sabato 18 ottobre 2014

Un rapporto vitale

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Cristocentrismo. Pubblichiamo la parte centrale della meditazione dal titolo «Paolo VI, un ritratto spirituale» che il priore di Bose ha letto nella cattedrale di Brescia il 5 ottobre scorso, alla presenza del vescovo Luciano Monari.

(Enzo Bianchi) Ricordo ancora vivamente il modo in cui Paolo VI proclamava il termine “Cristo”: con voce convinta e vibrante, ripetendolo più volte, quasi in una litania nella quale egli vi accostava definizioni e attributi densissimi. Già in questa espressione, e nello stile con cui la pronunciava, si intuivano tutto l’amore, tutta la fede e tutta la speranza che Paolo VI poneva nel Signore Gesù Cristo. La sua vita spirituale — tutti l’hanno notato — era essenzialmente cristocentrica, perché Cristo, il Figlio di Dio e l’uomo nato da Maria, era al centro di ogni suo pensiero, parola e azione. Restano memorabili le sue parole del 29 settembre 1963, nell’allocuzione di apertura della seconda sessione del concilio, quando volle raffigurarsi nel suo rapporto con Cristo ricorrendo a questa immagine: «Noi sembriamo quasi rappresentare la parte del nostro predecessore Onorio III che adora Cristo, come è raffigurato con splendido mosaico nell’abside della basilica di San Paolo fuori le Mura. Quel pontefice, di proporzioni minuscole e con il corpo quasi annichilito prostrato a terra, bacia i piedi di Cristo, che, dominando con la mole gigantesca, ammantato di maestà come un regale maestro, presiede e benedice la moltitudine radunata nella basilica, che è la chiesa».
Questa è veramente l’icona capace di illustrare il rapporto vitale che Paolo VI viveva con il Cristo Signore. Egli aveva un profondo senso di umiltà e di indegnità personale, confessava la sua pochezza e il suo peccato, come Pietro quando disse a Gesù: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Luca, 5, 8). Ma si sentiva anche un suo discepolo chiamato e amato, un successore di Pietro al quale Gesù continuava a chiedere nient’altro che l’amore: «Mi ami tu? … Pasci i miei agnelli» (Giovannni, 21, 15). Quante volte la penna di Paolo VI trascrive le parole di questo brano evangelico in cui Pietro è fatto pastore sull’unico fondamento del suo amore per Cristo!
La sera della sua elezione a papa, il 21 giugno 1963, così scrive: «Sono nell’appartamento pontificio: impressione profonda di disagio e di confidenza insieme … Il mondo mi osserva, mi assale. Devo imparare ad amarlo veramente. La chiesa qual è. Il mondo qual è. Quale sforzo! Per amare così bisogna passare per il tramite dell’amore di Cristo: mi ami? Pasci! O Cristo, o Cristo! Non permettere che io mi separi da te» (testo citato in Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola, Brescia, Morcelliana, 2014).
Cristo era per Paolo VI “il compagno inseparabile”. Si può dire che lui viveva insieme a Cristo (cfr. I Tessalonicesi, 5, 10), e tutto ciò che pensava, viveva, decideva, diceva e scriveva, sembra averlo fatto con accanto questa presenza. Segno di questo legame spirituale è anche un piccolo libretto, il Manuale christianum (Malines, H. Dessain, 1914), contenente tra gli altri il Nuovo Testamento e il De Imitatione Christi, che Paolo VI porterà sempre con sé, anche nei viaggi apostolici, fino al termine della sua vita.
Il Cristo in cui egli credeva e che amava era quello dei vangeli, letti con assiduità, meditati e pregati; vangeli certamente anche attualizzati grazie all’aiuto di varie opere su Cristo, in particolare di autori del ‘900, ma soprattutto accostati come richiesto dall’Imitazione di Cristo: attraverso la liturgia e l’ascesi cristiana che impegna a una continua reformatio di se stessi e delle realtà affidate a noi dalla volontà divina. Da tutti gli scritti di Paolo VI si riceve la testimonianza di una sequela sempre più intima di Cristo, che egli sente come Figlio di Dio venuto nel mondo attraverso l’incarnazione, ma per questo «Figlio dell’uomo, … [che] ha raffigurato in sé l’umanità nella sua tragica, immonda, conclusiva realtà: dolore e peccato. L’umanità lebbrosa di tutti i suoi mali, specchio del più spaventoso realismo; ognuno vi si ritrova. Ma perché?… Per far trovare noi stessi in lui; per assumere in sé ogni nostra sofferenza, ogni nostra miseria; per immensa, silenziosa, discreta ed effettiva simpatia. Per essere lui noi stessi» (Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola). 
Paolo VI aveva un senso fortissimo del peccato dell’uomo, ma poneva questo peccato davanti a Cristo, confidando nella sua misericordia e nel suo perdono. Come non ricordare la grande preghiera litanica fatta nella basilica del Santo Sepolcro, durante il suo pellegrinaggio in Terra santa del gennaio 1964: «Siamo qui, Signore Gesù. Siamo venuti come i colpevoli che ritornano al luogo del loro delitto …Tu sei la nostra redenzione e la nostra speranza» (ibidem). 
Nel 1921, dunque a 24 anni, scriveva: «Desidero vederlo, Gesù, forse presto», e questo “voler vedere Gesù” è la sua ricerca essenziale, il filo conduttore di tutta la sua vita. In uno scritto di dieci anni dopo annota: «Voglio che la mia vita sia una testimonianza alla verità per imitare così Gesù Cristo, come a me si conviene» (cfr. Giovanni, 18, 37). Egli sceglie il nome di Paolo perché — confessa in una nota manoscritta dopo la sua elezione — l’Apostolo era «amoroso di Cristo», amante di Cristo. Durante tutto il pontificato ha sentito rivolte a sé le parole del Signore: «Mi ami? … Pasci i miei agnelli». E nel Pensiero alla morte, il testo (preparatorio al Testamento) che è forse il più espressivo di Paolo VI, esclama in forma di preghiera: «Meraviglia delle meraviglie, il mistero della nostra vita in Cristo» (Pasquale Macchi, Paolo VI nella sua parola).
Il cristocentrismo di Paolo VI è un vivere con Cristo al centro, è un riconoscere Cristo come Signore, è una comunione con un Cristo che è compagno e amante! Cristo, infatti «è il centro della storia e del mondo; egli è colui che ci conosce e che ci ama; egli è il compagno e l’amico della nostra vita» (Manila, omelia del 29 novembre 1970). Davvero — per citare Papa Francesco — «Paolo VI ha saputo testimoniare, in anni difficili, la fede in Gesù Cristo. Risuona ancora, più viva che mai, la sua invocazione: “Tu ci sei necessario o Cristo!” Sì, Gesù è più che mai necessario all’uomo di oggi, al mondo di oggi, perché nei “deserti” della città secolare lui ci parla di Dio, ci rivela il suo volto» (22 giugno 2013).
Proprio questo porre Cristo al centro, questo suo decentrarsi, mette in evidenza un tratto fondamentale della vita spirituale di Paolo VI, a cui già si è fatto cenno: la virtù dell’umiltà, che egli cercava di manifestare anche nell’esercizio del ministero petrino. Sono molti i gesti che ne danno testimonianza, ma è sufficiente ricordare la pulsione che Paolo VI sentì prepotente in sé alla fine della concelebrazione che il 14 dicembre 1975, nella Cappella Sistina, ricordava la reciproca abrogazione delle scomuniche tra le chiese di Roma e di Costantinopoli, avvenuta dieci anni prima. Sceso dall’altare, il Papa si avvicinò al metropolita Melitone, inviato del Patriarcato ecumenico, cadde in ginocchio davanti a lui e gli baciò i piedi. Gesto improvviso, di cui nessuno era preavvertito; gesto che sorprese tutti e — dobbiamo ricordarlo — destò critiche al papa. Un noto teologo scrisse, su una rivista arcivescovile, che era miserevole diminuire così il papato davanti a un vescovo ortodosso! Paolo VI aveva nel cuore “passione”, non era affatto un moderato nei sentimenti, e se a volte si esprimeva in modo enfatico – per esempio: «Eccoci dunque in mezzo a voi. Il nostro nome è Pietro» (Ginevra, Discorso al Consiglio ecumenico delle chiese, 10 giugno 1969) — tuttavia conservava un cuore disponibile all’abbassamento, all’arte della kènosis per amore di Cristo.
L'Osservatore Romano,