mercoledì 28 gennaio 2015

«Hanno portato via il Signore». Le chiese senza Cristo

Un altare secondo la riforma liturgica del Vaticano II

di Luisella Scrosati
L’Arcidiocesi di Cebu, nelle Filippine, lo scorso 17 dicembre ha emanato una circolare con alcune direttive sulla disposizione dell’arredo liturgico nelle chiese (clicca qui). La circolare richiama continuamente a una non ben precisata Conferenza liturgica della Commissione sulla Liturgia della Conferenza Episcopale delle Filippine. Le indicazioni relative ad altare, ambone, candele, etc. si situano chiaramente in una linea che, potremmo chiamare, minimalista. Basti pensare a quella che riguarda la presenza del crocefisso sull’altare: in barba alla raccomandazione di Benedetto XVI ed al suo esempio, «il crocefisso», dice la circolare, «può essere messo vicino all’altare… Non si esorta a porre un piccolo crocefisso sull’altare, se c’è già un crocefisso visibile nella chiesa o cappella. Se invece non c’è un crocefisso nella chiesa o cappella, allora si può mettere un piccolo crocefisso sull’altare, con il corpo rivolto verso i fedeli e non verso il sacerdote». 
Questa direttiva sembra ignorare, se non addirittura rigettare, l’insegnamento e la prassi ripresa daBenedetto XVI. L’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, spiegò in illo tempore le ragioni della scelta del Pontefice di porre il crocefisso al centro dell’altare (clicca qui). Non si trattava di avere da qualche parte del santuario un’immagine di Gesù crocefisso, quanto piuttosto di ridare un centro alla liturgia, ri-orientarla, a motivo della grande diffusione degli altari “verso il popolo”. Il Maestro delle Celebrazioni Pontificie, mons. Guido Marini, si premurava di spiegare che «la posizione del sacerdote “verso il popolo”, pur non essendo obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il significato antico di preghiera “orientata” e suggerì di ovviare alle difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocefisso (cf. Teologia della Liturgia, p. 88). Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben visibile, pena la sua scarsa efficacia». 
Come non detto. Fa certamente impressione come, da un po’ di tempo a questa parte, la fine di unpontificato per certe persone significhi l’archiviazione dell’insegnamento di quel Pontefice. Si veda come si sta liquidando senza troppi scrupoli, il magistero di Giovanni Paolo II sulla famiglia. Quello però che più colpisce è l’indicazione relativa alla posizione del tabernacolo per la custodia delle Sacre Specie: «nella costruzione delle nuove chiese, il posto del tabernacolo non dovrebbe trovarsi all’interno del santuario, ma a fianco, vicino al santuario o in una cappella separata». La storia della custodia eucaristica è certamente complessa e non uniforme, ma essa mostra che c’è una direzione chiara e progressiva che guida i vari cambiamenti relativi al posto dove custodire il Santissimo Sacramento (clicca qui). Per i primi secoli c’è qualche indicazione sulla custodia nelle case dei fedeli; già le Costituzioni apostoliche, però, databili verso la fine del IV secolo, indicano il passaggio della custodia delle Sacre Specie nelle chiese, in appositi luoghi, chiamati Pastophoria. Gradualmente scomparve l’uso di conservare il Santissimo nelle case private e si affermò quello di custodirlo nelle chiese. 
Nel periodo carolingio, la custodia nelle chiese divenne l’unica prassi e si stabilizzò in diverse forme: la colomba eucaristica (soprattutto in Francia e Gran Bretagna), il propitiatorium, i tabernacoli a muro, la riserva nelle sacristie o anche le “casette del sacramento” (Sakramentshäuschen), che erano in realtà delle torri interne alle chiese. A determinare questo passaggio dalle case alle chiese e poi, nelle chiese, verso modalità sempre più curate, non semplicemente funzionali alla custodia dell’Eucaristia per la Comunione degli ammalati, fu il progressivo approfondimento del grande mistero dell’Eucaristia, spinto anche dalle controversie medievali (si pensi a quella tra Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie); non ultimo, la grande massa di popolazioni barbariche che si stavano convertendo al cristianesimo consigliò maggiore cura nella custodia dell’Eucaristia, per evitare profanazioni. L’altro grande punto di svolta si situa alla metà del XVI secolo quando, recependo probabilmente un’indicazione dell’allora vescovo di Verona, la diocesi di Milano ordinò di posizionare il tabernacolo sopra l’altare maggiore. La prassi si diffuse gradualmente, sotto la spinta del grande San Carlo Borromeo. 
Anche in questo caso è importante capire le cause che favorirono questo cambiamento: la crisiprotestante comportò una diffusa messa in discussione della dottrina sulla presenza sostanziale di Cristo nell’Eucaristia. La Chiesa si trovò quindi in dovere di promuovere una più profonda pietà eucaristica; e più di ogni catechesi – occorre ricordarlo anche per la pastorale contemporanea – furono i gesti a plasmare la fede e la pietà: portare il tabernacolo sull’altare maggiore comunicava ai fedeli, più di tante parole, la realtà della presenza di Cristo anche al di fuori dell’azione liturgica. Dopo il Concilio Vaticano II si sono susseguiti molti documenti e interventi, non sempre felici. 
E, in effetti, il risultato è sotto gli occhi di tutti: la pietà eucaristica è sempre più in diminuzione, come già si faceva notare nell’Instrumentum Laboris del Sinodo del 2005: «Sarebbe da verificare se la rimozione del tabernacolo dal centro dell'area presbiterale ad un angolo non evidente e degno o in una cappella appartata […] non possa in qualche modo contribuire alla diminuzione della fede nella presenza reale» (n. 41). È quanto di più logico ci possa essere. Come si può pensare che le persone mettano l’Eucaristia al centro della propria vita, se poi non la trovano al centro delle proprie chiese? Anzi, non la trovano nemmeno nella chiesa? E che le cose stiano proprio così, lo dimostra l’esortazione post-sinodale Sacramentum Caritatis (2007), che al n. 69 afferma: «La sua corretta posizione [del tabernacolo, n.d.r.], infatti, aiuta a riconoscere la presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento. È necessario pertanto che il luogo in cui vengono conservate le specie eucaristiche sia facilmente individuabile, grazie anche alla lampada perenne, da chiunque entri in chiesa. A tale fine, occorre tenere conto della disposizione architettonica dell'edificio sacro: nelle chiese in cui non esiste la cappella del Santissimo Sacramento e permane l'altare maggiore con il tabernacolo, è opportuno continuare ad avvalersi di tale struttura per la conservazione ed adorazione dell'Eucaristia, evitando di collocarvi innanzi la sede del celebrante. Nelle nuove chiese è bene predisporre la cappella del Santissimo in prossimità del presbiterio; ove ciò non sia possibile, è preferibile situare il tabernacolo nel presbiterio, in luogo sufficientemente elevato, al centro della zona absidale, oppure in altro punto ove sia ugualmente ben visibile». Le parole sono chiare; e la disobbedienza della Commissione Liturgica filippina pure.
Nel 1846, il beato cardinale Newman, ancora anglicano, in visita a Milano (si noti che a Milano tutte le chiese avevano il portone centrale spalancato) ebbe a dire: «È davvero stupendo vedere questa divina Presenza che dalle varie chiese quasi guarda fuori nelle strade aperte, così che a S. Lorenzo abbiamo veduto che la gente si levava il cappello dall'altra parte della strada quando passava». Se tornasse oggi, e non solo a Cebu, piangerebbe come la Maddalena: «Hanno portato via il mio Signore»!