mercoledì 25 febbraio 2015

Che cosa vuol dire "paternità responsabile"?


La genitorialità umana è qualcosa che non si può ridurre al legame biologico, ma che accoglie la vita, le dona un nome e la inserisce dentro una storia


di S. Cognigni
Questo articolo vuole essere una riflessione sul concetto di paternità responsabile alla luce della metafora utilizzata recentemente dal Santo Padre nel viaggio aereo di ritorno da Manila, metafora che, estrapolata dal contesto dalla stragrande maggioranza delle testate giornalistiche nazionali e internazionali, ha fatto molto velocemente il giro del mondo, suscitando più di una polemica anche all’interno del mondo cattolico.
A tale riguardo mi è capitato di imbattermi in più di un articolo in cui si commentava il riferimento alla prolificità in modo quantomeno sarcastico, indicativo di una certa superficialità, nell’interpretazione delle parole di Bergoglio.
A questo proposito vorrei  proporre alcune riflessioni sulla paternità responsabile.
La genitorialità umana è qualcosa di molto diverso e di non riducibile a ciò che accade nel regno animale. La genitorialità nel regno animale è infatti interamente governata dall’istinto, cioè da una tendenza innata e automatica ad adottare un comportamento che mira alla conservazione della specie.
In altre parole la genitorialità animale è interamente soggetta all’automatismo e alla ciclica ripetitività dell’istinto e il legame tra la mamma e il suo cucciolo è, dall’inizio alla fine, governato dalle leggi della genetica e della biologia.
La questione della genitorialità nel mondo umano è qualcosa di molto diverso e non riducibile a una faccenda di ovuli e spermatozoi.
Cosa vuol dire essere un genitore? Cosa vuol dire mettere essere padre e madre?
Citando Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, tra i più prolifici intellettuali contemporanei, possiamo dire che nel mondo umano “la genitorialità è sempre adottiva”.  
Cosa significa? Vuol dire che la genitorialità umana si realizza nell’atto di adozione simbolica che il genitore compie nei confronti del suo cucciolo, in quell’atto cioè che fa dire al genitore: “tu sei mio figlio!”.
La condizione del neonato alla nascita, insegna Freud, è quella del not des lebens (urgenza del vivere), cioè tutto lo psichismo del bambino (ancora inesistente) è pressato dai bisogni fondamentali, c’è uno stato di bisogno che genera tensione e dispiacere.
Il bambino grida come effetto di questa tensione, ma questo grido non è ancora una domanda, poiché il neonato non sa che c’è un altro che può occuparsi di lui, anche perché non c’è ancora un “lui” che possa dirsi tale.
È l’intervento inatteso e inaspettato dell’altro genitoriale, è questo atto di adozione simbolica, che consente di trasformare questo grido in un appello, in una domanda d’amore.
È l’incontro inaspettato con il desiderio che vivifica la vita e la salva dal non-senso del grido; è questo intervento dell’altro che consente al cucciolo d’uomo di fare esperienza di non esser nato per caso, ma che piuttosto qualcuno lo stava aspettando e stava aspettando esattamente lui.
Per tutte queste ragioni la genitorialità umana è qualcosa che non si può ridurre al legame biologico, ma che piuttosto si sostanzia nell’atto di adozione, in questo “Sì!” che accoglie la vita, le dona un nome e la inserisce dentro una storia.
In tal senso possiamo trovare un esempio paradigmatico di quanto stiamo dicendo nella figura di San Giuseppe, che è il prototipo del padre, che è colui che con il suo “Sì!” accoglie Gesù come figlio.
Se, dunque, la genitorialità umana è sempre una genitorialità adottiva, ne consegue che un cristiano non fa figli seguendo l’automatismo e la ciclicità di un istinto (ovviamente, questo è scontato), ma non fa figli neanche seguendo l’applicazione meccanica di una Legge morale, tipo imperativo categorico kantiano, da applicare in modo automatico, al di là di ogni considerazione, di ogni pathos, al di là di quel “Sì!” soggettivo necessario ad umanizzare e accogliere la vita; in tal senso il caso limite degli otto cesarei citato dal Santo Padre nella sua intervista appare paradigmatico.
Essere prolifici non è dunque una questione di tipo numerico: se hai fino a tre figli sono abbastanza, se ne hai di più di tre sono troppi (lettura decisamente semplicistica e superficiale delle riflessioni del Papa proposta da molti giornali).
Paradossalmente, anche un figlio solo può essere troppo, mentre sei, sette o anche otto, possono essere invece il frutto di quel “Sì!” che ogni volta si rinnova e che accoglie la vita, come ha fatto San Giuseppe con Gesù.