sabato 27 settembre 2014

Il cielo nella stanza dei gentili




​L’ipotesi arriva nel cuore di un duetto che, vista la partecipazione, è stato tanto inedito quanto di alto profilo: «Se io dovessi credere, dovrebbe essere in un Dio d’amore». Gino Paoli (il “grande poeta”, come lo apostrofò Indro Montanelli) si lascia andare all’eventualità. Lui, che si è più volte auto-definito «orgogliosamente anarchico e dichiaratamente agnostico», s’incontra con un uomo di Chiesa, quel cardinale Gianfranco Ravasi che, da presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, ha messo in moto il Cortile dei gentili, luogo di spazio e di incontro tra chi crede e chi considera Dio “uno Sconosciuto” – confronto sollecitato da Benedetto XVI nell’ormai lontano 2009. 

Teatro della nuova tappa del Cortile è Bologna, l’ateneo più antico del mondo, nella sua aula magna gremita in ogni posto per l’inizio di una tre giorni densa di parole e evocazioni (mentre ai primi di novembre si annuncia una nuova tappa a Pavia, la terra di Agostino; quindi sarà la volta della bergogliana Buenos Aires e, nel 2015, Chicago, Brasile e Cile). 

E il dialogo – sollecitato, con grazia e una buona dose di remissività, dal giornalista e scrittore Beppe Severgnini – non potrebbe essere più fitto tra due personalità così diverse, in apparenza, ma che vanno scoprendosi accomunate da più di un elemento. Ravasi e Paoli però non cedono al buonismo, ma di volta in volta impugnano il fioretto o si ritrovano inconsapevolmente a citare gli stessi autori. Così, quando in apertura Paoli qualifica come «uomo dogmatico» Ravasi, il porporato lombardo non ci sta. E ci tiene a precisare di «volersi allontanare un pochino dalla definizione che lei mi ha dato. Dogmatico è un’espressione che richiama la geometria e la matematica, mentre la fede è un’esperienza di intelligenza e di amore. La storia di ogni credente è faticosa, passa attraverso il dubbio. Basta leggere Qoelet». 
E il cantautore genovese rilancia dichiarandosi «agnostico», ovvero «non sono in grado di decidere se Dio esiste o no». E, forse inconsciamente, cita Blaise Pascal laddove afferma che «ci vuole la stessa incoscienza o sapienza per affermare che Dio esiste o che non esiste, visto che non ci sono prove a favore dell’una o dell’altra ipotesi. Io mi sono informato, ho letto la Bibbia e il Corano: non si può credere o non credere in Dio come si fa il tifo per la Sampdoria. Bisogna informarsi e leggere, poi la scelta sta a noi». 

Le assonanze, si diceva: Paoli annuisce convinto quando Ravasi ricorda una celebre frase di Lutero («Dio preferisce la blasfemia del disperato che non la lode del borghese della domenica»); entrambi gli interlocutori scoprono di avere nel poeta Giorgio Caproni e nel romanziere Henry Miller alcune delle loro letture abituali: «Miller l’ho letto tutto», annota Paoli. Ma Ravasi sembra cogliere nel segno quando cita La sapienza del cuore, piccolo saggio dello scrittore yankee: «L’arte e la religione non servono a niente se non a mostrare il senso della vita». «E Miller ha cercato sempre una sua salvazione», puntualizza il cantautore-poeta. Dimensione, quella poetica, che Ravasi mette in stretta relazione con la fede perché «rimanda sempre a un altro e a un altrove».

C’è poi spazio per un nuovo duello di fioretto. Paoli annota che «ogni male del mondo serve anche per far risaltare il bene che esiste. Io ero amico di don Gallo: lui conosceva per nome tutti i disgraziati e disperati di Genova. La povertà che esiste nel mondo mette in evidenza anche la generosità di tanti». Ma qui l’uomo di musica, agnostico, punzecchia il rappresentante della gerarchia: «Mi può spiegare perché in nome della divinità, ieri cristiana oggi musulmana, ci si sente autorizzati a eliminare gli altri?». Ravasi risponde anzitutto con una citazione del filosofo David Hume, «gli errori della filosofia sono ridicoli, quelli della religione pericolosi». 

Ed evidenzia come «la libertà dell’uomo può prendere in mano una fiamma così esplosiva, che ha condotto uomini di fede a compiere grandi cose nella storia, per fare il male. Bisogna essere attenti quando si maneggia la religione». Ravasi conclude con un apologo tibetano che parla di un uomo nel deserto che vede all’orizzonte una figura minacciosa farsi avanti: «Solo quando era davanti a lui riconobbe che era suo fratello che non vedeva da anni». 

Le parole lasciano spazio infine alle note per un concerto di Paoli accompagnato dal pianista Danilo Rea. Musica che l’attento pubblico falsineo segue con partecipazione e religioso (è il caso di dirlo) silenzio: «Una tradizione ebraica ci dice – chiosa Ravasi – che la musica è nata da una scala discesa dal cielo e dimenticata dagli angeli». «Dopo queste parole, come si fa a iniziare a cantare?», si chiede Paoli. Al quale, non a caso, si deve un titolo memorabile: Il cielo in una stanza.
Avvenire