giovedì 26 febbraio 2015

Senza paura di perdere la faccia


Di fronte a chi è in difficoltà usiamo il bastone della rigidità e delle categorie stabilite oppure l’abbraccio della misericordia? È questa l’ultima domanda lasciata alla meditazione dei presenti da padre Bruno Secondin, nel pomeriggio di mercoledì 25 febbraio, a conclusione della giornata degli esercizi spirituali quaresimali in corso ad Ariccia per il Papa e la Curia romana.Nell’ambito della riflessione sul tema del «lasciarsi sorprendere da Dio», il carmelitano si è soffermato sulla lettura del brano biblico di Elia e la vedova di Sarepta (1 Re, 17, 2-24) accostato a quello parallelo nel quale Eliseo fa risorgere il figlio della Sunammita (2 Re, 4, 25-37). Un contesto che ha portato il predicatore a sottolineare un aspetto fondamentale nella vita di fede, il fatto, cioè, che «i poveri ci evangelizzano».
La vedova povera che, pur avendo solo «un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio», ospita Elia, diventa occasione propizia di crescita interiore per il profeta. Elia, ha sottolineato padre Secondin, «era scorbutico, aggressivo». Gli stessi padri della Chiesa commentando questi passi biblici suggeriscono che «Dio cerca di raddrizzare Elia affinché si ammansisca». E il profeta viene quindi inviato a Sarepta dove riceve una prima lezione dalla donna: la povertà e la morte affrontate con dignità.
Inizialmente il profeta, attraverso il miracolo del cibo che non finisce, si presenta in vesti potenti, taumaturgiche. Poi però la morte del figlio della vedova lo costringe a un’altra dimensione: si sente impotente e può solo invocare Dio, «affidarsi a Dio in nudità», riconoscere che lui ha solo il potere «di gridare il suo dubbio e di implorare». Ed è allora, di fronte ai suoi gesti teneri e all’ammissione della sua debolezza, che la vedova riconosce un altro volto di Dio: il «Dio di compassione», il «Dio di misericordia», il «Dio che abbraccia, che porta nella sua identità la nostra ferita».
È una storia che provoca domande per la storia personale di ognuno: «Siamo capaci di incontrare i poveri per arrivare a incontrare la verità? O abbiamo paura di perdere la faccia?»; sappiamo riconoscere e abbracciare chi ha un «“bimbo morto” nel suo cuore: violenze, traumi infantili, divisioni, orrori...»? La nostra parola è quella saccente del taumaturgo o «la parola che implora»? Di fronte a situazioni di dolore «mandiamo avanti il canonista», usiamo «il bastone» o adoperiamo «le braccia per abbracciare»?
Scelte concrete, atteggiamenti chiari, come quelli suggeriti anche dalla prima meditazione di giovedì 26, nella quale padre Secondin si è soffermato sul tema della giustizia. Tema centrale perché, ha sottolineato il predicatore, «l’impegno per la giustizia è parte integrante della nostra sequela di Cristo, perché i poveri sono i privilegiati del Vangelo: non è una mania populistica».
Un altro episodio della vita di Elia narrato nel primo libro dei Re (21, 1-29) ha fornito lo spunto per la riflessione. Il re Acab vuole acquistare la vigna dell’umile Nabot, ma il contadino rifiuta perché non vuole fare torto all’eredità ricevuta dai suoi padri. Allora la perfida regina Gezabele organizza un’assemblea rituale con i rappresentanti del popolo nella quale, grazie a due false testimonianze, accusa Nabot di blasfemia e lo fa uccidere, consentendo così ad Acab di ottenere il suo “giocattolo”. Elia allora pronuncia la condanna divina contro Acab, il quale si pente ottenendo da Dio un’attenuazione della pena.
Un testo lungo, nel quale le psicologie dei vari personaggi — Acab il frustrato, Gezabele la potente senza scrupoli, Nabot il pio, i rappresentanti del popolo privi di coscienza e succubi di dinamiche di stampo mafioso — possono mettere allo scoperto anche tanti aspetti delle nostre vite. Un testo che ha offerto l’occasione al predicatore carmelitano per lanciare molte provocazioni.
Quante volte, ad esempio, «elementi sacri sono usati come copertura di procedimenti iniqui»? Veri e propri «abissi di violenza vengono aperti in nome di Dio» e «anche tra noi cristiani» si ritrova «il sonno della coscienza». Ma, ha rimarcato padre Secondin, «quanto dovranno gridare i poveri e gli oppressi?». E pensando alle violenze che si consumano in Africa e in Medio oriente, si è chiesto: «La coscienza degli europei non ha niente da rimproverarsi?». Il richiamo che viene dalle Scritture è forte: «dobbiamo stare dalla parte di tutti i Nabot della terra, difendere i diritti, accogliere le vittime, spronare le coscienze, promuovere strutture, perché la terra è di Dio, è un dono per la vita di tutti e non per i capricci di qualcuno».
Ma la Scrittura, ha detto il predicatore, propone anche una «pedagogia dei piccoli gesti». Occorre, cioè, «cominciare da noi stessi», convertire il proprio stile di vita, rivedere i consumi («quanto spreco di cibo...»), avere trasparenza nell’agire, fare il proprio dovere con onestà, non esercitare l’autorità come potere e come fonte di privilegi. E ancora: «spezzare l’omertà, le coperture, gli abusi».
Padre Secondin è tornato quindi a considerare dinamiche e problemi di interesse planetario: di fronte a violenze come quelle dell’inquinamento, dell’accaparramento delle terre fertili e delle acque a danno dei popoli locali, o come quelle finanziarie nelle quali senza scrupoli, con un semplice “clic”, fanno morire le persone, dobbiamo recuperare la forza del canto del Magnificat e «avere il coraggio di denunciare». Perché «Dio non sopporta i prepotenti». Ecco allora la domanda che ha concluso la meditazione: «Sappiamo familiarizzare pubblicamente con gli umiliati, con gli scarti della violenza, o abbiamo paura di perdere la faccia per il Vangelo»?
L'Osservatore Romano