venerdì 27 marzo 2015

Effetto collaterale



Acutissima l'analisi di Massimo Gramellini.

La porta chiusa


Perché anche i passeggeri? Nei giornali come nelle case si ragiona con i pochi elementi a disposizione, ma è impossibile interrompere il percorso ossessivo dei pensieri. Di solito un depresso la fa finita in solitudine. Al più associa al sacrificio i familiari stretti, che considera una prosecuzione di se stesso. Ma il copilota che ha mandato l’aereo tedesco contro la montagna ha deciso di coinvolgere nel commiato degli sconosciuti. Peggio, degli sconosciuti che aveva appena incontrato. Lo immaginiamo all’imbarco, o sulla porta della cabina prima del decollo, mentre sorride alla comitiva di turisti e fa un cenno di saluto alla scolaresca in gita premio. Dopo avere visto in faccia le persone che gli erano state affidate, come ha potuto tradirle? Non si può neanche dire che, accecato dal suo male insondabile, a un certo punto abbia creduto di essere rimasto solo. Se ha chiuso la porta per impedire al comandante di rientrare in cabina, significa che era consapevole della realtà. Per compiere l’atto che lo ha isolato dal mondo doveva sapere che oltre quella porta c’era il mondo. E che lui lo stava condannando a morte. 

Non basta la depressione a spiegare una strage, così come nel caso dei terroristi islamici non basta la fede. Ci vuole il delirio di onnipotenza. E il culto della morte simbolica. Con la sua parte irrazionale il copilota avrà stabilito che proprio l’aereo, la sua vita, diventasse la sua morte. Il resto, centoquarantanove esseri umani, gli sarà sembrato un effetto collaterale. 


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L'abisso più fondo

di Marina Corradi

Se poi, fra qualche ora o qualche giorno, ci dicessero che il pilota che ha provocato volontariamente la sciagura era un seguace di un qualche integralismo assassino, la tragedia di Seynes-Les-Alpes ci apparirebbe, certo, molto più sinistra e drammatica per l’Occidente: ma, umanamente, meno incomprensibile. Perché sappiamo che le estreme derive del fanatismo politico e/o religioso producono morte e stragi; ma perfino i kamikaze agiscono pur sempre nella logica di una ricompensa, promessa nel loro "paradiso". Agiscono dentro una logica atroce, e tuttavia dentro una logica. Se invece, come assicurano gli inquirenti, Andreas Lubitz, cittadino tedesco, 28 anni, neo-pilota diplomato col massimo dei voti, non era un terrorista, allora ci troviamo di fronte al buio più insondabile.

Perché? Questa domanda ci si pianta davanti, ineludibile, come un treno deragliato sui binari di quella che, pur violenta, perfino criminale, chiamiamo tra noi "normalità" della vita. Follia, è la prima risposta che ci sale alle labbra. Un ragazzo che sogna fin da bambino di volare, che supera tutti gli esami con i voti migliori e ottiene perfino il "marchio" dell’ente americano che indica i piloti eccellenti. Agli occhi dei colleghi, mai un segno di squilibrio. Poi, repentina, la pazzia? Non è impossibile. Ci sono forme di psicosi che esordiscono di colpo, in soggetti spesso molto brillanti, cui mai nessuno attribuirebbe propositi suicidi. Ci sono casi di giovani che si ammazzano e lasciano attoniti gli amici, con cui ridevano la sera prima. Ci sono anche, sempre più diffuse, droghe che possono svegliare dalla latenza una psicosi, in persone predisposte. L’ipotesi follia non è dunque scartabile. Benché quel mattino, nel volo di andata, Lubitz fosse apparso normalissimo. E così al ritorno, fino a quando non è rimasto solo in cabina. Se follia, una follia lucida, che si controlla e non si tradisce. 

Ma, come ha detto il magistrato inquirente, "in genere, chi si suicida lo fa da solo". E invece la mostruosità di questo apparente suicidio è che ha chiamato con sé altri 149 uomini. Com’ è possibile che il giovane pilota abbia guardato salire i suoi colleghi e 144 passeggeri, uno ad uno, e abbia visto le facce degli studenti di ritorno da una vacanza, e i neonati in braccio alle madri, e non si sia fermato? Aveva già deciso, forse, mentre salutava sorridendo i viaggiatori?

In realtà, nessuno degli straordinari computer che gestiscono la nostra vita quotidiana, e cui guardiamo con devota deferenza, è complicato e oscuro quanto può esserlo il cuore di un uomo. Di tutti gli abissi, il più profondo. Così che bisogna pur dire - se si scarta la follia - che decidere di portare con sé nella morte una moltitudine di uomini, sconosciuti e tuttavia appena guardati in faccia, è un atto che ha in sé il marchio di una pura, devastante ansia di annientamento. 

Muoio io, sì, ma ne porto con me tanti. Muoio io, ma mi faccio padrone onnipotente delle vite degli altri. Come un dio, in fondo. Per odio a un mondo considerato ingiusto, o per rancore, o per chissà quale rabbia o vendetta? Un capriccioso dio del nulla, sotto la divisa di un giovane pilota.

E cosa devono essere stati, quei minuti, tra le grida del comandante impotente, e le montagne sempre più vicine. Nella scatola nera è rimasto il respiro di Lubitz, ma nemmeno una sua parola. Come non valesse la pena di pronunciarne una. Poi, nella registrazione si sentono le urla di quelli che hanno capito. Ma niente smuove quella mano dalla cloche. Davanti alla cabina ora si parano, immense, le Alpi innevate. Le cime candide e gli abissi, vertiginosi, nell’ombra. 

"Quando guardi l’abisso, l’abisso ti guarda", scrisse Nietzsche, ma chissà se Andreas Lubitz lo aveva studiato. Se non è stata follia, c’è qualcosa, nel suo gesto, della sfida da superuomo. Decido io, della vita e della morte, per me, e per questa moltitudine ignara. Poi, lo schianto che squarcia il silenzio dell’alpe. E la misericordia di Dio, e non il nulla, sopra quegli uomini, quei ragazzi, quei bambini.
Avvenire