mercoledì 29 ottobre 2014

Tra dinamismo e prudenza

Protagonisti del concilio Vaticano II. 


(Massimo Nardello) Quali sono stati i protagonisti del concilio Vaticano II? Chiunque abbia letto qualche storia ben documentata dell’assise ecumenica sa bene che sono molteplici le figure che hanno contribuito in modo significativo all’evento conciliare, e anche che esse appartengono sia al gruppo dei Padri conciliari che a quello dei periti, cioè dei teologi. In ambedue gli ambiti, infatti, è possibile identificare persone che hanno avuto un ruolo molto rilevante per la maturazione di quelle idee che sono poi approdate nei documenti conciliari.
Non ci deve stupire che il concilio sia stato reso possibile dall’interazione di figure appartenenti a queste due categorie ecclesiali. Per alcuni aspetti, esse corrispondono a due culture differenti che sono presenti in ogni organizzazione di una certa complessità e che sono ugualmente necessarie per la sua esistenza. Con un termine preso a prestito dai modelli di governo italiani, potremmo definirle cultura tecnica e cultura politica.
La cultura tecnica è concentrata sul raggiungimento di obiettivi utili all’organizzazione o sulla soluzione di problemi che ne penalizzano l’attività. Questa concentrazione sul piano operativo e sui risultati effettivi e verificabili favorisce uno stile comunicativo trasparente e sincero e un linguaggio franco che si sforza di andare immediatamente al centro del problema. Questa cultura è poi tendenzialmente collaborativa, in quanto il suo orientamento operativo la spinge a non valutare positivamente atteggiamenti individualistici, che alla lunga risultano disfunzionali.
Accanto a essa, esiste la cultura politica, intendendo l’aggettivo nel suo senso più nobile. Come l’azione politica è chiamata originariamente a tutelare la sussistenza di uno Stato, e dunque la sua identità e i suoi fondamenti valoriali, in modo analogo questa cultura è portata a cercare anzitutto la stabilità dell’organizzazione, e quindi a fare in modo che essa possa continuare a esistere risentendo il meno possibile delle dinamiche che tendono a minacciarla. Questa priorità è perseguita soprattutto in due modi: tutelando fortemente la sua immagine pubblica ed evitando il più possibile i conflitti interni a essa, e dunque i cambiamenti che possono alimentarli, in quanto rischierebbero di frammentarla e di mettere a repentaglio la sua solidità. 
Le relazioni interpersonali sono subordinate a tale finalità: dal momento che una comunicazione sincera e trasparente può generare dissensi e alimentare conflitti, a essa viene preferito uno stile meno diretto, più formale e allusivo, da cui ci si discosta solo per ribadire idee già condivise o per difendere quella visione tradizionale dell’organizzazione che si ritiene fondamento della sua stabilità.
In sostanza, quindi, la differenza tra le due culture si fonda sulla loro diversa valutazione di ciò che è prioritario per la vita dell’organizzazione. Per la cultura tecnica ciò che conta maggiormente sono gli obiettivi e la soluzione dei problemi, mentre per quella politica è la stabilità dell’organizzazione. La prima ha una visione più dinamica, orientata alla creatività e alla sperimentazione, e capace di accettare i rischi del cambiamento. La seconda si muove in una prospettiva più prudenziale, più restia alle novità e più propensa ad aggirare i problemi anziché affrontarli, nel timore che i cambiamenti e i conflitti che potrebbero generarsi siano comunque molto rischiosi.
Ambedue le culture sono necessarie in qualunque organizzazione, anche nella Chiesa. Essa richiede figure coraggiose e dinamiche che, come san Paolo, sappiano fare progetti, raggiungere obiettivi e risolvere problemi (cfr. Galati 1, 15 - 2, 14), ma anche persone più prudenti che, come i successori dell’Apostolo, diano stabilità e continuità all’esistente, ponendosi come riferimenti equilibrati e sicuri per tutta l’ampia varietà dei membri del popolo di Dio (cfr. 1 Timoteo 3, 1-7). Per questo la cultura tecnica e quella politica devono coesistere nella Chiesa, perché hanno ambedue una funzione fondamentale da svolgere. Senza la prima, le comunità cristiane diventerebbero dei musei, senza progettualità né dinamicità. Senza la seconda, però, diventerebbero una collezione frammentata di vari gruppi coraggiosamente creativi, ma pure drammaticamente autonomi e autoreferenziali, anche rispetto alla Traditio fidei. In ambedue i casi la missione ecclesiale sarebbe gravemente penalizzata.
Ciò non toglie che inevitabilmente queste due culture entrino in conflitto tra loro. Tale conflitto, però, è del tutto positivo, perché avviene tra mentalità e stili che sono ugualmente e originariamente ecclesiali, e che quindi possono e devono integrarsi e arricchire la missione della Chiesa. Questo significa, però, che chi — per la sua personalità o il suo ruolo — si ritrova maggiormente in una delle due culture non può e non deve stigmatizzare l’altra come non evangelica, né cercare di marginalizzare chi opera al suo interno ritenendolo una minaccia per il cammino ecclesiale. Purtroppo la storia anche recente delle nostre comunità cristiane è stata segnata da tecnici che hanno combattuto i politici come reazionari e, viceversa, da politici che hanno osteggiato i tecnici come rivoluzionari. Le enormi e inutili sofferenze che queste lotte hanno generato nella Chiesa sono ben note, e non devono ripetersi mai più.
Ciò contro cui occorre schierarsi, in realtà, sono le deformazioni delle due culture citate. Ciascuna di esse, infatti, porta con sé delle criticità che la spingono a deviare in prospettive non evangeliche, e ha dunque bisogno dell’altra cultura come propria istanza critica. La cultura tecnica rischia di assolutizzare il valore della razionalità e della competenza, e di sopravvalutare le effettive possibilità di cambiamento di un determinato contesto ecclesiale, come se le cose chiare per qualcuno sul piano teorico potessero e dovessero automaticamente essere attuate da tutti sul piano pratico. La cultura politica invece può degenerare nel rifiuto pregiudiziale di qualunque cambiamento e in una difesa dello status quo come tutela della propria condizione di superiorità e del proprio potere. 
La lista così pluriforme dei protagonisti del concilio ci dimostra che solo nell’interazione paziente e rispettosa di queste due culture, e non nella lotta di una nei confronti dell’altra, la Chiesa può porsi pienamente in ascolto dell’azione dello Spirito, che anche oggi, soprattutto nei momenti sinodali come quello che abbiamo appena vissuto, non cessa di parlarle attraverso l’intera varietà dei carismi che ha disseminato al suo interno.
L'Osservatore Romano