaco, la Parola lo configura a Cristo, perché la Parola è Cristo. Questo ascolto/assimilazione della Parola avviene specialmente nella liturgia, attraverso i testi biblici e innografici che sono una parafrasi del testo sacro. L’eucaristia è l’altro asse della vita del monaco, eucaristia come luogo dove la Parola si fa carne, luogo della piena configurazione con Cristo — la partecipazione ai santi misteri ci fa consanguinei di Cristo — e luogo anche escatologico in quanto anticipa l’appartenenza alla Gerusalemme celeste. Come conseguenza, in questo paragrafo la vita monastica viene presentata come la vita cristiana nella sua pienezza liturgica: un’unica dimensione celebrativa, dall’ascolto della Parola alla comunione coi santi misteri. La liturgia è quindi vista come luogo della piena divinizzazione dell’uomo e del creato. Proprio nella liturgia, dunque, il creato trova il suo senso pieno: il creato viene permeato da Cristo e proprio allora ne sgorga la sacramentalità della Chiesa. Il documento integra un aspetto essenziale della liturgia, delle Chiese sia di oriente che di occidente, cioè la sua dimensione di bellezza: «In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell’anima salvata. Nell’azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode, e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell’umanità trasfigurata, si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi».
Un ultimo aspetto della prima parte dell’Orientale lumen che vorrei mettere in evidenza è il sottolineare come questa configurazione con Cristo avviene attraverso un processo di conversione a partire da un triplice dono di Dio: il dono delle lacrime, il silenzio e il distacco dall’orgoglio «nella coscienza del proprio peccato e della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore, simbolo del proprio battesimo nell’acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore». La lettera mette in luce ancora un aspetto centrale per la conoscenza dell’oriente cristiano, cioè il fatto che esso ha mantenuto sempre l’unità tra la spiritualità e la teologia. Quest’unità viene sottolineata particolarmente nel monachesimo come vita teologica: immersa cioè nelle verità della fede, quest’unità si realizza per mezzo della configurazione a Cristo. Unità tra teologia e spiritualità che sfocia anche in un’antropologia molto positiva, legata al mistero dell’incarnazione. E in questo contesto l’Orientale lumen sottolinea ancora il luogo del silenzio come via per percepire il mistero di Dio. Silenzio necessario come via per la teologia, per la preghiera, per la predicazione, per l’impegno nel mondo, per l’uomo, cioè per ascoltare l’altro. In un testo che vent’anni dopo continua a far vedere come «le parole dell’Occidente hanno bisogno delle parole dell’Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze».
L'Osservatore Romano

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Da Bari una strategia. Alzare la voce contro chi vuol cancellare la "nazione della croce" 



Alzare la voce contro
chi vuol cancellare
la "nazione della croce"
Concluso il Colloquio internazionale "Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?", promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, alla presenza dei patriarchi delle Chiese d'Oriente e d'Occidente. Come ha riferito il presidente Marco Impagliazzo è risuonato forte il grido della minoranza cristiana del Medio Oriente rivolto ad un "Occidente, Ue in testa, per troppo tempo indifferente"
dall'inviato Sir a Bari, Daniele Rocchi

Un piano ecumenico di pace per il Medio Oriente; accompagnare rappresentanti cristiani mediorientali presso le capitali delle grandi potenze mondiali, Mosca, Washington, Bruxelles e New York (Onu) per far udire la loro voce; dare piena cittadinanza ai cristiani rimuovendo dai documenti d’identità ogni riferimento alla fede professata: sono queste alcune delle proposte concrete emerse dal Colloquio internazionale “Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio che si è chiuso oggi (30 aprile) a Bari alla presenza dei patriarchi delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Due giorni di lavori durante i quali, ha riferito il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, è risuonato forte il grido della minoranza cristiana del Medio Oriente rivolto a un “Occidente, Ue in testa, per troppo tempo indifferente”.

“Pilatesca stasi”. A fare paura non è solo lo Stato islamico, con le sue brutali violenze, ma anche l’inazione e l’ignavia della comunità internazionale, la sua incapacità di trovare vie di uscita a vecchi e nuovi conflitti. “Pilatesca stasi” l’ha chiamata Chrisostomos II, arcivescovo ortodosso di Nuova Giustiniana e di tutta Cipro. “Guardiamo con dolore i drammatici fatti che hanno luogo, da molti anni, in Medio Oriente e specialmente nella nostra vicina Siria. Ma se quello che sta accadendo in Siria ci provoca dolore e disgusto, che dire della pilatesca stasi dei potenti della Terra? Cosa dire delle Nazioni Unite, che sono state fondate nel nome della pace e che si vantano della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della lotta per essi? Rimangono - purtroppo - semplici spettatori di ciò che sta accadendo nei nostri Paesi confinanti”. Come, naturalmente, sono rimaste “semplici spettatori” anche nel 1974, e continuano a rimanere tali ancora oggi a Cipro, dove i turchi “illegalmente occupano il 38% del nostro territorio e un totale di 520 nostre chiese, molte delle quali distrutte”. 

La nazione della Croce. “Siamo davanti a una epurazione etnica e culturale: si vuole sradicare dalla carta geografica un popolo e la sua cultura” ha gridato monsignor Yousif Thomas Mirkis, arcivescovo caldeo di Kirkuk (Iraq), ricordando che lo Stato islamico “se la prende con le chiese, con i musei, con tutti coloro che non rientrano nella loro visione dell’Islam. Esiste la volontà di far scomparire i cristiani, “la nazione della croce”. Dopo sette mesi di bombardamenti aerei delle più potenti aviazioni del mondo l’Is non è arretrato, bisognerà trovare altre opzioni”. Nonostante le difficoltà - la Chiesa caldea ha perso 5 diocesi e ha avuto tre vescovi martiri, e centinaia di preti, di religiose e di fedeli colpiti - “siamo giorno e notte occupati ad aiutare i 140mila cristiani sfollati che (come tutte le minoranze) soffrono dell’indifferenza locale, regionale e internazionale. Sono sempre le minoranze e i deboli che pagano le follie dei grandi!”, è stata la triste ammissione dell’arcivescovo caldeo, al quale non manca la speranza: “In questa discesa agli inferi le nostre Chiese devono evitare la dispersione e il ripiegamento su loro stesse ed evitare di cedere ai sogni e alle chimere, non avere paura di guardare la realtà in faccia; l’emigrazione non è l’unica soluzione. Il nostro ruolo è quello di resistere e di servire il nostro Paese al massimo livello”. 

“Basta con le teorie”. Mosul, la Piana di Ninive, Ma’loula, Sadad, Al-Qusair, Homs, Kasab e i 23 villaggi del Khabour, ovvero alcuni dei luoghi del massacro cristiano in Siria e Iraq: Ignace Youssif III Younan, patriarca siro-cattolico di Antiochia, li ha citati uno ad uno, per ricordare come i cristiani siano “un bersaglio facile d’intimidazioni abusive, espulsioni selvagge e anche assassinii” in Iraq e nel Medio Oriente. Ciò che sta accadendo, ha rimarcato, è “una macchia vergognosa nella storia delle grandi potenze e una minaccia per tutte le civiltà. Più di 60 chiese, monasteri e istituzioni cristiane, alcune risalenti ai primi secoli della Cristianità e considerate tesori della Mesopotamia, sono state prese, saccheggiate, sconsacrate, distrutte o convertite in moschee”. E oggi, ha detto senza mezzi termini, “a peggiorare la situazione dei cristiani è l’opportunismo ipocrita della politica dei governi occidentali. Questi dovrebbero riconoscere la loro responsabilità come complici delle atrocità commesse dall’islam politico, che ha fomentato una spirale di crisi violente nella regione”. “È triste da dire - ha concluso Youssif III - che nei rapporti con l’islam, l’Occidente non si interessa che a tre elementi: l’Umma, la nazione musulmana estesa dall’Estremo Oriente all'Occidente, i petrodollari dei Paesi del Golfo e lo jihadismo radicale che diffonde il terrore e minaccia popoli e civiltà dell’Occidente! Purtroppo le comunità cristiane del Medio Oriente, non possiedono nessuno di questi tre elementi!”. Per i patriarchi delle Chiese d’Oriente, “il tempo delle teorie è finito. È ora di agire”.

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