mercoledì 31 dicembre 2014

Manifesto Queer Vegan ed altre storie...

GENDER: il fondamento ideologico dell’alleanza “Queer - Vegan”

GENDER: il fondamento ideologico dell’alleanza “Queer – Vegan”

(Lupo Glori) Cosa hanno in comune la teoria queer, ossia il pensiero gender portato alle estreme conseguenze, e l’animalismo vegano, fautore di una dura critica allo specismo, inteso come l’ideologia grazie alla quale può «mantenersi e prosperare uno sfruttamento della vita animale sempre più intensivo e specializzato» (p. 9)? L’attivista animalista canadese, Rasmus Rahbek Simonsen, ce lo spiega nel breve saggio Manifesto Queer Vegan (Ortica Editore, Aprilia 2014), a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio, auspicando una alleanza ideologica tra i due movimenti in nome della comune battaglia contro le norme e i confini etici posti dal sistema sociale dominante.
Il punto di partenza di tale riflessione sono le elucubrazioni filosofiche e la critica alla società occidentale antropocentrica di Peter Singer e Tom Regan, ispirate, a loro volta, all’utilitarismo del filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832). Da qui deriva l’ideologica distinzione tra animali umani e non umani finalizzata a mettere sullo stesso piano gli uomini e le bestie, negando, in un’ottica evoluzionista, l’esistenza di un primato dell’uomo sugli animali e di alcuna differenza di specie. L’uomo privato dell’anima, della ragione e della libertà viene ridotto ad un essere “senziente” al pari degli animali. Lo “specismo” inteso come teoria volta ad affermare la superiorità della “specie umana” sugli animali, viene, così, considerato dagli animalisti come un pregiudizio equiparabile al “razzismo” o al “sessismo”. Ciò che attribuisce dignità di persona ad un essere vivente non sono la ragione e la volontà, ma la sua capacità di “autocoscienza” e di “desiderio”. Una delirante visione che porta il filosofo australiano Singer ad affermare: «uno scimpanzé, un cane, un maiale, per esempio, avranno un ben più alto grado di autocoscienza ed una maggiore capacità di relazioni significative con gli altri rispetto ad un bambino gravemente ritardato o a qualcuno in stato di avanzata vecchiaia» (Liberazione animale, LAV, Roma 1987, p. 20).
Se il primo “antispecisimo”, al fine di migliorare la condizione animale, si era limitato a ricercare «tratti propriamente umani (…) negli animali, trasformando alcuni di loro in una specie di umanoidi incompiuti e marginali» (Manifesto Queer Vegan, p. 10), successivamente, il cosiddetto “movimento di liberazione animale” ha, infatti, compiuto un deciso balzo in avanti, sganciando la propria analisi critica da ogni tipo di riferimento umano. Da una prospettiva identitaria ed antropocentrica, nella quale il metro di valutazione era appunto l’umano, si è passati ad una prospettiva della indistinzione che ha annullato la suddivisione tra l’Umano el’Animale, ponendoli su di un unico piano indifferenziato. In questo senso, notano i curatori del saggio nella prefazione: «oggi le componenti più avvedute del movimento di liberazione animale non intendono tanto definire nuove tassonomie – “più umane” (…) quanto piuttosto mostrare la bestialità di ogni tassonomia, una volta che si è immersi nella deflagrante (im)potenza del divenire animale» (p. 11).
Secondo Simonsen, oggi, la critica allo “specismo”, che si identifica nel movimento filosofico del “veganismo”, ha perso la sua purezza e radicalità teorica iniziale, trasformandosi, inconsciamente, da pensiero rivoluzionario a nuovo stile di vita, piegato, anche esso, a tendenze e logiche “istituzionalizzate”. Contro tale visione “eretica” dell’antispecismo l’attivista canadese, nel suo “Manifesto”, afferma la necessità di «sovvertire il significato del termine “vegano” per riportarne alla luce il potenziale straniante, deterritorializzante, perturbante – in una parola, queer» (p. 13). In tale ottica, Simonsen propone l’alleanza queer-vegan, due mondi, all’apparenza distinti, ma che condividono, in realtà, le stesse radici teoriche e i medesimi fini ideologici. L’attivista animalista mette infatti in luce le analogie che legano i due movimenti, sottolineando come il movimento femminista-queer abbia seguito un percorso simile a quello intrapreso dall’antispecismo: «dalla rivendicazione di un’identità egualitaria tra i due sessi, all’esaltazione delle molteplici differenze di genere per concludersi nell’indistinzione rizomatica costituita dall’intreccio di sesso, genere e desiderio…(..)» (p. 14).
Nella prefazione al Manifesto i curatori Filippi e Reggio precisano i termini dell’alleanza fra queervegan proposta da Simonsen, specificando come essa non sia un semplice matrimonio di interesse quanto piuttosto, «un rapporto da perseguire fino alla deflagrazione delle architetture su cui l’”Umano” si è eretto. Qui è in gioco né più né meno, il compito di destabilizzare l’idea stessa di categoria, a partire dallo scandalo che si realizza ogniqualvolta una persona si rifiuta di cibarsi di animali o di sottostare alle regole di genere dichiarandosi una forma di vita critica e creativa» (pp. 18-19).
L’originalità e la carica rivoluzionaria di tali prese di posizione critiche nei confronti delle norme e delle prassi stabilite risiede nel rifiuto di costituire nuove identità forti quali il vegano o il queerper dare vita, al contrario, a nuovi soggetti fluidi e complessi, per definizione, in divenire. Il minimo comune denominatore tra il movimento queer e quello vegan è l’orgogliosa rivendicazione della devianza, intesa come comportamento antisociale e antinormativo: «Diventare vegani significa imparare, sempre e dovunque, a sfidare e a negare le norme dell’antropocentrismo. Il veganismo queer afferma la devianza.(…) La devianza è il fulcro manifesto di questo scritto, ciò che assicura l’interconnessione tra queer e vegano» (pp. 34-35). Simonsen chiarisce il concetto di queer, inteso come rifiuto del concetto stesso di identità, richiamandosi al pensiero di un’altra attivista dei diritti degli animali, Carmen Dell’Aversano, secondo cui: «il queer non mira a consolidare o a stabilizzare l’identità, meno di tutte la propria; il suo scopo principale è invece quello di sviluppare una critica dell’identità che non dovrebbe condurre all’egemonia di identità nuove o alternative, ma alla presa di congedo da questa categoria» (p. 37).
L’animalista canadese critica, inoltre, la pretesa di una parte del movimento vegano di apparire “ordinari” rivendicando orgogliosamente la propria anormalità e il proprio rigetto delle norme costituite. Da tali tendenze normalizzanti, secondo l’autore del Manifesto queer-vegan, non sono immuni neanche le organizzazioni animaliste più popolari come la PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) accusate di manipolare il messaggio vegan, promuovendo un modello normalizzato piegato alle logiche sociali. In tal senso, secondo Simonsen, diventare “veri vegani” significa divenire queer in tutta la sua «spregevole differenza» (p. 50), facendo propria la lettura del veganismo del teorico queer inglese Lee Edelman, inteso come una forma di resistenza metaforica e materiale all’ordine sociale dominante.
L’autore tenta, infatti, di far dialogare il pensiero vegano con la visione No Future di Edelaman e di altri teorici queer critici nei confronti della prassi e del linguaggio rivoluzionari ancorati ad un utopico avvenire da realizzare. In questo senso Simonsen, accanto alle forze conservatrici, biasima il progetto rivoluzionario teso a costruire un futuro strutturato sul vecchio schema ideologico eteronormativo. In tale prospettiva, il veganismo queer mette in luce «il fatto che le strutture simboliche e ideologiche che legittimano il consumo di carne rispecchiano quelle dell’eteronormatività» (p. 70); eteronormatività che si propone di stabilire le regole sessuali e alimentari, facendo si che l’omofobia si alimenti di vegefobia, «dal momento che la scelta di mangiare diversamente, soprattutto per i maschi, viene associata all’effeminatezza e alla carenza di virilità» (p. 71). Da tali assunti teorici consegue l’alleanza naturale tra veganismo e teoria queer in una ottica critica alle «spinte sociali normalizzanti» (p. 71).
L’alleanza tra pensiero queer e antispecismo si fonda, dunque, sulla reciproca condivisione della “devianza” intesa come negazione della normalità. In tale prospettiva, l’onnivorismo e l’eterosessualità vengono considerati concetti normali in quanto “naturalizzati” dalla società occidentale attraverso la loro ripetizione incessante nel tempo. Sia i queer che i vegani sono promotori di una cosiddetta “etica negativa” che va ad infrangere schemi di esistenza consolidati. Se l’essere queer contrasta il valore assoluto della riproduzione andando contro il progetto sessuale naturale, il veganismo, secondo Simonsen, «mette in crisi un sistema fondato sulla negazione del valore delle vite non umane». Teorici queer e vegani, accomunati dal loro interesse per la devianza, «incarnano una volontà ostinata di perturbare e intralciare il funzionamento sociale delle norme sessuali, di genere e alimentari» (p. 76). Una visione che nega esplicitamente il concetto stesso di natura umana affermando come «la barriera ontologica ed esistenziale eretta tra l’umano e il non umano è inaccettabile» (p. 82).
In conclusione del suo manifesto Simonsen scopre le carte rivelando le estreme conseguenze delle sue deliranti teorie: «A mio modo di vedere, l’etica vegana dovrebbe immaginare e istituire comunità fondate sulla condivisione di spazi materiali ed affettivi all’interno delle specie e tra di loro» (p. 85); parole che lasciano spazio alle più perverse interpretazioni. Una volta messa da parte ogni criterio valutativo per potere giudicare la realtà in maniera logica e coerente, anche il comportamento più aberrante diviene possibile ed accettabile. La verità non è più un dato oggettivo, conosciuto attraverso l’adesione dell’intelletto al reale, quanto un dato soggettivo, conosciuto attraverso un processo di costruzione progressiva in continuo divenire. In questo caos schizofrenico, fondato su una “rivoluzione permanente”, la società è inevitabilmente destinata ad implodere ed autodissolversi. (Lupo Glori)

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ABORTO: storie di ordinario orrore nel 2014


(Alfredo De Matteo) La triste realtà è che il crimine legalizzato dell’aborto di stato non suscita più alcuna reazione, almeno nell’opinione pubblica, se non nel momento in cui lo pseudo diritto di abortire subisce qualche battuta d’arresto. Succede che l’assenza di medici non obiettori al Policlinico Umberto I di Roma blocchi temporaneamente il servizio delle cosiddette interruzioni di gravidanza, garantito dall’iniqua legge 194, e che pertanto la cronaca dei quotidiani ne parli come di un grave disservizio cui le istituzioni debbono prontamente rimediare; succede altresì che venga rubricato come un grave episodio di malasanità una mancata diagnosi di malformazione di un bimbo giunto alla 22a settimana di gestazione.
In breve i fatti: è l’8 marzo (giorno estremamente significativo …) del 2013 quando la mamma della piccola creatura si reca all’ospedale Fatebenefratelli di Roma per effettuare una ecografia morfologica, come da prassi, e l’esame non evidenzia alcun problema. Passano pochi giorni e la donna si sottopone ad un’ulteriore ecografia, stavolta in un’altra struttura, al solo scopo di poter scattare delle foto al suo bambino; l’esito è però decisamente diverso dal precedente in quanto le viene diagnosticata una grave malformazione ad entrambe le braccia del bambino.
Per evitare di incontrare in Italia troppi ostacoli (sic!) la madre decide di disfarsi del suo bambino recandosi in Francia, dove evidentemente le maglie della legge abortista sono, se possibile, ancora più larghe di quelle nostrane e dove soprattutto il “problema” dei medici obiettori non è così rilevante come lo è, per fortuna, nel nostro paese. Il risultato finale è l’uccisione di una creatura indifesa e l’incredibile paradosso dell’avvio di una pratica legale di richiesta risarcimento danni all’ospedale Fatebenefratelli, la cui colpa non è quella di aver cagionato la morte di un innocente a causa della negligenza dei medici bensì di averla ritardata, con conseguente stress fisico e psicologico causato alla mamma omicida, e di aver corso il rischio di non cagionarla!
La fredda cronaca riportata dai giornali si guarda bene dal descrivere l’orrore di un aborto effettuato alla 22° settimana: un’autentica opera di macelleria umana in cui il bambino, ormai completamente formato, viene letteralmente fatto a pezzi tra indicibili (seppur silenziosi) tormenti. Nemmeno il fatto che la vera o presunta malformazione riscontrata attraverso l’ecografia non era comunque tale da mettere in pericolo di vita né il bambino né tantomeno la madre, e che pertanto l’eliminazione dell’individuo “difettoso” è a tutti gli effetti una pratica di selezione eugenetica che assomiglia molto alla filosofia nazista ed al suo modus operandi, suscita dubbi o perplessità: tutto normale per i cultori della legalità in salsa politically correct, tranne lo scandalo di una donna “costretta” ad emigrare in Francia per eseguire la condanna a morte di un innocente a causa di una diagnosi (forse) errata. Un mondo alla rovescia, dunque, in cui il male è chiamato bene e viceversa.
La quinta edizione della Marcia Nazionale per la Vita, il prossimo 10 maggio, costituisce un’imperdibile occasione per manifestare pubblicamente contro il crimine dell’aborto di stato e per ricordare le innumerevoli vittime di quella che può essere senz’altro definita come una vera e propria guerra dichiarata contro l’innocente. (Alfredo De Matteo)