martedì 24 febbraio 2015

Giù la maschera

Gli esercizi spirituali della Curia romana. 


Per intraprendere un corretto cammino quaresimale di conversione occorre innanzitutto riscoprire la «verità più profonda di noi stessi, uscire allo scoperto» e «toglierci ogni maschera, ogni ambiguità». Con questo forte richiamo a riprendere con sincerità in mano la propria storia il carmelitano Bruno Secondin ha concluso, nella meditazione pomeridiana di lunedì 23 febbraio, la riflessione della seconda giornata degli esercizi spirituali quaresimali in corso ad Ariccia per il Papa e la Curia romana.
Seguendo l’esperienza di Elia descritta dalle Scritture, il predicatore ha messo a confronto la «clandestinità» dalla quale il profeta venne chiamato dal Signore a uscire, con quella clandestinità nella quale spesso ci si nasconde e che molte volte viene mascherata da una religiosità solo esteriore, priva del coraggio della verità.
Base della riflessione del predicatore è stato il capitolo 18 del primo libro dei Re, con il popolo d’Israele e il re Acab fiaccati dalla lunga carestia provocata dal culto idolatrico a Baal e con Elia chiamato dal Signore a presentarsi ad Acab per ricondurlo sulla retta via. Non è stata una lettura continuativa ma un richiamare scene, personaggi che possono illuminare la meditazione personale e diventare per ognuno provocazioni, richiami, suggerimenti.
Filo conduttore è stato l’«uscire allo scoperto», il liberarsi dalle «ambiguità» e avere il «coraggio» di una vita autenticamente cristiana.
Il primo a essere chiamato a uscire dalla clandestinità è proprio Elia: «Va’ a presentarti ad Acab» gli dice il Signore. Elia, l’inafferrabile, il mitico profeta che può sparire da un momento all’altro, deve rivelarsi e affrontare il rischio di incontrare il re che lo vede come un nemico. È una provocazione per quanti nella Chiesa invece fanno sempre i loro calcoli, rimandano continuamente, sono «vittime delle parole e delle diplomazie» e «si tirano indietro». Invece per il cristiano «ci sono sempre nuove avventure» alla quali non ci si può sottrarre «con la scusa delle minacce di un Acab di turno» o perché condizionati da miti, da pregiudizi sulle persone, dalle convenienze delle «amicizie e delle cordate».
Un altro personaggio che viene chiamato a uscire allo scoperto è Abdia, il maggiordomo di Acab inviato dal re per contattare Elia. Abdia è il rappresentante di una coscienza lacerata che non dimentica di appartenere a una tradizione diversa ma, al tempo stesso, «non rinuncia ai vantaggi del potere». È come tanti anche oggi: impaurito nonostante la spinta interiore che lo richiama alla difesa della verità. 
Anche a lui, e non solo al popolo — ecco il successivo personaggio — Elia rivolge il forte richiamo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra?». È come se, ha ricordato padre Secondin, a loro e a tutti anche oggi il profeta intimasse: «Finitela con questa sceneggiata!». 
E a questo punto appare una realtà molto dura: il popolo tace, non risponde: «il sistema ha ucciso la sua coscienza». Quante volte, ancora adesso, ha commentato il predicatore, «i regimi, i sistemi dissanguano i popoli»; quante volte restiamo «spettatori impauriti» davanti a guerre fatte per procura; e, per restare nell’ambito della vita religiosa, quante volte ci lasciamo affascinare da «apparati elefantiaci, mega cattedrali, mega complessi», da una metodologia che si lascia guidare dalla gloria e dimentica i poveri.
Ecco allora che Elia convoca il popolo e lo provoca a un’ordalia, a una prova del fuoco che metta a confronto la presunta potenza di Baal con quella del Signore d’Israele. E il popolo viene attirato da questa forma di “religiosità spettacolare”, cosa che purtroppo accade anche oggi quando la fede «viene misurata con le statistiche» e si risolve in «manifestazioni in cui non si sa se si è di fronte a happening o a fede vera». Ma, ha fatto notare il carmelitano, è importante il gesto del profeta che «si avvicina al popolo per coinvolgerlo». 
Un concetto ripreso anche nella prima meditazione di martedì 24: «Abbiamo il coraggio di coinvolgere il popolo, o facciamo il giro delle sette chiese prima di interpellarlo?». È quindi uno spunto per riflettere su certe scelte della Chiesa del nostro tempo: «Trattiamo le cose importanti tra pochi intimi o sappiamo avere una strategia di visibilità che spiazza il sistema?». Quanta sofferenza, ad esempio, «ci hanno provocato certi temi sensibili», ha detto padre Secondin, che ha aggiunto: «Non dobbiamo nascondere i nostri scandali» ed è importante che «le vittime dell’ingiustizia siano portate a guarigione con la nostra umiltà di riconoscere gli errori».
Il riconoscimento delle colpe della Chiesa è emerso anche in riferimento a un altro episodio. Prendendo spunto dal terribile gesto di Elia che fa giustiziare i profeti di Baal, il predicatore ha infatti invitato a ricordare come la Chiesa nella sua storia è stata capace di atti violenti. «Anche noi abbiamo bruciato persone, abbiamo ammazzato» ha detto. E ha sottolineato che oggi tanta violenza può esprimersi sotto altre forme, «anche senza la spada», utilizzando ad esempio la forza dirompente della lingua e persino i nuovi mezzi di comunicazione: «A volte anche la tastiera ne uccide più della spada!».
È questo uno degli aspetti che il carmelitano ha messo in evidenza nella giornata in cui, proseguendo nella lettura della vicenda di Elia, è passato ad analizzare un altro atteggiamento necessario alla conversione: dopo il coraggio di uscire allo scoperto, di dirsi la verità su se stessi, di gettare la maschera che anestetizza le nostre coscienze, viene la necessità di incamminarsi su «sentieri di libertà» e di eliminare quegli atteggiamenti che ci fanno «oscillare da una parte all’altra» e di lasciare spazio a Dio.
Vedendo come Elia sbeffeggia la ritualità violenta e scenografica che il popolo d’Israele utilizza per invocare Baal, padre Secondin ha accennato a un certo culto «chiassoso, superstizioso» che ancora adesso si incontra e che «non edifica la vera fede». Quali sono — si è chiesto — i nostri idoli? L’elenco è lungo: «orgoglio, ambizione, cultura, carriera». Ma, e qui giunge il passo in avanti, non possiamo dubitare della misericordia di Dio. La risposta di Dio è il fuoco, «la misericordia che tutto prosciuga, tutto trasforma».
Per questo Elia ricostruisce un altare con le dodici pietre che ricordano le dodici tribù d’Israele: vuole richiamare tutti a un’identità. E se anche il popolo è refrattario a tornare sui suoi passi, ciò non mette paura a Dio, perché egli «rimane fedele e disponibile». Dio è sempre «un abbraccio di misericordia». E allora, ha detto il predicatore, bisogna «prendere per mano il risveglio della coscienza della gente», utilizzare — come è stato capace di fare Elia — strategie intelligenti e la forza del linguaggio dei simboli. Per fare questo, però, occorre prima di tutto chiedersi: «Il nostro cuore appartiene realmente al Signore» o ci accontentiamo di atteggiamenti esteriori? «La nostra preghiera è audace e invoca il bene del popolo?». È «cadenzata da un senso ecclesiale?». Sentiamo l’urgenza di vivere esperienze forti, straordinarie, che lasciano il segno, o ci accontentiamo?
L'Osservatore Romano