mercoledì 25 marzo 2015

«La medicina della misericordia rinnoverà la Chiesa in Cina»

Il vescovo Paolo Ma Cunguo con un gruppo di fedeli

Intervista a Paolo Ma Cunguo, vescovo cinese non riconosciuto dal governo. Alla guida di una diocesi senza “patriottici” e “clandestini”, dove l'Associazione patriottica «si è estinta da sola: adesso, il dialogo tra Cina e Santa Sede è proprio quello che ci vuole»

GIANNI VALENTEROMA



Nella Guide to The Catholic Church in China 2014, curata dal grande missionario e sinologo francese Jean Charbonnier, Paolo Ma Cunguo figura come vescovo di Shuozhou, nella Provincia dello Shanxi. Il governo non lo riconosce ufficialmente come tale. Eppure lui dice messa nella cattedrale, con le insegne episcopali. Nella sua diocesi non esiste spaccatura tra comunità ecclesiali “ufficiali” e “clandestine”. Mentre l’Associazione patriottica – l'organismo “ibrido” imposto dagli apparati politici per guidare “dall'interno” la vita della Chiesa -  si è estinta da sola. E nessuno l'ha fatta “risorgere”. Basterebbero questi pochi cenni a mandare in testa-coda i luoghi comuni fuorvianti messi in circolo senza ritegno intorno alla condizione della Chiesa che è in Cina. E dare conto della complessità e dei chiaroscuri che connotano tanta parte della vita dei cattolici cinesi.

Lei è nato nel 1971, nel tempo più aspro della Rivoluzione culturale. Cosa ricorda di quegli anni riguardo alla vita dei cristiani?
«La mia è una famiglia cattolica da generazioni. Soprattutto mia madre aveva tanta fede e si vedeva nel modo in cui faceva tutto. Ricordo che a quel tempo non si andava in chiesa, e non si poteva andare a messa. Le prime messe che ricordo erano quelle celebrate in casa, nel cuore della notte. Veniva il prete e venivano anche i cristiani che abitavano vicino».

Fino a quando fu così?
«Le cose sono iniziate a cambiare nel 1979. Ci fu la riabilitazione di tanti preti che erano andati ai lavori forzati, e si riaprirono le chiese. Non si doveva più celebrare messa di notte, in segreto».

Come ricorda i preti che fecero ripartire la vita della Chiesa?
«Li ricordo come figure nobili, che colpivano per la perseveranza e la trasparenza della loro fede. Erano stati pronti a dare la vita per non rinnegarla. Avevano sofferto. Erano stati in prigione insieme a malfattori a persone accusate come nemici del popolo e a ex militanti politici colpiti dalle epurazioni. Ma non si lamentavano del passato. Non recriminavano contro nessuno. Non erano militanti antagonisti contro il governo. Attraversando quelle vicende, la loro fede era diventata ancora più trasparente. E quello che si vedeva in loro era solo un grande fervore apostolico. C’era tanto da fare. Ricordo in particolare un sacerdote che mi portò con la sua guida spirituale a scoprire la vocazione sacerdotale. E anche il rettore del seminario».

Da allora, è cambiata la situazione?
«Adesso possiamo avvicinare tutti e testimoniare il Vangelo da persona a persona. Così possiamo anche invitare a messa le persone che incontriamo. Ma siamo timidi e abbiamo ancora dei problemi a fare in modo che la nostra opera apostolica assuma anche la forma di eventi sociali e pubblici».

Come si è preparato al sacerdozio?
«Ho studiato al seminario di Taiyuan, e poi ho iniziato il mio ministero sacerdotale nelle comunità della città di Shuozhou».

Il seminario e le comunità erano “ufficiali” o “clandestini”?
«Nella nostra zona non c’è stata mai questa divisione tra “ufficiali” e “clandestini”. Fin dal 1979, quando c’è stata la riapertura, tutti hanno capito che non c’era da perdere tempo a dividersi davanti alla politica del governo, e tutti hanno approfittato delle circostanze che potevano aiutare la Chiesa a rifiorire, dopo il tempo atroce della Rivoluzione Culturale».

In Occidente molti continuano a leggere le vicende della Chiesa in Cina secondo le etichette della “Chiesa clandestina” e della “Chiesa patriottica”.
«Nello Shanxi queste cose non hanno nessun senso. C’è solo qualcuno che si atteggia a “clandestino”, ma lo fa per motivi o interessi personali. Noi andiamo avanti. Abbiamo il Vangelo, abbiamo la successione apostolica e la comunione con il Papa.  Non ci manca nulla di quello che serve per vivere la fede e testimoniare Gesù Cristo nella Chiesa cattolica».

Quali sono adesso i fattori positivi e le cose che pesano più negativamente sull’opera apostolica e la missione della Chiesa?
«Nella nostra regione la cosa buona è che appunto non siamo divisi, c’è una certa armonia e comunanza di spirito, e questa è una benedizione. Nello stesso tempo, a volte siamo un po’ “lenti”, siamo statici, chiusi in noi stessi e nelle nostre abitudini. Non si vede più quel fervore apostolico che animava i preti negli anni della ripartenza, dopo la Rivoluzione Culturale. E questo esprime una debolezza nostra, un affievolirsi della fede che riguarda noi, interpella noi e non dipende tanto da fattori esterni su cui scaricare la colpa».

Lei è molto giovane. Ed è già vescovo da più di 10 anni. Come ricorda il vescovo che l’ha preceduta a Shuozhou?
«Era una persona aperta, che collaborava e dialogava con tutti. Non faceva polemiche inutili e cercava sempre di risolvere i problemi valutando le soluzioni possibili. Io sono stato ordinato vescovo nel febbraio 2004. Avevo 33 anni. Il governo non mi ha mai riconosciuto ufficialmente come vescovo. Dicono: tu sei stato fatto vescovo dal Vaticano, e noi non ti riconosciamo. Ma poi, di fatto, io posso lavorare e da parte loro c’è un implicito consenso. Non mi ostacolano, mi lasciano fare. Anche perché nemmeno io ho il problema di attirare l’attenzione o di creare polemiche inutili».

Quindi, sulla carta, anche lei appartiene alla lista dei vescovi cosiddetti “clandestini”. Dove celebra messa? E usa le insegne dell’episcopato?
«Di solito celebro la messa nella cattedrale, dedicata a Santa Maria Madre di Dio. E la domenica o nelle celebrazioni solenni, o in occasione delle professioni religiose, indosso anche il pastorale e la mitria. Esercito il ministero episcopale normalmente».

Come sono i suoi rapporti con l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi?
«Da noi l’Associazione patriottica non c’è. Prima c’era, ma adesso non c’è più».

E come mai?
«I responsabili che se ne occupavano sono morti di vecchiaia, qualcuno ha cambiato lavoro. La struttura si è dissolta da sé, e nessuno ha sentito la necessità di ricostituirla».

Come funzionano i rapporti con gli uffici del governo?
«I rapporti sono buoni. Quando abbiamo qualcosa da dire, ci rechiamo negli uffici dell’Amministrazione degli Affari religiosi (SARA). Se sono loro a doverci comunicare qualcosa, ci vengono a trovare. Facendo a meno dell’Associazione patriottica, che non esiste. Ma non ci sono grandi problemi, così non c'è bisogno d'incontrarci tanto spesso… Quando ci sono le grandi feste e alle messe partecipano migliaia di fedeli, allora loro vengono per dare una mano con un po’ di servizio d’ordine e per garantire un po’ di sicurezza…. Insomma, ci aiutano».

Il governo finanzia le attività della Chiesa?
«Qui dal governo non arrivano risorse alla Chiesa. Andiamo avanti con le offerte dei fedeli. Da noi molti sono contadini, e a volte non è facile. È sempre una scommessa. Le suore prima avevano hanno un asilo. Ma ora lo hanno lasciato. Abbiamo una casa per i malati. Ma non riusciamo a fare molto. E ci sarebbe tanto da fare».

Ci sono giovani che entrano in seminario?
«Le vocazioni stanno diminuendo. Adesso siamo travolti dai grandi fenomeni sociali della modernizzazione e del consumismo».

Secondo molti, questo rende i giovani sacerdoti cinesi più fragili di quelli di una volta. È così?
«Non so se si possono fare paragoni. Prima, nonostante tutto, i sacerdoti avevano grande autorevolezza anche sui fedeli. Tante persone non avevano studiato, erano povere e ignoranti. Seguivano i sacerdoti in tutto. Adesso è tutto un altro mondo. I giovani hanno studiato. La società continua a cambiare velocemente. Dobbiamo trovare le vie per portare avanti missione in questo nuovo contesto».

La Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI riconosce che la clandestinità non è la condizione normale per la vita e l'opera della Chiesa. Lei condivide questa considerazione?
«Certo. E logico. È più facile e più consono alla natura della fede cristiana poter crescere come Chiesa senza nascondere niente a nessuno, con il riconoscimento del governo e delle istituzioni civili. E questo aiuta anche a superare tante difficoltà pratiche».

Seguite il magistero di Papa Francesco?  E quale effetto ha la sua predicazione in Cina?
«Certo. Ha un impatto forte e immediato, perché tutti capiscono subito quello che dice. E quello che lui dice in maniera semplice e evangelica si può subito vivere in maniera concreta, nelle circostanze di ogni giorno. Anche io riprendo tante sue frasi e immagini nelle mie omelie, per confortare e incoraggiare i cristiani».

Il Papa ripete spesso che l'auto-referenzialità fa male alla Chiesa. Accade anche in Cina? E in quali forme?
«Assolutamente sì. Noi spesso ci chiudiamo nelle nostre cose. E il Papa ci aiuta a uscire da noi stessi, a riconoscere che la sorgente viva nella vita della Chiesa è l'amore di Dio per noi. E se portiamo l'amore di Dio a tutti quelli che vivono nella nostra società, proprio allora anche noi riscopriamo quanto è grande il dono che abbiamo avuto. Per questo l'essere ripiegati sui nostri problemi adesso rappresenta l'ostacolo più ingombrante. Mentre noi guardiamo a noi stessi, alle nostre cose, e magari in alcune regioni litighiamo e ci accusiamo tra “ufficiali” e “clandestini”, consumiamo energie in questi contrasti e non ci accorgiamo più del mondo che ci sta intorno. Così finisce che quasi ci dimentichiamo degli altri».

Sembra aprirsi la possibilità di una ripresa del dialogo tra Cina Popolare e Santa Sede. Cosa ne pensate, lei e i cattolici della sua diocesi?
«Certamente guardiamo con grande favore e grande attesa alla possibilità di un dialogo tra Cina e Santa Sede, che aiuti a risolvere i problemi ancora aperti. Questo serve proprio per favorire la missione e lo sviluppo sano della Chiesa, e Papa Francesco sta già facendo un grande lavoro. E' quello che ci vuole, adesso. Inoltre, il dialogo con il governo potrebbe favorire l'unità della Chiesa. E questo nel tempo ci darebbe più sicurezza anche nei rapporti con il governo. E renderebbe meno scontato che qualcuno possa approfittare dall’esterno delle nostre divisioni».

Il dialogo tra governo e Santa Sede affronterebbe anche il nodo dell'elezione dei vescovi. Quali sono i criteri da seguire su questo punto?
«Va sviluppato un rapporto armonioso con il governo. Ma in ogni caso deve essere chiaro che le nomine dei vescovi vanno fatte in modo conforme alla natura propria della Chiesa cattolica. Cioè occorre che sia garantita la piena comunione visibile di ogni vescovo con il vescovo di Roma, e con tutto l'episcopato cattolico del mondo».

Il governo può essere coinvolto nel processo di selezione?
«È bene tener conto di tutto, delle considerazioni delle autorità e delle istanze che vengono dalla diocesi. Il principio da salvaguardare è che non possono in nessun caso essere nominati vescovi senza il consenso del Successore di Pietro. Ma non mi sento di dare giudizi su come questo accordo dovrebbe funzionare in termini pratici».

E l'Associazione dei cattolici cinesi e gli altri organismi “patriottici”? Devono essere eliminati o possono continuare a esistere?
«Da noi, come ho detto, l'Associazione patriottica prima c'era, e anche a quei tempi la sua esistenza non metteva in crisi la nostra fedeltà e la comunione con il Papa. Poi si è estinta da sola, e siamo andati avanti bene lo stesso. Vuol dire che non è un organismo indispensabile per gestire i rapporti tra la Chiesa e il governo. Si può anche prevedere che continui a esistere, dove funziona. Ma non deve avere la pretesa di porsi al di sopra dei vescovi e di imporre la propria guida alle comunità ecclesiali».

Secondo lei come si può risolvere il problema dei vescovi non riconosciuti dal governo, e quello dei vescovi ordinati in maniera illegittima?
«Sono problemi che vanno risolti con il dialogo. Non ho da suggerire soluzioni preconfezionate. La Santa Sede troverà gli argomenti per far capire al governo che non conviene a nessuno che ci siano ancora ordinazioni episcopali non autorizzate e non benedette dal Papa. Il dialogo serve a questo, e nel dialogo si potrà affrontare anche la condizione in cui si trovano i vescovi illegittimi. Loro hanno sbagliato, se hanno accettato l'ordinazione pur sapendo che essa non sarebbe stata approvata dalla Sede Apostolica. Se fanno vedere che sono pentiti, la Santa Sede troverà la soluzione giusta».

Il Papa ha detto che verrà indetto un Anno giubilare della misericordia. Lei verrà in pellegrinaggio a Roma?
«Sarà difficile. E certo, più del pellegrinaggio, sarà utile cogliere l'occasione per convertirci nel cuore. Qui abbiamo tante ferite da curare, anche nella Chiesa. E di solito non agiamo secondo la misericordia, neanche tra di noi. Il tempo del Giubileo forse ci aiuterà a riscoprire che la misericordia è il cuore del Vangelo. E se si rinnova l'esperienza dell’amore di Cristo per noi, si rinnova anche la Chiesa, anche qui in Cina. Questo ci dice sempre anche Papa Francesco».

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Sulla Cina i cardinali duellano, ma i mandarini comandano il gioco 
 Chiesa - L'Espresso 
(Sandro Magister) "Nessun accordo è meglio che un cattivo accordo", dice Zen, criticando il segretario di Stato Parolin. Il papa tace. E Shanghai continua a restare senza il suo vescovo, da tre anni agli arresti --  "Se io ho voglia di andare in Cina? Ma sicuro: domani! Soltanto, la Chiesa chiede libertà per la sua missione, nessun’altra condizione". (...)