sabato 25 ottobre 2014

30ª Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Nella 30.ma Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il passo del Vangelo in cui un dottore della legge, per mettere alla prova Gesù, gli chiede quale sia il grande comandamento. Gesù risponde:
“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: amerai il tuo prossimo come te stesso”.
È importante mettere il Vangelo di oggi nel suo retto contesto, per non cadere nel moralismo di mettere al centro il dovere. Nell’Antico Testamento il precetto di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e le forze viene posto non come punto di partenza, ma di arrivo: Dio ha mostrato tutto il suo amore per il popolo di Israele, lo è andato a prendere in Egitto, nella casa di schiavitù, lo ha liberato con braccio potente…, ora gli indica la via da percorrere per vivere felici (cf Dt 5,32-33. 6,4ss). Il precetto dell’amore è risposta all’azione di Dio, all’opera di salvezza messa in atto a favore del suo popolo. Il Dio che si è rivelato a Israele, e che si rivela in Cristo Gesù, non è un Dio che chiede, un Dio di comandamenti…, ma un Dio che dona, un Dio che si dona, che sposa il suo popolo. L’amore è il segreto della vita, è la via per avere la vita: “In questo sta l’amore – ci dice San Giovanni –: Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). E’ proprio per questa iniziativa divina che l’amore di Dio e l’amore del prossimo camminano necessariamente insieme: amiamo proprio perché siamo stati amati per primi: “Tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso…” (Gal 5,14). Ci si illude di amare Dio se non si ama il prossimo, ma ci si illude pure di amare il prossimo se non si ama Dio, perché alla fine non è amore divino, gratuito, ma solo ricerca di sé. (don Ezechiele Pasotti)
*

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 104,3-4
Gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto.

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, f
a' che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore...
Oppure:
O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli, per servire te solo e amare i fratelli secondo lo Spirito del tuo Figlio, facendo del suo comandamento nuovo l'unica legge della vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  Es 22,20-26
Se maltratterete la vedova e l'orfano, la mia collera si accenderà contro di voi.

Dal libro dell’Èsodo
Così dice il Signore:
«Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.
Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.
Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.
Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».
 

Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 17
Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.
 

Seconda Lettura
  1 Ts 1,5c-10
Vi siete convertiti dagli idoli, per servire Dio e attendere il suo Figlio.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 
Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia.
Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedònia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

Canto al Vangelo  Gv 14,23
Alleluia, alleluia.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.

Alleluia.

   
   
Vangelo  Mt 22,34-40
Amerai il Signore tuo
 Dio, e il tuo prossimo come te stesso.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

*

Il commento

Gesù aveva appena annunciato la resurrezione e sconfessato i sadducei che la negavano. E i farisei, che alla resurrezione credevano, invece di rallegrarsi delle parole di Gesù, si impauriscono, “si riuniscono” per tramare contro di Lui, e lo “tentano”.

Non avevano capito nulla della risposta che aveva dato sul tributo a Cesare. La libertà che attendevano dal Messia, e che si illudevano di poter raggiungere e conservare con l’osservanza dei precetti, era annunciata nelle parole “Rendete a Dio quello che è di Dio”. Chi è di Dio, infatti, appartiene a Lui solo, e non è schiavo di nessuno.
Ma loro preferivano restare schiavi del proprio io, avanguardia del demonio, il tiranno che lo muove a suo piacimento. Soffocati dalla superbia, non potevano accettare che la risurrezione annunciata da Gesù era necessaria perché anche loro fossero “restituiti” a Dio. No, i farisei erano puri, separati dal mondo, altro che schiavi del demonio! E quel Gesù era solo un impostore, era urgente poter smentire le parole che diceva e i segni che faceva, perché stavano attirando troppa gente, sottraendo loro il prestigio e l'autorità.
Il demonio però sa vestirsi di luce, che per un ebreo è anche sinonimo della Torah. Lui è il “tentatore”, e, come già nel deserto all’inizio della missione e in altre circostanze, si presenta di nuovo a Gesù, incarnato nel “dottore della Legge”, indossando la Torah, l’abito più bello e prezioso per un ebreo. Difficile riconoscerlo… 
E attacca con un’adulazione, come sempre. Il demonio, quando decide di tentare chi appartiene a Dio, è generoso nelle lodi, e maledettamente rigoroso nella sua personalissima esegesi… Una donna che ti si offre a carni nude, suvvia, puzza a demonio da appestare. Ma uno che ti chiama “Maestro”, e ti chiede, proprio alla maniera solita dei rabbini, come interpreti la Torah, come fai a scovarci dentro il ghigno satanico? 
E invece lui era lì. L’aveva architettata con genialità: uccidere Gesù facendolo apparire un suicidio. Sì, lo avrebbe indotto ad uccidersi con la sua stessa Parola. La Torah è luce, è la vita, ma interpretata male è un veleno mortale, e satana ne sapeva qualcosa per esperienza diretta.

Il dialogo del Vangelo di questa domenica è un’istantanea sul combattimento tra Gesù e satana che si svolge sul più insidioso dei terreni, quello della Parola di Dio. Ed è profezia di quello che, fin dalle origini, ha dovuto assumere la Chiesa, lo stesso che attende ogni giorno ciascuno di noi.
Le eresie, gli scismi, le guerre di religione, non sono nate da un’interpretazione errata della Scrittura? Perché di fronte ad essa c’è un solo atteggiamento possibile: l’ascolto umile del discepolo. Per questo Gesù risponde immediatamente con il verbo più importante della Bibbia: “Shemà, Ascolta!”. 
Mi "tentate" sulla Scrittura, sperando che affermi qualcosa di palesemente eretico? Lo so, voi avete già deciso nel vostro cuore che ogni mia parola e ogni mio gesto è opera del principe dei demoni; non chiedete per "ascoltare", ma per uccidermi.  
Ebbene, andrò sino in fondo. Non accettate che Gesù di Nazaret, il figlio di Giuseppe il falegname, è "colui che deve venire"? E' impossibile che Dio si faccia carne in un uomo e compiere segni e prodigi, perdonare i peccati e dare compimento alla Legge e ai Profeti? Allora vi scandalizzerò ancora di più.
Così, usando la stessa tecnica dei rabbini, Gesù accosta due passi della Scrittura legandole attraverso un termine che compare in entrambi: "amerai". "Amerai Dio con tutta l'anima, con tutto il cuore e tutta la mente", e "amerai il prossimo tuo come te stesso". Questi due "comandamenti" sono "simili". Perché Dio e l'uomo sono "simili", l'uno "immagine e somiglianza dell'altro". 
Ecco il "comandamento grande" dal quale "dipende" tutta la Scrittura. Ecco il criterio fondamentale per interpretarla. Ecco il codice che apre l'udito all'ascolto, che scioglie il cuore e schiude gli occhi. L'amore senza se e senza ma, l'agape che dona "tutto", sino alla fine.
"Ascolta Israele!", "ascoltate" farisei che mi "tentate" per difendervi. "Ascoltate" voi che siete venuti oggi a messa. Ma certo che "ascoltiamo", siamo qui per questo, è una vita che ascoltiamo la Parola di Dio. Ah sì? Scopriamo se è vero.
Anche i farisei "ascoltavano" molto. Erano i figli del Popolo dell'ascolto, i migliori... Conoscevano bene lo "Shemà" che Gesù aveva citato, se ne nutrivano pregandolo almeno due volte al giorno. Ma come? Orgogliosamente, come Adamo ed Eva di fronte al serpente. Ne avevano ascoltato la voce e gli hanno obbedito; avevano inclinato l’orecchio alla sua menzogna (secondo l’etimologia del verbo obbedire), e ne sono divenuti schiavi.
Ecco perché al centro della battaglia di Gesù con il demonio vi è la Parola di Dio: chi la ascolta vincerà e vivrà; chi ascolta il demonio perderà e morirà. Tutta la sua malizia, infatti, è orientata a strappare l’uomo dall’ascolto di Dio. Può avere successo solo se riesce a sporcare la Parola con la sua interpretazione, inducendo a farsi ascoltare e, quindi, obbedire. Perché uno è figlio della Parola che ascolta.
Il demonio ci “tenta” sempre così: prende la Parola di Dio, approfitta della sua autorità e la usa come un grimaldello, adeguandola alle esigenze dell’uomo vecchio, alle concupiscenze della carne. Così, farcela accogliere e legarci a lui è un gioco da ragazzo. Chi può resistere alle lusinghe, alla promessa di diventare come Dio?
Che stolti siamo: ascoltiamo il demonio e non Colui che quella Parola l’ha detta. Obbediamo al falsario e disobbediamo all’Autore. Compriamo al prezzo “della nostra anima, del nostro cuore e delle nostre forze” un falso taroccato, e rifiutiamo l’originale che ci viene regalato.
Come i farisei, che avevano fatto della Legge il mausoleo eretto al proprio ego. Ed erano così caduti tra le braccia del padre della menzogna, omicida fin da principio. Non ascoltavano più la voce di Dio, la propria era troppo forte. E siccome era l’eco di quella di satana, gridava in loro di uccidere il Signore. Proprio come li aveva smascherati Gesù: "Voi fate quello che avete ascoltato dal padre vostro... e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui... Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio" (Cfr Gv 8, 37 ss). 
Ecco che cosa svela la risposta di Gesù: voi, con tutta vostra religiosità, voi che conoscete a memoria la Scrittura, voi con le vostre messe, le preghiere, le elemosine, il volontariato e i vostri gruppi e comunità, "non siete da Dio". Eh no, questo è troppo... Troppo? Portami "il tuo prossimo" e vediamo se "lo ami come te stesso". Mangi? Bevi? Ti vesti? Allora lo amerai dandogli da mangiare e da bere, vestendolo come te. Vuoi essere compreso, rispettato, perdonato e accolto così come sei? Allora lo comprenderai, lo rispetterai, lo perdonerai e accoglierai senza condizioni. Vediamo allora, chiama tua moglie, tuo marito, i figli, gli amici, i colleghi, la suocera, il vicino di casa, il fratello della tua comunità... Chiama Gesù, che è vivo in loro... Chiama Dio, del quale sono, anche se spesso sfigurata, "immagine e somiglianza"...
Meglio di no vero? Lo abbiamo capito che non amiamo nessuno, anzi. Men che meno Dio. Ma se non amiamo vuol dire che odiamo, al punto di voler uccidere chi ci è accanto. E quanti omicidi... Hai per caso stracciato l'opinione di tua moglie ritenendola un'idiozia? Hai pensato male di tuo marito? Hai giudicato, invidiato, sparlato? Sì... Quindi hai ucciso. Quindi, anche se ti sforzi tanto, è pura apparenza, perché non hai mai compiuto alcun "comandamento". 
Capito cari farisei? Cercavate di tendere una trappola a Gesù, ma vi siete caduti dentro voi. Vi preoccupate di difendere la Legge caricando pesi sulle persone, ma non li alzate neanche con un dito. Tramate per proteggerla da Gesù, ma la state ferendo e sfigurando con il vostro cuore assassino. Come potete credere a Gesù e riconoscerlo come il Figlio di Dio se nel peccatore che avete a fianco non sapete vedere il volto di Dio? 
L'arroganza ha seppellito la misericordia lontano "dal vostro cuore, dalla vostra anima e dalla vostra mente". Rispondiamo anche noi: chi stiamo amando? Dio o io? A chi diamo tutta l'anima, il cuore e la mente? A noi stessi! Che è come dire a Cesare, immagine di chiunque si fa dio. 
Per questo i farisei finiranno con dare addirittura Dio a Cesare, consegnando Gesù a Pilato. Come noi, che portiamo il fratello in tribunale per 50 euro. Che non perdoniamo neanche sotto tortura.  
Per “ascoltare” e vedere così compiuta in noi la Parola dello "Shemà", è necessaria, infatti, l’umiltà. Essere consapevoli che Dio ha qualcosa da dirci, così importante da decidere le sorti della nostra vita, istante dopo istante. Per “ascoltare” occorre accettare di essere ancora nel "caos" primordiale, e di avere bisogno della Parola creatrice di Dio. Ogni sua Parola, infatti, può creare quello che annuncia: "sia la luce, e la luce fu"; "sia lo Shemà, sia l'amore totale a Dio e al prossimo, e l'amore è".
Ma occorre "ascoltare" come i piccoli, come i peccatori, le prostitute e i pubblicani, gli unici che hanno obbedito a Gesù e si sono convertiti; gli unici che hanno accolto il suo annuncio e hanno cominciato, nella Chiesa, un cammino di "metanoia", dove cambiare la "mente", "dianoia" nell'originale greco del vangelo di oggi. 
E’ proprio così, non scandalizzatevi. La loro realtà era davanti a tutti, non potevano nascondersi dietro l’ipocrisia dei farisei. Avevano “il cuore” lacerato dai graffi del demonio, “l’anima” sudicia dai tanti tradimenti, “la mente” e “le forze” logorate dagli sforzi fallimentari di cambiare. Avevano “ascoltato” il demonio, ed erano morti dentro, come il Popolo schiavo in Egitto. 

“Egitto” in ebraico significa "angoscia, luogo dove l'uomo è definitivamente incastrato e rinserrato". In Egitto il Popolo ha vissuto incastrato nel servizio agli idoli, obbligato a costruire mausolei al faraone. L’idolatria è sempre sinonimo di dissipazione e disordine dell'uomo, del suo cuore, dell’anima, della mente e delle forze. E “disordine” in ebraico coincide con il termine che indica il "Faraone".
Ma proprio nell’Egitto il Popolo ha conosciuto Dio come “l’unico” capace di compiere l’impossibile e liberarlo. La fede di Israele nasce in quella notte di Pasqua, e per questo l’incipit dello Shemà, prima di essere un comandamento, è un'affermazione, un annuncio e una profezia, la rivelazione di un'identità: "Ascolta Israele, il Signore è uno". 
Tu sei Israele perché Io sono l’unico Dio. Tu vivrai solo se resterai fedele all’ascolto delle mie parole. Perché chi le ascolta, come già nella creazione, le vedrà compiersi nella propria vita e sarà libero davvero. Ma se non le ascolterai morirai, ti dissolverai nella schiavitù, nulla avrà più senso nella tua vita. 
I farisei avevano dimenticato che all’origine della Torah vi era l’amore gratuito di Dio. Pieni di sé avevano finito con il credere d’averne diritto, per anzianità di servizio e meriti conquistati sul campo. Forse come molti di noi…
Ma i peccatori, i “maledetti del Popolo” no. Loro erano sulla soglia dello Shemà: quella vita ridotta a brandelli li aveva umiliati perché potessero “ascoltare” l’unico che si avvicinava a loro con misericordia.
Avevano percorso il catecumenato dell’umiltà, erano pronti ad aprirsi con stupore alla misericordia che veniva loro incontro. Potevano “obbedire”, sine glossa, perché portavano in sé le ferite inferte dall’interpretazione demoniaca della Scrittura, e cercavano solo la libertà.
Si comprende allora che con la loro domanda i farisei volevano smascherare Gesù come un eretico che interpretava la Scrittura a modo suo: un amico dei peccatori, che mangia e beve con loro. Che li tocca. E non comprendevano che agendo così stava donando il cuore della Legge, “il comandamento più grande”, quello dell'uomo libero, a chi, schiavo, non era stato capace di compierlo. Non capivano che Gesù aveva già risposto alla loro domanda, compiendo tutta la Legge e i profeti, come una profezia del suo Mistero Pasquale. 
Gesù, infatti, era l’amore di Dio sceso sulla terra: era “il comandamento” offerto gratuitamente a ogni uomo. Lui era tutto quello che avrebbero voluto fare i farisei con i loro sforzi, con i loro precetti, con le loro interpretazioni della Scrittura.
Potevano “ascoltarlo” ed entrare nella vita vera. O rifiutarlo, e morire nei loro peccati. Come ciascuno di noi, ogni giorno. Nella Chiesa ci viene annunciata la Parola, che illumina le nostre vicende e i nostri cuori. Spesso ci smaschera intrappolati in Egitto, schiavi del disordine: rancori e litigi, giudizi e gelosie. Significa che il demonio ci ha sedotto, strappandoci a Dio. 

Gesù e Nicodemo

Ma anche oggi possiamo essere “restituiti” a Lui. Basta “ascoltare” senza indurire il cuore, in un cammino di conversione che cominci dall'accettare di essere “piccoli”, peccatori, senza difendersi. Ed è il primo frutto della Parola, che illumina la verità. Padre F. Manns mette in evidenza come, nel vangelo di Giovanni, Nicodemo sia iniziato al compimento dello Shemà. Egli è "il tipo del catecumeno che si apre alla fede; e l'itinerario che gli viene proposto da Gesù è proprio quello dello Shemà. Bisogna aprirsi progressivamente. Prima il tuo "cuore", poi la tua "anima" e alla fine le tue "forze", che sono il denaro". Il catecumeno non capisce tutto subito... Prima deve accogliere Cristo nel cuore".
Nel cristianesimo non si inventa nulla. E' Dio che, attraverso la Chiesa, ci inizia all'ascolto e all'obbedienza, sino al compimento dell'amore sino al dono totale di sé. L'amore, infatti, dice Benedetto XVI, non si può comandare. Apriamo allora anche solo una fessura del nostro intimo per accogliere la Parola che libera dal peccato, e semina in noi l'amore che, a poco a poco, prende possesso del "cuore", il centro dell'uomo, la sua torre di controllo; poi dell'"anima", ovvero la vita, perché secondo il Levitico essa si trova nel sangue; e infine delle "forze": "Con tutto il cuore: con le tue due tendenze, quella buona e quella cattiva. Con tutta l'anima: dovesse anche costarti la vita. Con tutte le forze: con tutti i tuoi averi" (Mishnà). Così ci trasforma in "cristiani", uomini nuovi crocifissi con Cristo; uomini liberi in cui è vivo Lui e non più l'uomo vecchio della carne.
Sulla Croce, infatti, Gesù ha compiuto lo Shemà per noi: la “mente” cinta dalla corona di spine, le “forze” inchiodate al legno, il “cuore” trapassato dalla lancia. Tutto questo è un regalo pronto per noi, affidato alla Chiesa. Attraverso i sacramenti, l’ascolto della Parola di Dio e la comunione con i fratelli, lo Shemà si fa carne in noi per seguire la volontà di Dio, offrire la nostra vita, restituendo tutto a Dio, compreso il denaro, il lavoro, il tempo, i criteri.
E' nella comunità cristiana che si compie lo Shemà", il “comandamento” che dà compimento alla nostra vita. In ebraico, infatti, il termine indica anche “una parola che affida un incarico”, o “la legge "incisa" che orienta e dirige il compimento di una missione”. La comunità che “ascolta” senza dividersi sull’interpretazione della Scrittura, ma impara a viverla crescendo nell'amore, compie la missione che il Signore le ha affidato. La comunità e i fratelli, ciascuno nella propria storia. 
Negli Atti degli Apostoli possiamo scoprire le tracce che ci illuminano di come, sin dalle origini, la Chiesa aveva ben chiaro che essa viveva, in continuità con Israele, sul fondamento dello Shemà: "Erano assidui nell'ascoltarel'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune". "Ascolto" e "unione", "un cuore solo e un'anima sola", "ogni cosa era in comune": ecco disegnato lo Shemà che si compiva nella comunione dei fratelli in Cristo; l'amore a Dio e al prossimo si traduce dunque con la comunione, l'essere Uno come Dio è Uno, un solo corpo in Cristo che ci ha amati con tutto se stesso, per annunciare e testimoniare al mondo che Dio esiste, e ama davvero gli uomini: "da questo", dice il Signore, "riconosceranno che siete miei discepoli" e potranno credere ed essere salvati.

*


HOMILÍA DE MONSEÑOR DON CARLOS OSORO SIERRA
EN LA MISA ESTACIONAL CON MOTIVO DE LA
TOMA DE POSESIÓN DE LA ARCHIDIÓCESIS DE MADRID
Sábado, 25 de octubre de 2014

Nota: el texto en color rojo no será leído en la celebración.
            Excmo. y Rvdmo. Sr. nuncio de Su Santidad.
            Eminencia reverendísima, señor cardenal D. Antonio María Rouco, arzobispo, emérito, de Madrid.
Queridos obispos auxiliares, D. Fidel, D. César y D. Juan Antonio. Deseo, también tener un recuerdo muy especial por quien en estos momentos estará rezando por mí y por vosotros, el obispo auxiliar, emérito, de Madrid, Mons. D. Alberto Iniesta, con quien hace muy pocos días estuve en su residencia de Albacete.
Señores cardenales, arzobispos, obispos.
Vicarios generales y episcopales de Madrid, Valencia, Oviedo, Orense y Santander.
Queridos sacerdotes del presbiterio de Madrid, y queridos sacerdotes que representáis a los presbiterios diocesanos de Santander, mi diócesis de origen, y de las diócesis de Ourense, Oviedo y Valencia. Gracias. Muchas gracias. Hermanos sacerdotes todos.
Queridos seminaristas de Madrid y queridos seminaristas de Valencia. Gracias por vuestra entrega para ser un día cercano la imagen de Cristo Sacerdote.
Queridos diáconos, que en la Iglesia sois la imagen de Cristo Siervo.
Queridos miembros de la vida consagrada: religiosos, religiosas, institutos seculares, sociedades de vida apostólica y otras nuevas formas de vida consagrada en la Iglesia, vírgenes consagradas. No olvidamos a los monjes y monjas que gracias a los medios de comunicación siguen este celebración en la vida de los monasterios.
Queridos laicos, que sois mayoría en la Iglesia; gracias por vuestra presencia y por vuestro testimonio en medio de las realidades temporales. Gracias, familias, mayores, jóvenes y niños.
Querida familia de la que siento siempre vuestra cercanía y acompañamiento.
Autoridades civiles, militares, judiciales y académicas.
Hermanos y hermanas todos en nuestro Señor Jesucristo.
            Doy gracias a Dios Padre, Hijo y Espíritu Santo, al enviarme a través del sucesor de Pedro, el papa Francisco, a esta porción de la Iglesia para ser padre, hermano y pastor de todos vosotros, de los que creéis y sois parte de la Iglesia, pero también de todos los que vivís en este territorio madrileño al que el Señor me envía a ser su testigo. Gracias, santo padre, papa Francisco. Ruego al señor nuncio que transmita al santo padre mi afecto, fidelidad y comunión. Gracias, queridos hermanos; Madrid acogió a mi familia, aquí se conocieron mis padres, hoy me acogéis a mí como padre, hermano y pastor, gracias. Que sigamos haciendo de Madrid un lugar de encuentro, de acogida, de promoción de todo ser humano, regalándole la dignidad que Dios ha puesto en cada persona.
En este día, cuando inicio mi ministerio episcopal entre vosotros, sigo haciéndome la misma pregunta que me hice desde que supe que el santo padre me enviaba a la archidiócesis de Madrid: «Señor, ¿dime qué quieres de mí, qué deseas que viva junto a quienes me entregas como hijos y hermanos?». La respuesta siempre la da el Señor. Y me la da y nos la da en la Palabra que acabamos de proclamar. ¡Qué gracia más grande poder dirigirme a todos los que vivís en esta archidiócesis madrileña por vez primera, sabiendo lo que el Señor quiere de mí y de todos nosotros! Nos lo dice Él mismo cuando le preguntamos: «Señor y Maestro, ¿cuál es el mandamiento principal de la Ley?». O, lo que es lo mismo: «Señor, ¿qué es lo que tiene que ocupar mi vida y mi misión como obispo aquí entre vosotros y qué y quién tiene que ocupar la vida del ser humano?». La belleza de la respuesta de nuestro Señor tiene tanta hondura que nos sobrecoge: «Amarás al Señor, tu Dios, con todo tu corazón, con toda tu alma, con todo tu ser». Este mandamiento es el principal y el primero, pero el segundo es semejante a él: «Amarás a tu prójimo como a ti mismo». Amar a Dios y amar al hombre se unifican. Descubramos que no hay amor verdadero por el hombre mas cuando nos dejamos invadir por el amor de Dios que nos manifiesta que el ser humano es «imagen de Dios». Y que no hay amor verdadero a Dios si este no se manifiesta y constata por amar al hombre con la misma pasión de Dios, porque Dios mismo nos ha dicho que Él es amor, y quien es imagen de Él tiene que manifestar que en su existencia se revela también el amor de Dios.
Esta es nuestra misión, a la que deseo invitar no solo a los cristianos, sino llamar también a todos los hombres y mujeres de buena voluntad que habitan en estas tierras, que me da el Señor; tener a Dios como valor absoluto y descubrir que es desde Dios desde donde el ser humano alcanza la dignidad más grande, tal y como nos lo ha revelado nuestro Señor Jesucristo. Él ha puesto al hombre a la altura de Dios, porque Dios mismo se puso a la altura del hombre. Gracias, Señor, por esta misión apasionante, como es mostrar tu rostro. Por eso te digo, con el salmista, «yo te amo, Señor; tú eres mi fortaleza» (Sal 17).
            Esta unidad inseparable entre Dios y el hombre es lo que nos hace entender lo que el Señor en el Libro del Éxodo nos acaba de decir, y que tiene su revelación plena en Jesucristo, el Dios que se hizo Hombre. Él nos enseña a descubrir como la grandeza del ser humano se alcanza cuando se tiene la vida de Cristo en nosotros, que es cuando lo humano alcanza su plenitud y desarrollo pleno y nos hace vivir como nos dice Dios mismo: ni la opresión, ni la vejación, ni la explotación, ni la usura, ni el robo de lo que pertenece al otro, tiene vigencia en quien ha sido alcanzado por Jesucristo. Lo nuestro es lo mismo de Dios, pues somos su imagen: escuchar, tener compasión, amar, acercarnos al otro como Dios mismo lo hace… porque nuestra pasión es vivir con la vida del Señor. Con la alegría que nace del Evangelio, me acerco a vosotros para deciros con el apóstol san Pablo lo que hace unos instantes acabamos de escuchar y que se cumple aquí en Madrid: «Desde vuestra Iglesia, la Palabra del Señor ha resonado (…) en todas partes. Vuestra fe en Dios había recorrido de boca en boca». Vamos a seguir haciendo que la Palabra resuene, que se conozca a Jesucristo, que los hombres lo acojan como el tesoro más grande que cambia la vida y la historia, continuando las huellas de quienes antes que yo os han acompañado como pastores, testigos y maestros. Deseo recordar a todos mis predecesores, pero hago explícitos los nombres de los más próximos a nuestra vida, a quienes muchos de los que formáis parte de esta Iglesia diocesana habéis conocido: al cardenal D. Vicente Enrique Tarancón, al cardenal D. Ángel Suquía, y al cardenal D. Antonio María Rouco, que nos acompaña. Permitidme que agradezca a D. Antonio María, al cardenal Rouco, su entrega, sus trabajos y desvelos por hacer llegar a todos los corazones la Noticia de Jesucristo, las realidades eclesiales que con una vitalidad muy grande me entrega, pues él quiso hacer verdad que contemplaseis el rostro de Dios y del hombre manifestado en Cristo, quien ha resucitado de entre los muertos y entrega presente y futuro al ser humano y a toda la humanidad. Gracias, D. Antonio. Muchas gracias.
            Al iniciar mi ministerio pastoral en Madrid, os invito a todos a acoger el amor de Dios y a regalar el amor de Dios a todos los que nos encontremos por el camino de nuestra vida. La gran novedad que nosotros hemos de entregar y presentar es a Cristo mismo, que acoge, acompaña y ayuda a encontrar la buena noticia que todo ser humano necesita y ansía en lo más profundo de su corazón. No defraudemos a los hombres en este momento de la historia, que puedan encontrar las puertas abiertas de la Iglesia, para que puedan percibir que envuelve su vida la misericordia de Dios, que no están solos y abandonados a sí mismos, que tengan la gracia de descubrir en qué consiste el sentido de una existencia humana plena, iluminada por la fe y el amor del Dios vivo: Jesucristo nuestro Señor, muerto y resucitado, presente en su Iglesia. Como nos recordaban san Juan XXIII, el beato Pablo VI, san Juan Pablo II, Benedicto XVI y el papa Francisco, la Iglesia tiene que ser reconocida por encima de cualquier otro aspecto como la casa de la misericordia, que realiza ese diálogo impresionante al cual estamos llamados a ser protagonistas, ese diálogo que se mueve entre la debilidad de los hombres y la paciencia de Dios. ¡Qué tarea más apasionante entregar la novedad única que es Jesucristo!
            Os invito a todos a vivir juntos dejándonos abrazar por el amor de Dios, que es tan grande, de tal calado y profundidad, que nunca decae, se aferra a nuestra existencia que siempre impulsa a dar la mano a quien tenga al lado, nos sostiene, nos levanta y nos guía. Para ello, es necesario que todos los cristianos podamos vivir una relación tal con Jesucristo que, cuando nos acerquemos a los demás, podamos decir con obras y palabras, como los primeros discípulos, «hemos visto al Señor».
Me produce una gran impresión el encuentro del Señor con los discípulos de Emaús; por ello, quisiera deciros que esta es la Iglesia a la que me gustaría dar rostro con vosotros: los discípulos iban por el camino desalentados, en la desesperanza y la tristeza, en el agobio y la desilusión. Se encuentran con Jesús en el camino. No lo reconocen. Comienzan a hablar con Él. Lo escuchan. Entre las palabras que les dice y su compañía sienten algo especial, les produce tal atracción su presencia que, cuando el Señor se despide de ellos, le dicen: quédate con nosotros porque atardece. El Señor crea y provoca atracción, desean estar con Él aun sin saber que es Jesús, pero han experimentado que con Él hay luz en el camino, sin Él llega la oscuridad y el atardecer. Y el Señor no solamente se queda con ellos, sino que se sienta y parte el pan, se da a sí mismo, da su vida.
La Iglesia recorre el camino de su Señor, el Cuerpo del Señor que es la Iglesia hace el mismo camino de la Cabeza que es Cristo. Escucha a todos los hombres y siente una preocupación especial por quienes están más abandonados y excluidos, por lo más pobres, entre los que se encuentran también quienes no conocen a Dios. Ella desea regalar lo que el Señor daba y percibían los se encontraban con Él, que provocaba tal atracción. La Iglesia tiene que seguir regalando la desproporción, que es la que nos hace más humanos. Aquella misma que les hizo ver a los discípulos cuando les pidió que diesen de comer a una multitud. Con la proporción de cálculos humanos, la que ellos tenían, cinco panes y dos peces, era normal que dijesen, desalentados, que no podían dar de comer a esta multitud. Y es entonces cuando aparece la desproporción de Dios, que toma en sus manos los cinco panes y dos peces y da de comer a la multitud; y sobró. Esta es la que tenemos que vivir nosotros. Y es que en manos de Dios todo es diferente, con su fuerza, su gracia, su amor, todo es distinto. Hagamos descubrir a todos los hombres que en manos de Dios todo es diferente, y que además se descubre y se logra el verdadero humanismo, el humanismo de verdad. Todo esto, vivido en comunión con Jesucristo es más humano, pueden comer todos, nos hace hermanos. Que seamos audaces, con la audacia y valentía del Evangelio, para hacer que la Iglesia sea casa de comunión; tenemos una sola fe, una sola vida sacramental, una única sucesión apostólica, una misma esperanza y la misma caridad. Somos una única familia y nadie es más importante que otro, somos hijos de Dios y hermanos de todos los hombres. Una familia que vive en humildad, dulzura, magnanimidad y amor por conservar la unidad. La Iglesia es una gran casa que acoge a todos, por eso es santa, porque procede de Dios que es santo y fiel y no la abandona en el poder de la muerte y del mal. Es santa porque Jesucristo, el Santo de Dios, está unido indisolublemente a ella. No es santa por nosotros, que la formamos, y que somos pecadores; lo es porque Dios la hace santa. La Iglesia es casa de armonía, en la que todos hacen el mismo canto, pero con ritmos, acentos, notas diferentes, que hacen un bellísimo canto de amor para todos los hombres. Nos necesitamos todos. Nadie sobra: judíos, griegos, esclavos libres, todos somos hijos de Dios y, por eso, hermanos. Somos hombres y mujeres en los que Jesucristo hizo «la obra nueva», dándonos su Vida misma.
Somos enviados a llevar la alegría del Evangelio, la Buena Noticia que es Jesucristo, a todo los hombres: «Id por el mundo y anunciad el Evangelio a todos los hombres». Tenemos el mandato de hacer recobrar a los hombres la confianza, la esperanza, la alegría del Evangelio, el encuentro entre los hombres, construir la cultura del encuentro. Tenemos que provocar, como el Señor, en medio de la historia de los hombres esa atracción, la misma que provocó Jesucristo en el camino de Emaús. Y todo ello porque hacemos llegar y experimentar con nuestra vida y testimonio la ternura de un Dios que es amigo del hombre, que quiere al hombre, que se da por entero a todos los hombres sin excepción, para que nosotros tengamos vida. Y la Iglesia lo hace incluso cuando los hombres hemos dilapidado lo más humano que es lo más divino, nuestro ser imagen de Dios, cuando nos han robado o nos hemos dejado robar lo más nuestro por otros ídolos. Lo hemos de hacer con paciencia, sin reproches, siempre con amor, esperanza, alegría y misericordia, saliendo permanentemente a buscar a los hombres, encontrándonos con los hombres en las realidades en la que están viviendo, no en las que nosotros creemos que debieran estar. Urge regalar y mostrar a quien puede recuperar el carácter luminoso de la existencia que nos regala Jesucristo, que, cuando se apaga, todas las demás luces acaban languideciendo. Urge anunciar a Jesucristo, su amor. La verdad de un amor no se impone con la violencia, no aplasta a la persona; cuando nace del amor puede llegar al corazón, al centro de cada ser humano, la seguridad de la fe no nos hace intolerantes, sino que nos pone en el camino verdadero y hace posible el testimonio y el diálogo con todos. Aquí está la belleza de la Iglesia: ser el Cuerpo del Señor, la presencia de Jesucristo en medio de la historia, la presencia suya con los hombres.
Queridos hermanos y hermanas: el Hijo de Dios sale a nuestro encuentro, nos acoge, se nos manifiesta y nos repite lo mismo que dijo a sus discípulos la tarde de Pascua: «Como el Padre me envió, también yo os envío» (Jn20-21). Mis palabras no quieren ser ni son mías; quien os llama es Jesucristo, centro de nuestra vida, raíz de nuestra fe, razón de nuestra esperanza y manantial de nuestra caridad. Llamados por Él a llevar la alegría del Evangelio para continuar la misión confiada a los Apóstoles y en la que cada cristiano, en virtud del bautismo y de su pertenencia a la comunidad eclesial, está llamado a participar. Os necesito; juntos estamos llamados a construir la civilización del amor, la cultura del encuentro. Frente a la maraña de problemas que existen en el mundo, ¿se puede cambiar el mundo? Frente a la impotencia que muchas veces sentimos ante realidades que están junto a nosotros, ¿tiene sentido tratar de cambiar todo esto? ¿Podemos hacer algo frente a esta situación? ¿Vale la pena intentarlo? Claro que vale la pena, pero no basta solamente con ser buenos y generosos, hay que ser audaces, inteligentes, capaces y eficaces. Pero con la bondad, la generosidad, la inteligencia, la capacidad y la eficacia que nos regala y de las que nos llena Jesucristo. Acoger su gracia, su amor, da a la existencia humana otra sensibilidad y otra manera de afrontar todo, ya que nos hace ver lo que verdaderamente vale la pena. Todo puede cambiarse; se comienza por el cambio de sí mismo, viviendo con una mente abierta y con un corazón creyente. Esta manera de vivir no puede ser impedido por nadie. Quien tiene relación con los hombres no puede aceptar un mundo donde tantos sufren y están privados de lo necesario, pues nos desvela un sistema que no es justo, que es inhumano. Son necesarias transformaciones profundas, y estoy convencido de que la fe y el amor, vividos con la intensidad y la fuerza que viene de Jesucristo, producen una cultura de la justicia, del encuentro, y eliminan la exclusión. Esto no es una utopía vaga. Los santos han hecho las revoluciones más verdaderas y los cambios más grandes. Madrid lo sabe bien pues entra en la historia de la Europa occidental, en las postrimerías del siglo XI, de la mano de grandes santos: los esposos Isidro y María. Representantes de tantas familias que en medio de las dificultades y persecuciones vivieron la fe fieles a nuestra antigua tradición hispana. Pensemos, asimismo, en este año teresiano que acabamos de inaugurar en España, donde una mujer cree de tal manera en la fuerza que Dios tiene para cambiar todas las cosas que contribuyó a que los hombres creyesen que su gracia y su amor es más fuerte que nuestras fuerzas; lo expresó con estas palabras: «Nada te turbe, nada te espante, quien a Dios tiene, nada le falta, solo Dios basta». Pensemos en el diácono san Francisco de Asís, que no cambió el mundo de su tiempo con las armas o con las argucias de la fuerza y estrategias de los hombres, sino llevando el Evangelio a las calles, a la vida cotidiana, desde la pobreza y el despojo, retornando al Evangelio, predicando la paz en un mundo violento, la conciliación con la naturaleza, elogiando la sencillez que nada tiene que ver con la ignorancia. ¡Qué fuerza tiene la misión vivida y haciéndola crecer en diálogo con la gente, con sus inquietudes y sus dolores! En nuestras grandes ciudades, que decimos secularizadas, se encuentra la Iglesia en misión con un pueblo que no está cerrado a la fe; no puedo ceder a un pesimismo estéril que se cree que los hombres han vuelto la espalda a Dios. Hoy sigue existiendo y manifestándose una inquietud religiosa viva en el corazón de las personas, que no ha sido borrada por una visión donde lo religioso se ha marginado. Y es que el pueblo sabe que el Evangelio hace la vida más plena de sentido, más feliz; hay que tener un encuentro verdadero con las personas.
Esta es la misión, a esto os invito, a llevar la alegría del Evangelio, que quiere decir salir a la ciudad, ir al encuentro, hablar de Jesús, escuchar a las personas, no tener las puertas cerradas, vivir responsablemente en la calle, invitar a la conversión personal. Sé que no es fácil. Cuando el sábado día 4 de octubre llegaba por la noche conduciendo mi coche hasta Madrid desde Valencia, después de haber tomado posesión de la archidiócesis valentina el cardenal D. Antonio Cañizares, en la noche vislumbraba desde lejos la gran ciudad de Madrid, veía las inmensas torres, las luces de la gran ciudad, y me preguntaba a mí mismo: Señor, ¡enséñame, ayúdame a ser tú en medio de esta ciudad! Si ser ciudadanos de una gran ciudad es algo complejo, imaginaos lo que es ser padre, hermano y pastor, vínculos tan distintos de historia, raza, cultura, derechos no plenamente compartidos, aunque teóricamente sean reconocidos. Pero el Señor me hizo aterrizar enseguida: nunca olvides preguntarte, ¿quién es tu prójimo? Hay que tener el Corazón de Cristo, porque una visión amplia como la que hoy podemos tener de todas las situaciones en las que viven los hombres nos puede hacer olvidar que el corazón tiene que palpitar. Sin corazón nos hacemos indiferentes; globalicemos el corazón, no globalicemos la indiferencia que nos quita la capacidad de llorar y de preguntarnos quién es mi prójimo. No tenemos la solución para todo, pero si se prima el corazón y no se cierra, pronto hay soluciones. Hay que tener proyectos, y es imposible hacerlos desde la confrontación, desde la falta de acuerdos, desde el conflicto; se pueden hacer si cultivamos y construimos la cultura del encuentro, donde el acuerdo es más importante que el conflicto, donde la unidad tiene más fuerza que la dispersión. Estamos llamados y os invito a descubrir juntos cómo pasar de una pastoral de mera conservación a una pastoral decididamente misionera, ya que la salida misionera es el paradigma de toda obra de la Iglesia. Seamos audaces y creativos, no caminemos solos: sabemos que el Señor va el primero; involucremos nuestra vida en todas las situaciones que viven los hombres, acompañemos y festejemos la vida. Y todo ello realizado desde la cercanía, la apertura al diálogo, la paciencia y la acogida cordial, vividas como nuestro Señor, que vino a salvar y no a condenar. Por todo ello:
Gracias a todo el presbiterio diocesano; sois muchos sacerdotes, pronto estableceré encuentros con vosotros, estoy seguro de que se pueden establecer cauces para poder estar con vosotros y podernos ayudar a vivir lo que el apóstol Pedro nos pedía: «Pastoread el rebaño de Dios que tenéis a vuestro cargo, mirad por él, no a la fuerza, sino de buena gana, como Dios quiere; no por sórdida ganancia, sino con entrega generosa; no como déspotas con quienes os ha tocado en suerte, sino convirtiéndoos en modelos del rebaño» (1 Pe 5, 2-3). Gracias, queridos hijos y hermanos, por vuestra ayuda; nunca os canséis de ser misericordiosos, llevad la alegría del Evangelio.
Gracias, queridos seminaristas, los del seminario metropolitano y los del seminario misionero. ¡No tengáis miedo! El tiempo que os toca vivir es apasionante para anunciar a Jesucristo. Os acompañaré en vuestro itinerario. En mi vida siempre ha existido una predilección por quienes habéis escuchado al Señor, que os decía de formas muy diferentes «sígueme». No en vano el Señor me regaló veinte años de mi vida como rector del seminario de Monte Corbán de Santander. Allí se establecieron vínculos fuertes con el seminario de Madrid, desde los cursos de verano que celebramos. Habéis sido llamados por Dios para anunciar el Evangelio y para ser servidores de la comunión y promover la cultura del encuentro. Gracias también a vuestros rectores y formadores.
Gracias a los diáconos que habéis asumido el ministerio de manera permanente, y a vuestras familias. Sois una aproximación de Jesucristo con vuestro ministerio en la gran tarea de hacer visible el amor del Señor, que es comprensivo, servicial, no engreído, no tiene envidia, sirve, disculpa y aguanta siempre. Estad, servid y acompañad como lo hicieron los primeros diáconos a los más pobres. Ayudadnos a hacer nuestro el sueño de Dios.
Gracias a todos los miembros de la vida consagrada, monjes y monjas, religiosos, religiosas, institutos seculares, sociedades de vida apostólica, nuevas formas de vida consagrada y vírgenes consagradas. Sois un regalo en la Iglesia para todos los hombres. Sois el referente para la oración y la oblación. Estáis presentes en ámbitos muy diversos de la existencia de los hombres, que abarca un arco que va desde el mismo inicio de la vida hasta su término. Anunciáis a Jesucristo en campos muy diversos, muchos estáis presentes en la tarea de eliminar las nuevas esclavitudes que aparecen en nuestro mundo sin decir nada, viviendo, amando y regalando la presencia sanadora de Jesucristo. Gracias por vuestra entrega profética. Quiero tener un encuentro pronto con vosotros. Os acompañaré y me acompañaréis en el llevar la alegría del Evangelio a todos.
Gracias a todos los misioneros que en diversas partes del mundo habéis salido de esta Iglesia que camina en Madrid para realizar la misión ad gentes. Queridos misioneros y misioneras, gracias por haber salido de vosotros mismos y haberos encontrado con Jesucristo, que os impulsó s salir de vuestra tierra para llevar a otros de otras culturas el Evangelio. Recibid mi afecto, y pensad que desde este momento mi oración se dirigirá al Señor para que os dé su sabiduría en el lugar en que os encontréis.
Gracias, queridos laicos. Sois la mayoría en el Pueblo de Dios. Estáis presentes en todos los ambientes y estructuras de este mundo. Sed discípulos misioneros allí donde estéis. Sed valientes. En virtud del bautismo recibido y la fuerza del Espíritu os habéis convertido en discípulos misioneros. No caminéis solos. En vosotros, los laicos, veo a las familias, a los niños, a los jóvenes, a los ancianos. Como nos recordó el Concilio —del que estamos celebrando su 50.º aniversario— y nos recuerda el magisterio constante de la Iglesia: la familia cristiana tiene una importancia capital, es la primera y más básica comunidad eclesial. Muchas veces vine a Madrid para ayudar a quien fundó y donó la “casa de la familia”. No tengamos actitudes de lloro y desaliento, seamos audaces y creativos, hagamos posible que las familias cristianas sean familias misioneras que salen de sí mismas, realizan gestos evangélicos, en las que sus miembros se acompañan en todos los procesos de sus vidas, celebran todos los pasos de su vida cristiana, dialogan, acogen, miran respetuosamente, oran juntos, saben reconocer juntos las huellas de Dios, celebran el día del Señor, el domingo, con expresiones que fortalecen su amor, un amor que ha de expandirse. Una palabra de aliento y esperanza para tantas familias que sufren aún la lacra del paro o que experimentan en sus miembros la enfermedad, la soledad o un sinfín de problemas. Una palabra de acogida a tantas familias emigrantes —en su expresión multirracial y cultural— que buscan en las poblaciones de nuestra diócesis un futuro mejor. Una palabra de respeto y de cariño a los más ancianos.
Permitidme que me dirija a los jóvenes. Desde que fui ordenado presbítero he estado siempre sirviendo con una dedicación especial a los jóvenes. Os invito a poner en práctica el «mandamiento nuevo». Oponeos a lo que parece hoy la derrota de la civilización, reafirmando con energía la civilización del amor y la cultura del encuentro. Dad un testimonio grande de amor a la vida, don de Dios, luchad contra la pretensión de hacer del hombre el árbitro de la vida del hermano. Vosotros, que de forma natural e instintiva hacéis del deseo de vivir el horizonte de vuestros sueños y esperanzas, transformaos en profetas de la vida con palabras y obras, revelaos contra la civilización del egoísmo y del descarte, que considera a la persona humana un medio y no un fin. Os veré pronto; mantendré encuentros con vosotros los primeros viernes de cada mes a las 10 de la noche en la catedral. Os comunicaré cuándo comenzaremos. Os invito a todos los jóvenes cristianos a que invitéis a otros jóvenes, os pido a los presbíteros y miembros de la vida consagrada, que acompañéis esta acción de comunión y misión. Os quiero y os necesito para anunciar a Jesucristo. Gracias.
Quien hace un momento nos dijo «Amarás al Señor con todo tu corazón, alma y ser, y al prójimo como a ti mismo» se hace realmente presente entre nosotros, quiere que esto lo hagamos con la fuerza de su amor y de su gracia. Encomendad mi ministerio episcopal que hoy comienzo en esta Iglesia que camina en Madrid a todos los santos que han jalonado su centenaria historia y nos enseñan en la escuela de Cristo Maestro. Encomendadme, especialmente, a la Madre, a la Toda Santa: la Santísima Virgen María, en esta advocación entrañable de la Almudena, para que Ella me comunique el secreto de cómo acoger y presentar a su Hijo en la vida de quienes Él me encomienda para hacer lo que Él nos diga. «Salve, Señora de tez morena, / Virgen y Madre del Redentor. / Santa María de la Almudena, / Reina del cielo, Madre de amor». Amén.  
             + Carlos, Arzobispo de Madrid.

*

L'Amore comanda di amare

Lectio Divina per la 30ª Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 30ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A.
Come di consueto, il presule offre anche una lettura patristica.
***
LECTIO DIVINA
Rito Romano – XXX Domenica del Tempo Ordinario -  Anno A – 26 ottobre 2014
Es 22,21-27; Sal 17; 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40

Rito Ambrosiano - Domenica dopo la Dedicazione – ‘Il mandato missionario’At 10,34-48a; Sal 95; 1Cor 1,17b-24; Lc 24,44-49a
1) L’Amore totale. Gesù è stato tra gli uomini e Lui, l’Emmanuele, vi resta perché ci ama. Per accorgerci di questo amore e viverne dobbiamo prima di tutto essere semplici. I semplici, come i bambini, sentono “d’istinto” chi li ama, gli credono, e sono felici quando arriva - anche il viso diventa subito un altro - e il loro volto si intristisce quando riparte. Questi semplici, questi poveri ascoltano Cristo perché capiscono che è venuto apposta per loro, per annunziare loro la buona e lieta novità dell’Amore di Dio. Nessuno aveva parlato di loro come Lui. Nessuno aveva mostrato di amarli tanto.
Quando Gesù aveva finito di parlare si accorgevano che gli anziani, i farisei, gli uomini che sapevano leggere e guadagnare, scuotevano la testa in atto di malaugurio, e si alzavano storcendo la bocca e ammiccando tra loro, fra dispettosi e scandalizzati, borbottando una cauta disapprovazione.
Ma nessuno rideva, per paura degli ultimi: i Poveri, i Pastori, i Contadini, gli Ortolani, i Fabbri, i Pescatori, i Lebbrosi, insomma i Rifiutati. Questi non potevano staccare gli occhi da Gesù. Avrebbero voluto che continuasse ancora a parlare, perché un sollievo di luce veniva (e viene) dalle sue parole di sapiente amore.
Queste parole d’amore Gesù le dice pure per chi lo interroga, anche se lo fa per metterlo alla prova. Al dottore della Legge che Gli chiede: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento1?” Gesù dà una risposta semplice ed efficace e cita due versetti della Torah che racchiudono l’esperienza di Israele, ricordandoci che solo amando Dio con tutto noi stessi saremo in grado di amare veramente il prossimo, perché lo ameremo con lo stesso amore di Dio. Cristo ribadisce che tutto il cuore, l’anima, la mente sono attratti dall'amore eterno di Dio, e ci dice anche che dei due comandi, antichi e noti, il secondo è simile al primo. Il prossimo allora diventa simile a Dio, e ha voce e cuore “simili” a Dio. Dio non riserva lo spazio del nostro cuore solo per Lui, ma lo amplifica e ci rende capaci di amare di un amore pieno il prossimo: la moglie, il marito, i figli, gli amici, i fratelli e le sorelle della comunità.
Al sapiente della Legge Gesù risponde da Sapiente del cuore. Lui sa che la creatura ha bisogno di molto amore per vivere bene. E offre il suo Vangelo come via per la pienezza e la felicità di questa vita. “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Mt 22, 37). Per tre volte nel vangelo di Matteo, quattro volte in quello di Marco che aggiunge “con tutte le tue forze” (Mc 12, 30), Gesù ripete che l’unica misura dell’amore è amare senza misura.. Se amiamo Dio senza mezze misure, il cuore è capace di amare i tuoi familiari, gli amici, noi stessi, Dio non è geloso, non ruba il cuore: lo moltiplica. Totalità non significa esclusività, dunque:
Ama Dio
con tutto il cuore: Gesù non parla di “cuore” col significato che oggi daremmo noi a questa parola. Egli la usa in senso biblico, come termine che esprime la realtà più profonda della persona umana. “Amare Dio con tutto il cuore” vuol dire allora voltare tutto il proprio essere e il proprio agire verso Dio, in uno slancio di amore.
-“Con tutta l'anima”, che vuol dire la vita, il nostro “spazio intimo” abitato da Dio.“L'amore è l’ala, che Dio ha dato all’anima per salire sino a lui” (Michelangelo Buonarroti). Chi ama con l’anima vede meglio che con gli occhi e il suo amore è puro.
Con tutta la mente, la quale racchiude il pensiero e l’intelligenza. L’amore rende intelligenti, fa capire prima, andare più a fondo e più lontano.
Con tutte le forze, che vuole dire l’insieme di tutte le energie. L’amore rende forti, capaci di affrontare qualsiasi ostacolo e fatica.
2) Due caratteristiche dell’amore vero: grato e gratuito.
Nel Vangelo di Matteo, che la Liturgia ci propone oggi, ritroviamo Gesù alle prese con i farisei, che vivevano nella tentazione di ridurre la morale a una serie di norme esteriori preoccupandosi solo dell'apparenza.

La risposta del Messia è semplice ed efficace e cita due versetti della Legge dell’Antico Testamento, la Torah, che racchiudono l’esperienza di Israele, ricordandoci che solo amando Dio con tutto noi stessi saremo in grado d'amare veramente il prossimo, perché lo ameremo con lo stesso amore di Dio.
Da dove cominciare per amare? Dal lasciarsi amare da Lui, che entra, dilata, allarga le pareti di questo piccolo vaso che è ciascuno di noi. Noi siamo degli amati che diventano amanti di Cristo. La conseguenza, come la si vede in una coppia di innamorati in cui uno ama ciò che l’altro ama, è che dobbiamo amare quello che Cristo ama. E non solo: dobbiamo amare come Lui ama.
Dunque dobbiamo vivere Cristo come ideale della nostra vita. E cosa vuol dire che Cristo è l’ideale della nostra vita? E’ l’ideale per il modo con cui trattiamo le persone, per il modo con cui viviamo l’affetto, con cui concepiamo la vita e guardiamo alle cose e alle persone. Con cui viviamo i rapporti in famiglia, in parrocchia, in comunità sul posto di lavoro. Cristo quale ideale della vita pone due caratteristiche, non sono le sole ma oggi sottolineo queste: la gratitudine e la gratuità.
Un cuore grato è sempre un cuore fedele e la capacità di essere grati, di dire: “grazie”, è il segno –secondo me- della maturità cristiana.
Ci sono momenti nella vita - credo valga per tutti- in cui si sperimenta, già qui sulla terra, il ‘paradiso’, la vera grandezza e bellezza dell’uomo, ed è stato quando ci si è sentiti amati da qualcuno (mamma, papà, fidanzato/a, moglie, marito). Un’esperienza di amore, quello vero, quello del cuore, che non ho dubbi di poterla paragonare ad un ‘assaggio’ di Paradiso e di dire che il modo migliore di gustarla è quella di dire : “Grazie”, riconoscendo che non ci facciamo da noi, che tutto ci è donato. La gratitudine poi innesta in noi la gratuità: ami senza pensare di essere amato. Guardi all’Altro e all’altro, come la Madonna guarda a Cristo: non perché è suo, ma perché c’è.
Questa è la purezza assoluta. Facciamo umilmente lo sforzo di immedesimarci in questa assolutezza della purezza. Una purezza di gratuità che rende la vita incorruttibile: Nella gratuità il rapporto umano non è caduco, perché con Cristo e in Cristo non si sta insieme per un interesse, per un calcolo, per un tornaconto, ma per fede e per amore.
Certo, l’amore per Dio è il più grande e il primo: il primato di Dio è affermato senza esitazione. L’amore per l’uomo viene per secondo. Dicendo però che “il secondo è simile al primo”, Gesù afferma che tra i due comandamenti c’è un legame molto stretto.
Certo è diversa la misura: l’amore per Dio è “con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente”. L'amore per l’uomo è “come se stessi”. La totalità appartiene solo al Signore: Lui solo deve essere adorato. Ma l’appartenenza al Signore non può essere senza l’amore per l'uomo. Non si tratta di due comandamenti paralleli, semplicemente accostati. E neppure basta dire che il secondo si fonda sul primo. Molto di più: il secondo concretizza il primo.
Un esempio di come vivere questi due comandamenti lo possiamo vedere nelle Vergini consacrate nel mondo. Il loro stile di vita e il loro modo di essere è quello di partire dalla loro consacrazione a Dio e parlare sempre di Dio soprattutto con la testimonianza della vita. Queste donne mostrano che Dio va sempre messo al primo posto e che l’essere umano è fatto per Dio: ecco ciò che non va mai dimenticato, neppure là dove la povertà e l’ingiustizia sono grandi, là dove la società tende a costruirsi senza Dio e ciò è sempre contro l’uomo. Queste consacrate vivono la vita come missione e con la grazia di Dio mostrano che è possibile amare castamente, perdonare completamente, servire gratuitamente e gioiosamente. In loro il cuore ha preso il comando, ma è il Cuore di Cristo.
*
LETTURA PATRISTICA 
Sant’Agostino d’Ippona (+ 430)
Sermo 34, 7-8
       Bene, fratelli miei, interrogate voi stessi, scuotete le celle interiori: osservate, e vedete bene se avete un po’ di carità, e quel tanto che avrete trovato accrescete. Fate attenzione ad un tale tesoro, perché siate ricchi dentro. Certamente, le altre cose che hanno un grande valore, vengono definite «care»; e non invano. Esaminate la consuetudine del vostro linguaggio: questa cosa è più cara di quella. Che vuol dire è più cara, se non che è più preziosa? Se si dice più cara, cos’è più prezioso; cos’è più caro della carità stessa, fratelli miei? Qual è, riteniamo, il suo valore? Da dove deriva il suo valore? Il valore del frumento: il tuo danaro, il valore di un fondo: il tuo argento; il valore di una gemma: il tuo oro; il valore della carità sei tu stesso. Tu chiedi peraltro di sapere come possedere il fondo, la gemma, il frumento; come comprare e tenere presso di te il fondo. Ma se vuoi avere la carità, cerca te e trova te. Hai paura infatti di darti per non consumarti? Anzi, se non ti doni, ti perdi. La stessa carità parla per bocca della Sapienza, e ti dice qualcosa perché non ti spaventi quanto vien detto: Dona te stesso. Se uno infatti ti vuol vendere un fondo, ti dirà: Dammi il tuo oro; e chi ti vuol vendere qualcos’altro: Dammi il tuo danaro, o dammi il tuo argento. Ascolta ciò che ti dice la carità per bocca della Sapienza: "Dammi il tuo cuore, figlio mio" (Pr 23,26). «Dammi», dice: cosa? «Il tuo cuore, figlio mio». Era male quando era da te, quando ti apparteneva: infatti eri portato alle futilità ed agli amori lascivi e perniciosi. Toglilo di là. Dove lo porti?Dammi, egli dice, il tuo cuore. Sia per me, e non si perda per te. Osserva, infatti, cosa ti dice, allorché vuole rimettere in te qualcosa, perché tu ami soprattutto te stesso: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente" (Mt 23,37Dt 6,5). Cosa rimane del tuo cuore, per amare te stesso? Cosa della tua anima? E cosa della tua mente? Con tutto, egli dice. Tutto te stesso esige, colui che ti ha fatto.
       Però, non esser triste quasi non ti resti nulla di che rallegrarti in te stesso. "Gioisca Israele", non in sè, "bensì in colui che lo ha fatto" (Ps 149,2)
       "Il prossimo quanto deve essere amato?" Risponderei e direi: Se nulla mi è rimasto, come mi amerò; poiché mi si ordina di amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente colui che mi ha fatto, in che modo mi si ordina il secondo precetto di amare il prossimo come me stesso? Il che è più che il dire di amare il prossimo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. In che modo? "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt 22,37Mt 22,39). Dio con tutto me stesso: il prossimo come me. Come me, così te? Vuoi sentire come ti ami? Per questo ti ami, poiché ami Dio con tutto te stesso. Ritieni infatti di avanzare con Dio, perché ami Dio? E poiché ami Dio, si aggiunga qualcosa a Dio? E se non ami, avrai di meno? Quando ami, tu progredisci: lì tu sarai dove non perirai. Ma mi risponderai e dirai: Quando infatti non mi sono amato? Non ti amavi affatto, quando non amavi Dio che ti ha fatto. Anzi quando ti odiavi credevi di amarti. "Chi infatti ama l’iniquità, odia la sua anima" (Ps 10,6).
*
NOTE
1 E’ utile ricordare che i rabbini avevano ricavato dalla Torah ben 613 precetti, così da applicare a tutte le situazioni possibili della vita le norme sempre prioritarie dei 10 comandamenti. Ovviamente anche il giudeo più rigorosamente osservante doveva smarrirsi in quella selva di prescrizioni e quindi i maestri ebrei cercavano di individuare una gerarchia, opportune distinzioni e soprattutto un principio unificatore di tanti dettami; di qui la domanda a Gesù.