mercoledì 25 febbraio 2015

Vorrei che il mondo vi invidiasse



L’arcivescovo Montini e le religiose.

Nel sessantesimo anniversario dell’elezione episcopale si è svolto dal 15 al 17 gennaio a Villa Cagnola il convegno «Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano», organizzato dall’arcidiocesi di Milano, dall’Istituto Paolo VIdall’Istituto Superiore di Studi Religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana Paolo VIPubblichiamo stralci di uno degli interventi. 
(Federica Maveri) Tra i primi gesti legati al magistero episcopale, il 21 gennaio 1955, Montini convocò a Milano in duomo tutte le religiose, per intraprendere con loro un percorso, scandito da quello che sarebbe divenuto un appuntamento annuale. Attraverso questi significativi incontri in duomo l’arcivescovo sviluppava, come nota Giselda Adornato, una «catechesi sistematica vera e propria sulla vita consacrata». Significativamente gli incontri (a parte il primo) si svolgevano l’11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes: Montini indicava in Maria il modello femminile e accostava la vocazione e la stessa figura della Madre di Dio a quella delle religiose, chiamandole le «Madonne di oggi».
Le religiose della diocesi, invitate annualmente dall’arcivescovo a uscire dal proprio convento per recarsi nella cattedrale, erano chiamate a esprimere — spiegava Montini — anche fisicamente l’originaria appartenenza alla «madre Chiesa», quale «comune denominatore» che le rendeva tutte «sorelle». Infatti tra le prime preoccupazioni dell’arcivescovo vi era quella di combattere il rischio dell’isolamento, dell’autoreferenzialità, degli ordini religiosi femminili. Complici, talvolta, anche i sacerdoti che consideravano quello delle religiose un mondo a parte, parallelo rispetto alla vita della diocesi. Non a caso l’importanza di questi incontri con l’arcivescovo, in duomo, non fu colta appieno: talvolta la «Rivista Diocesana Milanese» non vi faceva neppure cenno, così come «Diocesi di Milano. Terra ambrosiana». 
Al contrario, le religiose accolsero questi incontri con l’arcivescovo come una grande novità: racconta una di loro che si trattava della prima volta che tante religiose si trovavano adunate in cattedrale nelle loro «strane fogge di vestito, e prima quasi estranee tra loro, per un costume di vita chiuso e segregato». Dalla documentazione presente nell’archivio della Segreteria sembra anche di poter affermare che tale iniziativa pastorale suscitò una larga eco tra le diverse famiglie religiose, spinte così a rinnovare la propria adesione alla Chiesa. Si rileva infatti che questi incontri facilitarono un rapporto diretto e una notevole familiarità con l’arcivescovo, e non solo da parte delle madri superiori. Non mancarono casi in cui le religiose, sentendosi incomprese all’interno del proprio ordine, si sentivano però «capite» da Montini, e con estrema libertà non esitavano a sottoporre i propri problemi all’arcivescovo, talvolta all’insaputa delle loro superiori. Risulta anche che il magistero di Montini fu oggetto di meditazione all’interno degli ordini, divenendo uno strumento essenziale per la loro formazione. Così gli scriveva una religiosa: «Abbiamo in cuore le parole ispirate che ci avete detto, e nella mente c’è tracciato il programma spirituale che con tanto ardore ci avete delineato e che il volere di ciascuna di noi (...) si forzerà di attuare». 
In generale, si può notare che l’arcivescovo non solo intendeva sviluppare e approfondire il suo magistero, ma indicava alle religiose, una strada da seguire, fuori della quale la vita consacrata ne sarebbe risultata impoverita, e come defraudata di tutta la sua ricchezza. Montini, rivolgendosi per la prima volta a tutte le religiose nel 1955, diceva: «Desidero che voi mi siate unite. Voi mi dovete davvero, come figlie, essere vicine: voglio dire che voi dovete avere profondamente nell’anima il senso dell’unione che lega voi alla Chiesa, che lega voi al Vescovo, che vi compagina nell’unità del Corpo Mistico di Cristo Signore». È significativo che, come premessa ai vari insegnamenti che avrebbe sviluppato nel tempo, l’arcivescovo anteponesse l’appartenenza alla Chiesa universale, vissuta concretamente nel rapporto di figliolanza e nell’obbedienza al vescovo. 
Questo effettivo rapporto di figliolanza, cui corrispondeva una particolare attenzione pastorale, è uno degli aspetti che emerge dall’analisi della fitta corrispondenza intercorsa tra Montini e le religiose. Le carte testimoniano l’esistenza di un legame molto affettuoso e confidenziale. Alle suore marcelline confidava: «Mi sento felice in mezzo a voi». E sempre chiedeva di ricordarsi di lui: «Pregate per me. Ci conto». D’altro canto Montini si sentiva sostenuto nel suo magistero episcopale dalle religiose, dalle loro preghiere e dalle continue manifestazioni di affetto. Sorprende sia il tono della corrispondenza, sia il reciproco e continuo scambio di doni. L’arcivescovo mostrava una generosità e un’attenzione molto concreta, tanto che la badessa delle Benedettine aveva definito la «delicatezza» da lui usata nei loro riguardi come «materna», segno per le monache del «profumo della carità del Signore». 
Soprattutto nei momenti di difficoltà, l’arcivescovo era presente per soccorrere le necessità delle famiglie religiose. Per esempio, durante la grave malattia di Agiolina Reali, superiora delle suore di Carità, Montini si recò più volte alla casa di cura Città di Milano, dove era ricoverata. Anche quando la badessa di Viboldone, Margherita Marchi, era seriamente malata, Montini andò più volte da lei, suscitando tra le benedettine una «grande gioia» nella «prova tanto grave che persiste sulla Comunità» in prossimità del Natale. 
L’archivio della Segreteria documenta alcune circostanze problematiche che l’arcivescovo dovette affrontare, come per esempio crisi vocazionali o particolari difficoltà interne agli ordini religiosi. Tra gli altri, il caso di una suora che aveva preso le distanze in maniera poco chiara dalla propria famiglia religiosa, al fine di fondare un’opera per il recupero delle giovani sbandate. Montini richiamava la suora alle conseguenze della sua scelta, indicandogliela senza incertezze come sbagliata, e le mostrava però anche la possibilità di riscattarsi, ritornando sui propri passi.
Le varie lettere dell’arcivescovo, alle prese con difficoltà di ogni genere, permettono di individuare alcune costanti nel suo procedere: non solo seguiva con grande disponibilità e con una pazienza quasi inesauribile le religiose che a lui si rivolgevano, ma assumeva con cura tutte le informazioni necessarie a decidere il caso, per poi procedere senza «tentennamenti» quando la strada era imboccata. 
L’arcivescovo promosse poi, a tutti i livelli, la presenza e l’attività delle suore nei campi in cui erano già significativamente impegnate, dalla carità all’educazione, compiendo talvolta coraggiose scelte per la loro «modernizzazione». Montini, ad esempio, aiutò e spronò le marcelline ad aprire una casa a Londra, un pensionato a Losanna e un istituto femminile in Canada, per consentire alle loro alunne, giovani della borghesia milanese, di perfezionarsi nell’apprendimento delle lingue straniere, attraverso soggiorni all’estero. Le carte documentano anche l’esistenza di un corso, sostenuto dall’arcivescovo, destinato alle religiose, affinché imparassero a usare l’ultimo portato della tecnologia: le macchine calcolatrici dell’Olivetti. E ancora: per le monache di Viboldone, che si mantenevano con l’attività tipografica adoperando «misere e vecchie» apparecchiature, Montini fece arrivare dall’America una modernissima macchina tipografica.
Nell’ambito della carità, l’archivio della Segreteria documenta gli sforzi e le energie impiegate da Montini per rispondere alle richieste che provenivano dai nuovi poli ospedalieri. Ma il più delle volte, sia per il venir meno delle vocazioni, sia per la mancanza di un’adeguata preparazione infermieristica, le religiose non furono in grado di accettare nuovi incarichi, con grande dispiacere di Montini che in una di queste occasioni scriveva alla superiora delle suore di Carità: «Certo che è triste non poter soddisfare domande simili!». In quest’ottica vanno lette le frequenti esortazioni di Montini a «specializzarsi» per «mantenere posizioni importanti nel campo dell’assistenza e della carità», senza alcun complesso di inferiorità con le laiche, magari «munite di titolo qualificato [ma] prive dello spirito cristiano». 
Montini riteneva essenziale la collaborazione delle religiose nella vita della parrocchia, collaborazione non sempre facilitata dai parroci. L’arcivescovo, al contrario, riconosceva l’importanza decisiva del genio femminile, tanto che pensò a una nuova forma di apostolato e di aiuto all’attività del parroco, le «Ausiliarie diocesane». 
L’arcivescovo si documentò anche su quanto avveniva all’estero. Considerò esperienze analoghe come le Auxiliaires de l’Apostolat, nate per iniziativa del cardinale Desiré-Joseph Mercier nel 1917, presenti in Belgio e in Francia, che operavano come apostole laiche consacrate, alle dirette dipendenze del vescovo e al servizio della diocesi. Montini si era poi messo direttamente in contatto con la tedesca Margarete Ruckmich, la quale a metà degli anni Venti aveva collaborato a fondare a Friburgo il seminario per le assistenti pastorali al fine di dare un’adeguata formazione a quelle laiche, per lo più nubili, le Seelsorgehelferinnen, che in Germania nell’immediato dopoguerra, a causa della mancanza di sacerdoti, si occupavano di fatto delle principali attività della parrocchia. L’arcivescovo si interessò poi delle Operaie parrocchiali, leSeñoritas operarias Parroquiales, fondate dalla spagnola Maddalena Aulina, e da lui conosciute e apprezzate a Roma. 
Ma le «Ausiliarie diocesane» sarebbero nate solo in seguito, con l’arcivescovo Giovanni Colombo. Il progetto infatti non decollò durante l’episcopato di Montini probabilmente anche per le resistenze che l’arcivescovo incontrò tra alcuni sacerdoti, legati ancora a una visione subalterna della donna, e per questo restii ad accettare forme di collaborazione femminile che si legavano direttamente alla pastorale della parrocchia. 
Passando a considerare alcuni dei principali temi del magistero di Montini alle religiose, emerge innanzi tutto una problematica che egli riteneva importante affrontare, e cioè come il mondo moderno vedeva e considerava le religiose. L’arcivescovo notava che esse rappresentavano davanti «alla comune estimazione della gente quello che si chiama un fenomeno, qualcosa di strano, di singolare, si direbbe anche inconcepibile». Spiegava Montini che la vita religiosa era considerata come «un abdicare, quasi una inabilità a percorrere le stesse vie che ordinariamente la gioventù percorre»; e talvolta le religiose erano reputate «sorpassate», se non addirittura «contrarie alla vita, allo sviluppo moderno». Opinioni, queste, che erano emerse con toni accesi sulla stampa dell’epoca, in occasione dell’uscita, anche in Italia, nel 1960 del film La storia di una monaca
L’arcivescovo — che giudicava necessario capire la mentalità moderna non per marcare la distanza tra le religiose e il mondo, ma per entrare in dialogo con quest’ultimo — riteneva fondamentale mostrare che la scelta religiosa, ben lungi dal mortificare la personalità femminile, l’avrebbe al contrario realizzata e fatta fiorire. Le religiose non erano infatti «persone mancate» ma, all’opposto, donne «allegre e contente», pienamente compiute perché avevano scelto il «Bene che non smentisce le aspettative umane». 
Il primo modo di dare testimonianza agli uomini moderni era per le religiose quello di mostrare la loro gioia: «Siate felici! Vivete in letizia e felicità: questa è la vostra vocazione». Bisogna «dar testimonianza al Signore con la nostra felicità — ribadiva Montini — bisogna testimoniare che il Signore, chiamandoci al Suo servizio, non ci ha fatto infelici (...) E vorrei che il mondo che sta fuori vi invidiasse e dicesse: “Guarda, quelle lì che hanno lasciato tutto, come sono contente, quelle lì sì che sono felici, sono davvero anime privilegiate”». Anche alle monache di clausura Montini ricordava che il loro monastero doveva avere «una funzione esemplare, una capacità di irradiazione»: cosicché gli altri potessero «avere la gioia di stupirsi guardando a quella casa», luogo di «pace» e di «felicità». 
Tra i temi più ricorrenti nei discorsi che rivolgeva alle religiose, vi era quello della loro vocazione missionaria, dimensione che si realizzava nell’appartenenza alla Chiesa. Proprio per questo, nonostante le crescenti necessità della diocesi e l’insufficienza delle religiose, l’arcivescovo non cessava di valorizzare l’impeto missionario dei diversi ordini religiosi. Già durante gli anni romani, come sostituto alla Segreteria di Stato, aveva — per esempio — incoraggiato le suore di Santa Marta a varcare l’oceano per andare in Cile. Mentre durante il suo episcopato le suore della Carità furono coinvolte nella missione in Sud Africa, voluta e promossa dall’arcivescovo. La dimensione missionaria non era infatti per Montini un’attività che si aggiungeva alle altre, ma rappresentava una caratteristica imprescindibile dell’essere cattolici, del sentire cum Ecclesia
Uno dei maggiori pericoli che Montini temeva per le famiglie religiose era il ripiegamento su se stesse, la chiusura e una certa concezione particolaristica. Al contrario, il fatto di appartenere a uno specifico ordine religioso — spiegava — doveva far sentire le religiose «non delle allontanate», ma delle «inserite», «ancor più figlie delle Chiesa», spalancate alla sua dimensione universale. A questo proposito l’arcivescovo riprese lo slogan lanciato durante un Convegno di gioventù studentesca — «Amate con le dimensioni del mondo» — e lo ripropose a tutte le religiose, perché erano, affermava, le più facilitate a comprenderlo. Infatti, anche se attraverso la consacrazione a Dio si erano distaccate dal mondo e dalla sua mentalità, non dovevano essere estranee alla società, ma anzi per scelta erano «sprofondate in essa, a confortare, a consolare». Proprio per il punto di vista che avevano assunto come consacrate, le religiose erano «in grado di capire il mondo», poiché sapevano guardarlo «un poco come il Signore lo guarda, con immensa compassione». 
L’esito era per Montini quasi paradossale: «Mentre siete uscite dal mondo, nessuno appartiene al mondo così come voi, religiose, che non portate più gli abiti del mondo e non giudicate più come il mondo. Voi siete più degli altri di questo mondo, perché vi siete poste al servizio del mondo, perché ponete la vostra vita a prezzo della sua salute». Questo atteggiamento di apertura nasceva e si alimentava dal legame con la Chiesa e dalla certezza della fede: «Non velatevi, per la vostra vita religiosa, lo sguardo sul mondo; guardatelo con me. (…) Lanciatevi pure di fronte a questo mondo. Misuratevi pure con questo mondo che vi circonda: avete in mano il pegno della vittoria». 
Si può dunque concludere che Montini rivolse un’attenzione particolare verso le religiose, sia attraverso il suo magistero sia tramite un’attenta e operosa cura pastorale. Promosse in ogni modo la presenza e l’attività delle religiose nello svolgersi della vita della diocesi, richiamando le singole famiglie religiose alla loro appartenenza alla Chiesa universale. E tutto ciò si inscriveva nel più ampio disegno montiniano non di fuga, ma di incontro con il mondo moderno, nel superamento di qualsiasi atteggiamento difensivo.
L'Osservatore Romano