mercoledì 25 febbraio 2015

OLTRE LA MINACCIA

Mercoledì – I settimana del Tempo di Quaresima
Spesso quando sentiamo il nome di Giona, ci raffiguriamo quella persona che, con molta fatica, ha accettato di essere profeta di un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore» (Gn 4,2). Conoscendo già il finale del libro, dove il perdono divino si scontra con il caratteraccio di Giona, siamo immediatamente portati a pensare che sia proprio la misericordia l’atteggiamento di Dio che risulta inaccettabile allo svogliato profeta. Una lettura attenta del testo ci costringe, però, a riflettere. 

In  quel tempo, fu rivolta a Giona questa Parola del Signore:
«Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico» (3,1)

Il Signore non dice a Giona di proclamare la notizia della sua misericordia, ma di rivolgere alla città malvagia la voce asciutta e aspra di una solenne minaccia. Questo è infatti il mandato del profeta, sin dall’inizio: «Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me» (1,2). Infatti, il profeta — probabilmente senza alcuna voglia di farlo — si mette a percorrere tutta la città annunciando con poche parole l’imminente rischio di morte.

Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava:
«Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta» (3,4)

L’avvertimento e la dichiarazione di questa possibile sanzione sono per Nìnive un segno sufficiente a mettere in moto un grande processo di cambiamento, che passa attraverso un momento penitenziale collettivo, in cui tutto il creato sembra essere coinvolto: grandi e piccoli, uomini e animali, i cittadini e il re. Insomma, da una semplice parola — pronunciata pure contro voglia — scaturisce una conversione esemplare. Niente del genere ha davanti agli occhi il Signore Gesù, mentre le folle sembrano cingerlo con grande entusiasmo. 

In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire:
«Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, 
ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona» (Lc 11,29)

Forse nessuno di noi definirebbe malvagità la pretesa di un segno, la richiesta di un’ulteriore conferma. Anche perché, oggi, abbiamo ormai emancipato e sdoganato il bisogno di essere raggiunti nei nostri bisogni fondamentali. Si tratta di un’acquisizione — in certe forme e misure sicuramente legittima — di una cultura che ha posto al centro del suo interesse la persona e la sua ricca umanità. Eppure il ruvido atteggiamento di Gesù ci costringe a chiederci se, in fondo a questa attesa, non si nasconda talvolta la pretesa di ricevere quello che, in realtà, tocca a noi dover cercare e scoprire, come hanno fatto gli abitanti di Nìnive. 

«Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno 
e noi non abbiamo a perire!» (Gn 3,9)

Di fronte alle minacce — anche quelle di Dio — e ai sensi di colpa — di cui abbiamo sempre piene le sporte — la Quaresima ci annuncia che c’è un cielo paziente da (ri)scoprire, non un vittimismo in cui ripiegarci. La conversione, in fondo, resta un movimento che solo noi possiamo compiere. Perché solo noi siamo chiamati a gustare la gioia che la conversione (a Dio) riserva: riconoscere che, oltre gli avvertimenti e le sanzioni con cui la vita continuamente ci ammaestra, esiste un solo Dio, quello disposto a cambiare ogni suo progetto in nostro favore.  

Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia,
e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece (3,10)