lunedì 27 ottobre 2014

Globalizzazione e migranti. Quanti miti da sfatare




Alla Gregoriana. Si tiene nelle giornate di lunedì 27 e martedì 28 ottobre, presso la Pontificia Università Gregoriana, il convegno «La sfida culturale delle migrazioni: rischi e opportunità». Tra i relatori, il rettore François-Xavier Dumortier, il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, William Lacy Swing, direttore generale dell’International Organization for Migration di Ginevra, Emma Bonino, già ministro degli Affari Esteri della Repubblica Italiana, Lino Cardarelli, già vicesegretario generale vicario dell’Unione per il Mediterraneo, l’ambasciatore Cristina Ravaglia (direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie), Hassan Abouyoub, ambasciatore in Italia del re del Marocco, Amaya Valcarcel, responsabile internazionale per l’advocacy (Jesuit Refugee Service).
(Cristian Martini Grimaldi) La sfida culturale delle migrazioni; per il gesuita maltese René Micallef ad essere importante in questa frase — titolo di un convegno internazionale organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana — è soprattutto l’aggettivo “culturale”. Lo incontriamo nel suo studio presso l’università di Piazza della Pilotta a Roma. Micallef ha studiato biologia all’università di Malta, ha fatto il noviziato a Genova, quindi si è trasferito a Londra. Da qui si è spostato a Parigi per studiare teologia morale, poi a Boston per lavorare alla sua tesi su etica e politica delle migrazioni.
Tra gli Stati Uniti e l’Europa, dove vede le maggiori differenze nelle politiche di accoglienza e integrazione? 
Bisogna distinguere tra gli Stati Uniti che hanno una coscienza ben radicata di essere un Paese che nasce da un fenomeno migratorio, e dunque hanno dei canali ben strutturati per accogliere legalmente almeno un milione di nuovi immigrati l’anno e l’Europa dove il fenomeno migratorio è ancora vissuto come un’emergenza o una novità. I Paesi del sud Europa, ad esempio, nell’arco di soli trent'anni sono passati da essere terre di emigranti a Paesi di immigrazione. Per non parlare dei Paesi dell’Europa dell’est, o la stessa Malta, che hanno vissuto lo stesso cambiamento ma in soli dieci anni.
Ancora oggi sull'immigrato vengono proiettate tante paure, dalla crisi del lavoro alla criminalità, come se lo spiega?
In tivù vediamo i barconi che arrivano dall’Africa zeppi di disperati, ma questa gente rappresenta solo il 12 per cento del flusso migratorio. La maggior parte dei migranti arriva col visto turistico in aereo o in treno. Non si tratta dunque dei disgraziati che vediamo lottare per la vita. La rappresentazione che i media hanno costruito intorno alla figura del migrante fa pensare a una continua crisi, a un’emergenza reiterata senza possibili soluzioni. Inoltre molte cose che ci spaventano degli stranieri sono dei miti. Dal punto di vista economico molti studi hanno dimostrato come gli immigrati non rubano il lavoro ai cittadini del Paese nel quale vanno a vivere. E questo vale anche per le economie in crisi come l’Italia, perché in realtà gli immigrati creano ricchezza e nuovi posti di lavoro per gli autoctoni anche in questi Paesi. Un Paese la cui popolazione tende a invecchiare in maniera costante avrà sempre più bisogno di assistenti agli anziani e ai disabili e avrà sempre meno giovani a disposizione per i lavori nei campi e nelle industrie».
Quali i rischi?
Molti migranti arrivano in un nuovo Paese dopo aver subìto dei forti traumi, basti pensare ai migranti che partono dal Centro America per giungere negli Stati Uniti attraversando il Messico. Molti subiscono terribili torture, vengono mutilati, altri ancora violentati come il caso delle africane che arrivano in Europa. E il disturbo post traumatico da stress (Dpts) tra i profughi, il più delle volte, non viene trattato. Questo può avere delle ripercussioni importanti sull’individuo che possono sfociare nell’alcolismo, nell’uso di droga, in atti di violenza. Poi quando il profugo arriva solitamente si stabilisce nei quartieri più poveri, ovvero lì dove si hanno già tutta una serie di problemi pregressi, dalle scuole malandate ai servizi che non funzionano.  Dunque i disagi e i rischi non sono dovuti alla cultura, alla razza o alla religione degli immigrati, ma alle condizioni difficili che trovano al momento di insediarsi in un nuovo Paese. E queste condizioni sono spesso dovute a vecchi problemi di marginalizzazione e disuguaglianza rimasti irrisolti nelle nostre città.
Una chiave di lettura del magistero di Papa Francesco sta proprio nel messaggio di accoglienza che ha rivolto ai poveri e agli immigrati. Nel libro «Evangelii gaudium: il testo ci interroga», presentato martedì scorso alla Gregoriana, ha scritto che questo le ricorda molto i discorsi di Pio XII.
In quel caso parlo dei discorsi di Pio XII degli anni Cinquanta, che ridimensionava le paure statunitensi verso gli immigrati, in particolare gli italiani, che in quella parte del mondo subivano il pregiudizio di essere visti come potenziali terroristi legati a gruppi anarchico-sovversivi. Se vogliamo c’è un parallelo con l’attuale fobia verso lo straniero quale potenziale terrorista, o quale povero affamato. Ma per rispondere alla domanda, prima dell’Evangelii gaudium, il testo papale più duro e profetico sul tema dell’immigrazione risale proprio a Pio XII nel suo discorso natalizio del 1952. In questo testo, Papa Pacelli stronca le giustificazioni che davano alcuni Paesi per mantenere le leggi anti-immigrazione introdotte negli anni Venti. Pio XII ripete, in forma polemica, l’insegnamento della Costituzione Apostolica Exsul familia, promulgata qualche mese prima: ovvero che la Chiesa dichiara che c’è un diritto a immigrare (e non solo a emigrare), che questo diritto si può certamente limitare in nome del bene comune ma spesso le politiche dell’immigrazione non cercano il vero bene comune e usano questa categoria solo come una scusa per prevenire l’ingresso di stranieri. 
Il fenomeno dell’immigrazione può essere risolto solo attraverso le ricette politiche o esistono altri ingredienti da prendere in considerazione?
La sfida culturale delle migrazioni è anche un problema che può essere risolto con l’immaginazione: dobbiamo non solo abituarci all’idea di un futuro che possa includere l’altro, ma immaginare modi e spazi dove l’altro possa diventare una parte del noi, e noi dovremmo sfruttare la ricchezza culturale che ci offre. Quando trattiamo gli altri solo come fonte di problemi stiamo creando le condizioni per costringerli a comportarsi secondo i nostri stereotipi. Quando invece sottolineiamo i loro talenti, allora inventiamo spontaneamente quegli spazi e quelle occasioni che ne esaltano qualità e ricchezze.
L'Osservatore Romano