venerdì 19 dicembre 2014

Padre Raniero Cantalamessa: Terza predica d'Avvento. Testo integrale.



Di seguito il testo della Terza Predica di Avvento 2014, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, ofmcap., predicatore della Casa Pontificia.

***
1. La pace frutto dello Spirito
San Paolo pone la pace al terzo posto tra i frutti dello Spirito: “Il frutto dello Spirito, dice, è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé” (Gal 5, 22). Cosa sono “i frutti dello Spirito”, lo scopriamo proprio analizzando il contesto in cui tale idea ricorre. Il contesto è quello della lotta tra la carne e lo spirito, cioè tra il principio che regola la vita dell’uomo vecchio, pieno di concupiscenze e voglie terrene, e quello che regola la vita dell’uomo nuovo, condotto dallo Spirito di Cristo. Nell’espressione “frutti dello Spirito”, “spirito” non indica lo Spirito Santo in se stesso, quanto il principio della nuova esistenza, o anche “l’uomo che si lascia guidare dallo Spirito”.
A differenza dei carismi, che sono opera esclusiva dello Spirito, che li dà a chi vuole e quando vuole, i frutti sono il risultato di una collaborazione tra la grazia e la libertà. Sono, dunque, ciò che intendiamo oggi per virtù, se diamo a questa parola il senso biblico di un abituale agire “secondo Cristo”, o “secondo lo Spirito”, anziché il senso filosofico aristotelico di un abituale agire “secondo retta ragione”. Ancora, a differenza dei doni dello Spirito che sono diversi da persona a persona, i frutti dello Spirito sono identici per tutti. Non tutti nella Chiesa possono essere apostoli, profeti, evangelisti; ma tutti indistintamente, dal primo all’ultimo, possono e debbono essere caritatevoli, pazienti, umili, pacifici.
La pace frutto dello Spirito è dunque distinta dalla pace dono di  Dio e dalla pace come compito per cui lavorare. Indica la condizione abituale (habitus), lo stato d’animo e lo stile di vita di chi, mediante lo sforzo e la vigilanza, ha raggiunto una certa pacificazione interiore. La pace frutto dello spirito è la pace del cuore. Ed è di questa cosa tanto bella e tanto desiderata che oggi parleremo. Essa è, sì, distinta dal compito di essere operatori di pace, ma serve meravigliosamente anche a questo scopo. Il titolo del messaggio di papa Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace del 1984 diceva: “La pace nasce da un cuore nuovo” e Francesco d’Assisi, mandando i suoi frati per il mondo, raccomandava loro: “La pace che annunciate con la bocca, abbiatela anzitutto nei vostri cuori”.[1]
2. La pace interiore nella tradizione spirituale della Chiesa
Il raggiungimento della pace interiore o del cuore ha impegnato lungo i secoli tutti i grandi cercatori di Dio. In Oriente, a cominciare dai Padri del deserto, tale sforzo si è concretizzato nell’ideale della hesychia, cioè dell’esicasmo, o della quiete. In esso si è osato proporsi e proporre agli altri un traguardo altissimo, se non addirittura sovraumano: sottrarre alla mente ogni pensiero, alla volontà ogni desiderio, alla memoria ogni ricordo, per lasciare alla mente il solo pensiero di Dio, alla volontà il solo desiderio di Dio e alla memoria il solo ricordo di Dio e di Cristo (la mneme Theou). Una lotta titanica contro i pensieri (logismoi), non solo quelli cattivi, ma anche quelli buoni. Esempio estremo di questa pace ottenuta con una guerra feroce, è rimasto nella tradizione monastica il monaco Arsenio il quale, alla domanda “che devo fare per salvarmi?”, si senti rispondere da Dio: “ Arsenio, fuggi, taci e mantieniti nella quiete” (alla lettera, pratica l’hesychia)[2].
Più tardi questa corrente spirituale darà luogo alla pratica della preghiera del cuore, o preghiera ininterrotta, tuttora largamente praticata nella cristianità orientale e di cui “I racconti di un pellegrino russo” sono l’esempio più suggestivo. All’inizio però non si identificava con essa. Era un modo per giungere alla perfetta tranquillità del cuore; non una tranquillità vuota e fine a se stessa, ma una tranquillità piena, simile a quella dei beati, un cominciare a vivere in terra la condizione dei santi in cielo.
La tradizione occidentale ha perseguito lo stesso ideale ma per altre vie, accessibili sia a quelli che praticano la vita contemplativa che a quelli che praticano una vita attiva. La riflessione comincia con Agostino. Egli dedica un libro intero del De civitate Dei a riflettere sulle diverse forme della pace, dando per ognuna una definizione che ha fatto scuola fino ai nostri giorni, tra cui quella classica della pace come “tranquillitas ordinis”, tranquillità dell’ordine.
Ma è soprattutto con quello che dice nelle Confessioni che Agostino ha influito nel delineare l’ideale della pace del cuore. Egli rivolge a Dio, all’inizio del libro una parola destinata ad avere una risonanza immensa in tutto il pensiero successivo: “Tu ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]. Più avanti egli illustra questa affermazione con l’esempio della gravità. Scrive:
“Nella buona volontà è la nostra pace. Ogni corpo, a motivo del suo peso, tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo… Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto”.[4]
Finché siamo su questa terra il luogo del nostro riposo è la volontà di Dio, l’abbandono ai suoi voleri. “Non si trova requie se non si consente alla volontà di Dio senza resistenza”[5]. Dante Alighieri riassumerà questo pensiero agostiniano nel suo celebre verso: “En la sua volontate è nostra pace”[6].
Solo in cielo questo luogo di riposo sarà Dio stesso. Agostino termina, perciò, la sua trattazione del tema della pace con un appassionato elogio della pace della Gerusalemme del cielo che vale la pena ascoltare per infiammarci anche noi del desiderio di essa:
“Vi è poi la pace finale […] In quella pace non è necessario che la ragione domini gli impulsi perché non ci saranno, ma Dio dominerà l’uomo, l’anima spirituale il corpo e sarà così grande la serenità e la disponibilità alla sottomissione, quanto è grande la delizia del vivere e dominare. E allora in tutti e singoli questa condizione sarà eterna e si avrà la certezza che è eterna e perciò la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà il sommo bene”.[7]
La speranza di questa pace eterna ha improntato tutta la liturgia dei defunti. Espressioni come “Pax”, “In pace Christi”, “Requiescat in pace” sono le più frequenti sulle tombe dei cristiani e nelle preghiere della Chiesa. La Gerusalemme celeste, con allusione all’etimologia del nome, è definita “beata pacis visio”[8], beata visione di pace.
3. La via della pace
La visione di Agostino della pace interiore come adesione alla volontà di Dio trova una conferma e un approfondimento nei mistici. Maestro Eckhart scrive: “Nostro Signore dice: ‘In me soltanto avrete pace’ (cf. Gv 16,33). Più si penetra in Dio, più si penetra nella pace. Chi ha ormai il suo io in Dio ha la pace; chi ha il suo io fuori di Dio non ha la pace”[9]. Non si tratta quindi soltanto di aderire alla volontà di  Dio, ma di non avere altra volontà che quella di Dio, di morire del tutto alla propria volontà. La stessa cosa si legge, sotto forma di esperienza vissuta, in santa Angela da Foligno: “Successivamente la divina bontà, di due volontà, ne fece una sola, di modo che non posso volere se non come vuole Dio.[…] Non mi trovo più nella solita condizione, ma sono stata condotta a una pace, in cui sto con lui e sono contenta di ogni cosa”[10].
Uno sviluppo diverso, ascetico più che mistico, si ha con sant’Ignazio di Loyola con la sua dottrina della “santa indifferenza”.[11] Essa consiste nel porsi in uno stato di totale disponibilità ad accogliere la volontà di Dio, rinunciando, in partenza, a ogni preferenza personale, come una bilancia pronta a inclinarsi dal lato dove sarà il peso maggiore. L’esperienza della pace interiore diventa così il criterio principale in ogni discernimento. È da ritenersi conforme al volere di Dio, la scelta, che dopo prolungata ponderazione e preghiera, è accompagnata da maggior pace del cuore.
Nessuna sana corrente spirituale però, né in Oriente né in Occidente, ha mai pensato che la pace del cuore sia una pace a basso prezzo e senza sforzo. Provò a sostenerlo, nel medio evo, la setta “del libero Spirito” e nel secolo XVII, il movimento quietista, ma furono entrambi condannati dalla gerarchia e dalla coscienza della Chiesa. Per mantenere e accrescere la pace del cuore bisogna domare, momento per momento, specie agli inizi, una rivolta: quella della carne contro lo spirito.
Gesú lo aveva detto in mille modi: “Chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso”, “chi ama la propria vita la perderà, chi perde la propria vita la troverà” (cf. Mc 8, 34-35). C’è una falsa pace che Gesú dice di essere venuto a togliere, non a portare sulla terra (cf. Mt 10, 34). Paolo tradurrà tutto questo in una specie di legge fondamentale della vita cristiana:
“Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.... Se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rom 8, 5-13).
L’ultima frase contiene un insegnamento importantissimo. Lo Spirito Santo non è la ricompensa ai nostri sforzi di mortificazione, ma ciò che li rende possibili e fruttuosi; non è solo alla fine ma anche all’inizio del processo: “Se, mediante lo Spirito, fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. In questo senso si dice che la pace è frutto dello Spirito; essa è il risultato del nostro sforzo, reso possibile dallo Spirito di Cristo. Una mortificazione volontaristica e troppo fiduciosa di se stessa può diventare (e lo è diventata spesso) anch’essa un’opera della carne.
Tra coloro che hanno illustrato lungo i secoli questa via alla pace del cuore, spicca, per concretezza e realismo, l’autore della Imitazione di Cristo. Egli immagina una specie di dialogo tra il Maestro divino e il discepolo, come tra un padre e il proprio figlio:
Maestro:“Figlio mio, ora ti insegnerò la via della pace e della vera libertà”.
Discepolo: “Fa’, o Signore, come tu dici; mi è gradito ascoltare il tuo insegnamento”.
Maestro: “Studiati, o figlio, di fare la volontà di altri, piuttosto che la tua. Scegli sempre di aver meno, che più. Cerca sempre di avere il posto più basso e di essere inferiore a tutti. Desidera sempre, e prega, che in te si faccia interamente la volontà di Dio. Un uomo che faccia tali cose, ecco, entra nel regno della pace e della tranquillità”.
Un altro mezzo suggerito al discepolo è di evitare la vana curiosità:
“Figliolo, non essere curioso; non prenderti inutili affanni. Che t’importa di questo e di quello? «Tu seguimi » (Gv 21,22). Che ti importa che quella persona sia di tal fatta, o diversa, o quell’altra agisca e dica così e così? Tu non dovrai rispondere per gli altri; al contrario renderai conto per te stesso. Di che cosa dunque ti vai impicciando? Ecco, io conosco tutti, vedo tutto ciò che accade sotto il sole e so la condizione di ognuno: che cosa uno pensi, che cosa voglia, a che cosa miri la sua intenzione. Tutto deve essere, dunque, messo nelle mie mani. E tu mantieniti in pace sicura, lasciando che altri si agiti quanto crede, e metta agitazione attorno a sé: ciò che questi ha fatto e ciò che ha detto ricadrà su di lui, poiché, quanto a me, non mi può ingannare” [12].
4. “Pace perché in te ha fiducia”
Senza pretendere di sostituire questi mezzi ascetici tradizionali, la spiritualità moderna mette l’accento su altri mezzi più positivi per conservare la pace interiore. Il primo è la fiducia e l’abbandono in Dio. “Tu gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia”, si legge in Isaia (26, 3). Gesú, nel Vangelo, motiva il suo invito a non temere e a non essere in ansia per il domani, con il fatto che il Padre celeste sa di che abbiamo bisogno, lui che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo “ (cf. Mt 6, 5 ss).
Questa è la pace di cui è diventata maestra e modello Teresa di Gesú Bambino. Un esempio eroico di questa pace che viene dalla fiducia in Dio è stato anche il martire del nazismo Dietrich Bonhöffer. Mentre era in carcere e in attesa della esecuzione capitale, egli scrisse alcuni versi che sono diventati un inno liturgico in molti paesi anglosassoni:
Da forze amiche a meraviglia avvolti
attendiamo fiduciosi l’avvenire.
Dio è con noi di sera e di mattino,
sarà con noi in ogni giorno nuovo[13].
Il nome rivelato da Dio a Mosè, secondo alcuni grandi esegeti moderni (G. von Rad) non indica tanto l’essenza divina quanto la sua esistenza; non dovrebbe perciò tradursi “Colui che è”, l’Essere per se”, ma “Colui che c’è, che è con noi  e per noi, “sempre vicino nelle angosce” (Sal 46,2). E’ l’affermazione che più ha colpito sulla bocca dell’attore che, nella settimana scorsa, ha commentato in TV i Dieci comandamenti, ma essa non è nuova e ha solide basi.
Uno studioso francescano, Eloi Leclerc, nel suo libro La saggezza d’un povero, racconta come Francesco d’Assisi ritrovò la pace in un momento di profondo turbamento. Era rattristato dalla resistenza di alcuni al suo ideale e sentiva il peso della responsabilità della numerosa famiglia che Dio gli aveva affidato. Partì dalla Verna e andò a San Damiano a trovare Chiara. Chiara lo ascoltò e per incoraggiarlo gli portò un esempio.
“Supponiamo che una delle nostre sorelle venisse da me a scusarsi d’aver rotto un oggetto. Ebbene, io le farei senza dubbio un’osservazione e le infliggerei, come d’uso, una penitenza. Ma se ella venisse a dirmi d’aver dato fuoco al convento e che tutto è bruciato o quasi, credo che in tal caso non avrei nulla da ribattere. Io mi sorprenderci sopraffatta da un avvenimento più grande di me. La distruzione del convento è un fatto troppo grande perché io possa esserne profondamente turbata. Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide”.
Francesco capì la lezione e rispose:
“L’avvenire di questa grande famiglia religiosa che il Signore ha affidato alle mie cure costituisce un fatto troppo importante perché possa dipendere da me solo e dalle mie deboli forze, sì ch’io ne resti turbato. È un fatto, questo, di Dio. Voi l’avete ben detto. Ma pregate che questa parola fiorisca in me come un seme di pace”[14].
Il Poverello tornò tra i suoi rasserenato, ripetendo a se stesso lungo la strada: “Dio c’è, e tanto basta! Dio c’è e tanto basta!” Non è un episodio storicamente documentato, ma interpreta bene, nello stile dei Fioretti, un momento della vita di Francesco e contiene una importante lezione.
Ma ci avviciniamo al Natale e io vorrei mettere in luce quello che credo sia il mezzo più efficace per conservare la pace del cuore e cioè la certezza di essere amati da Dio. “Pace in terra agli uomini che Dio ama”, alla lettera: “Pace in terra agli uomini del (divino) beneplacito (eudokia)” (Lc 2, 14). La Volgata traduceva tale termine con “buona volontà” (bonae voluntatis), intendendo con essa la buona volontà degli uomini, o gli uomini di buona volontà. Ma si tratta di una interpretazione errata, oggi riconosciuta da tutti come tale, anche se per rispetto alla tradizione, nel Gloria della Messa, si continua ancora, almeno in italiano, a dire “e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Le scoperte di Qumran hanno apportato la prova definitiva. “Uomini, o figli, della benevolenza” sono detti, a Qumran, i figli della luce, gli eletti della setta[15]. Si tratta dunque degli uomini che sono oggetto della benevolenza divina.
Presso gli esseni di Qumran “il divino beneplacito” discrimina; sono soltanto gli adepti della setta. Nel vangelo “gli uomini della divina benevolenza” sono tutti gli uomini, senza eccezione. È come quando si dice “gli uomini nati da donna”; non si intende dire che alcuni sono nati da donna e altri no, ma solo caratterizzare tutti gli uomini in base al loro modo di venire al mondo. Se la pace fosse accordata agli uomini per la loro “buona volontà”, allora sì che essa sarebbe limitata a pochi, a quelli che la meritano; ma siccome è accordata per la buona volontà di Dio, per grazia, essa è offerta a tutti.
“Assueta vilescunt”, dicevano i latini; le cose ripetute spesso sviliscono, perdono mordente, e questo succede purtroppo anche con le parole di Dio. Dobbiamo fare in modo che non succeda anche in questo Natale. Le parole di Dio sono come dei fili elettrici. Se ci passa dentro la corrente, a toccarli danno la scossa; se non ci passa nessuna corrente, o si hanno dei guanti isolanti, si possono maneggiare quanto si vuole, non danno nessuna scossa.
La potenza e la luce dello Spirito è sempre in atto, ma dipende da noi raccoglierla, mediante la fede, il desiderio e la preghiera. Che forza, che novità, contenevano quelle parole: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”, quando furono proclamate per la prima volta! Dobbiamo rifarci un orecchio vergine, l’orecchio dei pastori che l’udirono per primi e “senza indugio”, si misero in viaggio.
San Paolo ci indica un metodo per superare tutte le nostre ansietà e ritrovare ogni volta la pace del cuore, mediante la certezza di essere amati da Dio. Scrive:
“Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui? […] Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati.” (Rom 8, 31-37)
La persecuzione, i pericoli, la spada: non si tratta di un elenco astratto o immaginario; sono i motivi di angoscia che egli ha sperimentato, di fatto, nella sua vita; li descrive ampiamente nella Seconda Lettera ai corinzi (cf 2 Cor 11, 23 ss). L’Apostolo li passa ora in rassegna nella sua mente e constata che nessuno di essi è così forte da reggere al confronto con il pensiero dell’amore di Dio. Implicitamente, l’Apostolo invita a fare lo stesso anche noi: a guardare la nostra vita, così come essa ci si presenta, a portare a galla le paure e i motivi di tristezza che vi si annidano e che non ci fanno accettare serenamente noi stessi: quel complesso, quel difetto fisico o morale, quell’insuccesso, quel ricordo penoso; esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio ci ama e concludere con l’Apostolo: “In tutte queste cose, posso essere più che vincitore, in virtù di colui che mi ha amato”.
Dalla sua vita personale, l’Apostolo passa, subito dopo, a considerare il mondo che lo circonda. Scrive:
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati; né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 37-39).
Egli osserva il “suo” mondo, con le potenze che lo rendevano allora minaccioso: la morte con il suo mistero, la vita presente con le sue lusinghe, le potenze astrali o quelle infernali che incutevano tanto terrore all’uomo antico. Siamo invitati, anche qui, a fare lo stesso: a guardare, alla luce dell’amore di Dio, il mondo che ci circonda e che ci fa paura. Quello che Paolo chiama l’“altezza” e la “profondità”, sono per noi ora l’infinitamente grande in alto e l’infinitamente piccolo in basso, l’universo e l’atomo. Tutto è pronto a schiacciarci; l’uomo è debole e solo in un universo tanto più grande di lui e divenuto, per giunta, ancora più minaccioso, in seguito alle sue scoperte scientifiche, alle guerre, alle malattie incurabili, oggi al terrorismo... Ma nulla di tutto ciò può separarci dall’amore di Dio. Dio c’è, e tanto basta!
Santa Teresa d’Avila, ci ha lasciato una specie di testamento, che è utile ripeterci ogni volta che abbiamo bisogno di ritrovare la pace del cuore: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi; tutto passa, Dio non cambia; la pazienza ottiene tutto; a chi ha Dio nulla gli manca. Solo Dio basta”[16]
Che il Natale del Signore, Santo Padre, Venerabili padri, fratelli e sorelle, sia davvero per noi, come diceva san Leone Magno, “il natale della pace”: con  Dio, con il prossimo e nei nostri cuori!
*
NOTE
[1] Legenda dei tre compagni, 58 (Fonti Francescane, n.1469)
[2] Apophtegmi, Arsenio 1-2
[3] S. Agostino, Confessioni, I, 1.
[4] Ib. XIII, 9.
[5] S. Agostino, Adnotationes in Iob, 39
[6] Paradiso, 3, v.85
[7] S. Agostino, De civitate Dei, XIX, 27.
[8] Inno dell’ufficio della Dedicazione della Chiesa.
[9] Meister Eckhart, Prediche, 7 (Ed. J. Quint, Deutsche Werke, I,. Stuttgart 1936, p. 456)
[10] Il libro della Beata Angela, VII (ed. Quaracchi, 1985, p. 296).
[11] Cf. G. Bottereau, Indifference, in “Dictionnaire de Spiritualité , vol 7, coll. 1688 ss
[12] Imitazione di Cristo, III, 23-24.
[13] Von guten Mächten wunderbar geborgen /erwarten wir getrost, was kommen mag.
Gott ist mit uns am Abend und am Morgen / und ganz gewiss an jedem neuen Tag.
[14] E. Leclerc, La sagesse d’un pauvre, Paris, Desclée de Brouwer,  22e éd. 2007.
[15] Cf Inni, I QH, IV, 32 s, (XI, 9) (I manoscritti di Qumran, a cura di L. Moraldi, UTET, Torino 1971, pp. 386 e 428).
[16] “Nada te turbe, nada te espante, todo se pasa, Dios no se muda; la paciencia todo lo alcanza; quien a Dios tiene nada le falta. Solo Diòs basta”.